I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c2
Fin qui l’opinione critica: la quale in taluno si è sostanziata anche del riferimento alle nozioni contrattuali di retribuzione, di cui si è cercato di intendere il significato effettivamente attribuito {p. 116}dalle parti contraenti
[57]
. La nozione contrattuale di «retribuzione globale», secondo questo orientamento, esprimerebbe «soltanto l’idea che anche la retribuzione costante può essere composta da più voci, a condizione che spettino indistintamente a tutti e comunque». La nozione di retribuzione «di fatto», per parte sua, starebbe a significare che «si deve tener conto anche di certe voci retributive che — pur essendo previste per tutti indistintamente i lavoratori — possono spettare a ciascuno di essi con entità variabile (come, ad esempio, gli scatti di anzianità)»
[58]
. Nell’accezione indicata le due nozioni contrattuali di retribuzione risultano, all’evidenza, tali da escludere dal computo delle competenze che le assumano a parametro di riferimento le voci retributive legate allo svolgimento della prestazione del singolo in particolari condizioni di luogo, di tempo, di modo (indennità di cassa, di rischio, di sottosuolo, di residenza e numerosissime altre). Non a caso cardine della costruzione in esame finisce con l’essere l’altra nozione, frequente nella contrattualistica, di «retribuzione normale», intesa come «la retribuzione ordinaria ed usuale, cioè quella cui tutti hanno diritto indipendentemente dalle condizioni in cui prestano il loro lavoro»
[59]
. La retribuzione normale, in altre parole, andrebbe individuata in astratto, e non in concreto, a priori, e non a posteriori, con la logica conseguenza di escludