I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c3
Si è visto (retro, parag. 1) come a fronte di tassi d’inflazione particolarmente elevati, quali quelli ancora correnti nel nostro paese all’inizio dell’83, quando si diede avvio all’esperimento di politica dei redditi, difficilmente i sindacati si mostrino disponibili a rinunciare a forme, più o meno incisive, di indicizzazione delle retribuzioni. La medesima osservazione, specularmente rovesciata, sembra attagliarsi a una situazione, come l’attuale, in cui l’azione salariale del sindacato deve tener conto di tassi d’inflazione ancora alquanto elevati (soprattutto in rapporto ai livelli ri
¶{p. 332}scontrabili nelle altre economie industriali), ma comunque in fase calante. In condizioni del genere, se si è anche scelto di praticare una politica dei redditi, intesa nel senso che «a causa della congiuntura economica, non si può far altro che mantenere il salario reale», acquista particolare forza la constatazione che le clausole di indicizzazione comportano per i sindacati «lo svantaggio rilevante di rendere completamente superflua l’autonomia contrattuale»
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o, almeno, di comprometterne pesantemente le modalità di esplicazione.
È opportuno precisare, a questo punto, che l’affermazione non potrebbe facilmente liquidarsi come frutto di ragionamento accademico o astrattamente deduttivo. Al contrario, essa trae solido fondamento dalla realtà delle relazioni industriali di paesi diversi dal nostro e con maggiore consuetudine nella pratica delle politiche dei redditi. In effetti, in sistemi dove queste ultime risultano ampiamente consolidate (Austria, Svezia), le clausole di indicizzazione salariale non trovano riscontro alcuno
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; altrove sono state introdotte proprio quando si allentavano le maglie della politica dei redditi o quasi completamente abbandonate proprio in concomitanza con l’adozione di tale politica
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.
Se non si è forzato troppo lo svolgimento dell’analisi, la conseguenza da trarre investe necessariamente la fondatezza dell’attuale politica salariale dei sindacati e, in particolare, la plausibilità della più recente proposta sindacale di riforma della scala mobile, nonché dei successivi esiti normativi, conseguenti, per un verso, all’intesa col governo relativa alle modalità di indicizzazione delle retribuzioni dei dipendenti pubblici (art. 16 d.p.r. 1° febbraio 1986, n. 13), per altro verso all’impossibilità di raggiungere un accordo di segno analogo nel settore privato (legge 26 febbraio 1986, n. 38). Non solo, infatti, con quella proposta non si è concesso spazio alcuno all’ipotesi di una fissazione per legge della misura del salario minimo; ma si è continuato, palesemente, a ¶{p. 333}riguardare la scala mobile come cardine del sistema salariale, in quanto strumento generalizzato di adeguamento delle retribuzioni, con l’aggravante, se le cose dette hanno un senso, di non circoscrivere l’indicizzazione a una quota salariale (minima) eguale per tutti, ma di prevedere l’«ulteriore indicizzazione parziale, nella misura del 30%, delle residue quote retributive»
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Proposte simili, in passato, erano state autorevolmente criticate per la loro inopportuna macchinosità
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. Quella in esame è stata, non meno seccamente, contestata sostenendosi che essa «in realtà non si fa carico adeguatamente né dell’obiettivo della stabilità dei prezzi, né di quello della tutela del salario reale»
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. Si può aggiungere che essa può risultare una coperta troppo corta per coprire esigenze assai diverse fra loro, correndo il rischio di scontentare tutti i diretti interessati. L’obiettivo, sicuramente riconoscibile nel progetto sindacale, di attenuare l’effetto di appiattimento del ventaglio retributivo, derivante dal punto unico di contingenza, appare, infatti, perseguito in misura alquanto contenuta: ad esso risulta funzionale il sensibile abbassamento nel grado di copertura dall’inflazione dei salari più bassi, cui peraltro non corrisponde un incremento della protezione automatica delle retribuzioni più elevate di entità tale da rendere il meccanismo particolarmente gratificante per i percettori delle stesse. Per altro verso, pur prevedendosi un’attenuazione del grado di copertura medio, si è continuato a rivendicarne un livello ancora assai soste¶{p. 334}nuto; cosicché è giocoforza pensare che, al di là delle affermazioni di principio sull’opportunità di ridare ampio spazio alla negoziazione diretta dei salari, i sindacati ritengano «che, anche per il futuro, gli automatismi salariali debbano avere la prevalenza rispetto alla contrattazione»
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.
I medesimi rilievi possono rivolgersi, com’è ovvio, alla disciplina della scala mobile che, sulla falsariga del modello concordato per il pubblico impiego, è stata estesa al settore privato dalla legge n. 38/1986: non essendo certamente sufficienti lievi riduzioni quanto ai livelli di retribuzione coperti dall’indicizzazione (le prime 580 mila lire mensili indicizzate al 100%, più un’ulteriore indicizzazione del 25% sulle quote di retribuzione superiori al livello minimo), rispetto alle iniziali richieste sindacali, per indurre a mutare il tenore del ragionamento sin qui condotto.
La legge 26 febbraio 1986, n. 38 si presterà, con tutta probabilità, ad essere discussa anche dal punto di vista della legittimità costituzionale. Obiezioni da questo versante, peraltro, dovrebbero ritenersi nel caso di specie, almeno a prima impressione, prive di fondamento. L’intervento del legislatore, infatti, sembra aver rispettato, in questa occasione, tutte le condizioni che si sono indicate (v. retro, parag. 4) come necessarie per garantirne la conformità ai parametri fissati dalla Carta fondamentale. Con riferimento, in particolare, al principio di libertà sindacale, eventuali censure in proposito dovrebbero tener conto che la legge questa volta, diversamente da quanto accaduto coi decreti nn. 10 e 70 del 1984, è intervenuta in assenza di disciplina collettiva della scala mobile, essendo stata disdetta quella preesistente dalla Confindustria e dalle altre organizzazioni degli imprenditori; che essa risulta di durata circoscritta (prevedendosene la vigenza fino al 31 dicembre 1989); e, al tempo stesso, non corredata da clausole di inderogabilità assoluta.¶{p. 335}
La previsione, contenuta nell’art. 1 co. 2°, a mente della quale «sono nulle e vengono sostituite di diritto dalla norma di cui al comma 1° le clausole di accordi o contratti collettivi vigenti, in contrasto con la predetta norma», pare, infatti, essere rivolta al passato, alle discipline contrattuali già esistenti in materia, senza pregiudicare, in maniera cogente, future determinazioni al riguardo dell’autonomia collettiva.
Per altro verso non può ignorarsi come, nella vicenda specifica, la libertà delle scelte sindacali sia stata ampiamente rispettata vuoi perché la nuova disciplina legale della contingenza rispecchia sicuramente gli intendimenti affermatisi nelle organizzazioni dei lavoratori (e anche degli imprenditori che, infine, avevano espresso il loro assenso mediante dichiarazioni unilaterali di adesione); vuoi perché, a ben guardare, neppure può sostenersi con sicurezza che si sia in presenza di una «legificazione» dell’indicizzazione salariale, essendosi il legislatore limitato a stabilire che «i datori di lavoro appartenenti a categorie per le quali sono stati stipulati accordi o contratti collettivi nazionali, che prevedano meccanismi di adeguamento automatico della retribuzione per effetto di variazioni del costo della vita, sono tenuti a corrispondere il predetto adeguamento» nella misura e con le cadenze dettate dall’art. 16 del d.p.r. 1° febbraio 1986, n. 13 per i dipendenti pubblici.
Come dire che i contratti collettivi risultano vincolati quanto a criteri di calcolo e cadenze della scala mobile, ma restano, in ultima analisi, arbitri della scelta dell’esistenza, o meno, di un sistema di indicizzazione: potendo, in ipotesi, perfino orientarsi per una sua radicale soppressione.
Ad una scelta del genere non sarebbe stato, forse, impossibile approdare con uno sforzo maggiore di calibrare le modalità della riforma rispetto a quelli che appaiono al momento presente e, verosimilmente, per una fase non breve, gli obbiettivi assegnati alla politica salariale: consolidare il processo di rientro dall’inflazione; mantenere il potere d’acquisto delle retribuzioni; mantenere (o recuperare) il controllo sui salari di fatto. Sull’inerenza delle due ultime finalità alla logica dell’azione sindacale non occorre spendere parole; si può, invece, constatare come, allo stato, anche il primo degli obbiettivi indicati non appaia più imposto dall’esterno alle organizzazioni dei lavoratori, le quali possono, al contrario, riconoscervi un interesse proprio, se è vero che «l’inflazione diversifica profondamente le situazioni dei vari soggetti economi¶{p. 336}ci, finendo con il rendere più conveniente lo sforzo di adattamento individuale su quello collettivo ed organizzato»
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e vanificando i tentativi sindacali di controllare le retribuzioni di fatto.
Ora, se è vero che meccanismi generalizzati di indicizzazione delle retribuzioni, pur non essendo alle origini dei fenomeni inflattivi, tuttavia contribuiscono a propagarne gli effetti nel sistema economico, l’obiettivo di coniugare l’abbassamento del tasso d’inflazione alla difesa del salario reale sarebbe dovuto sembrare più facilmente praticabile affidando integralmente alla contrattazione periodica la definizione degli incrementi retributivi. L’analisi comparata attesta che, almeno in linea di massima, le diversità esistenti fra i vari possibili meccanismi di indicizzazione o anche la totale mancanza di essi non paiono avere incidenza sul potere d’acquisto dei salari
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. Il rilievo dovrebbe valere, a più forte ragione, in un contesto di politica dei redditi, stante la possibilità di commisurare l’entità delle rivendicazioni salariali in coerenza all’andamento programmato dell’inflazione.
Non si ignorano, naturalmente, le obiezioni che si potrebbero formulare alla proposta avanzata. È stato sostenuto, in particolare, che sarebbe «grande in Italia l’incertezza nella previsione del tasso d’inflazione», cosicché «i sindacati si dovrebbero cautelare commisurando gli aumenti richiesti del salario nominale sempre alla più alta delle previsioni disponibili»
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. La conseguenza, evidentemente, si esporrebbe a valutazioni in termini negativi dal punto di vista del contenimento dell’inflazione. Occorre precisare, però, che non si tratta affatto di una conseguenza inevitabile. I sindacati, infatti, potrebbero ben modulare le rivendicazioni salariali in conformità alla dinamica inflattiva realisticamente prevedibile, qualora potessero disporre, almeno nella fase iniziale di sperimentazione del funzionamento del nuovo sistema di negoziazione delle retribuzioni, di una clausola di garanzia, a tutela del valore reale dei salari e ad azionamento automatico, una volta che l’inflazione effettiva si fosse spinta al di là della soglia di quella programmata. Si tratterebbe, com’è evidente, di un capovolgimento nella logica dell’indicizzazione: quest’ultima, da elemento
¶{p. 337}caratterizzante del sistema salariale, verrebbe ridotta al rango di aspetto eventuale, «meccanismo potenziale di difesa»
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delle retribuzioni, destinato, in condizioni di sostanziale normalità del ciclo economico, a restare inattivo.
Note
[364] Le citazioni sono da Daubler, Diritto sindacale, cit., p. 141.
[365] Va precisato che in Svezia si è talvolta prevista una forma di indicizzazione «debole», vale a dire una clausola di riapertura del negoziato salariale, peraltro accompagnata da una soglia di scatto tale che il funzionamento della clausola non ha mai avuto modo di concretizzarsi: cfr. Bit, L’indexation, cit., p. 46 s.
[366] Cfr. ancora Bit, op. cit., con riferimento rispettivamente al caso dell’Olanda (p. 30 ss.) e della Gran Bretagna (p. 55 s.).
[367] La Piattaforma Cgil-Cisl-Uil per il confronto con il governo e le controparti pubbliche e private può leggersi in «Conquiste del Lavoro», n. 29-30, 1985, p. 12 s. La proposta sindacale ipotizzava: a) indicizzazione piena, nella misura del 100%, di un livello retributivo pari a 600 mila lire mensili a base mobile e a cadenza semestrale; b) ulteriore indicizzazione parziale, nella misura del 30%, delle residue quote retributive rappresentate dalle differenze tra il livello indicizzato al 100% ed i livelli retributivi costituiti dalla somma dei minimi tabellari mensili e dell’indennità di contingenza. Fatta eccezione per la cadenza dell’adeguamento (che veniva prospettata come «mobile», dipendente da un meccanismo a soglia), sembra evidente l’affinità con le proposte di fonte Cgil ricordate in nota 354. Per un’illustrazione dei dettagli tecnici dell’ipotesi sindacale unitaria cfr. Di Vezza, Da una a più scale, in «Conquiste del Lavoro», n. 31, 1985, p. 5.
[368] Si v. le opinioni di Dell’Aringa e Sylos Labini, con riferimento alla c.d. «proposta Garavini», in Sette economisti per sette pareri, in «Pol. ed Econ.», 1984, n. 4, p. 14 ss.
[369] Visco, Come difendere il salario reale, in «a Repubblica», 31 luglio 1985.
[370] Id., op. cit. Significative, del resto, appaiono le dichiarazioni a più riprese rilasciate da esponenti della Confidustria sulla irrisorietà dei margini di negoziazione salariale che residuerebbero per i contratti collettivi di categoria a seguito dell’adozione del nuovo sistema di indicizzazione: per tutte, si v. quelle del vicepresidente degli industriali privati, Patrucco, riportate in «la Repubblica» del 18 dicembre 1985 e del 28 gennaio 1986. Al di là della consueta «guerra delle cifre», resta la sensazione che si avvii verso una stagione di rinnovi contrattuali non priva di consistenti elementi di difficoltà (anche sugli aspetti di carattere retributivo).
[371] Ferri, Il patto anti-inflazione, cit., p. 309.
[372] Cfr. Ferri, op. cit., p. 305; Thiery e Cacciola, L’indicizzazione dei salan. Problemi e esperienze nei paesi industrializzati, in «Ires Cgil», 1981, 3, p. 47.
[373] Monti, La scala mobile: che cosa si guadagna con la contrattazione, cit., p. 99.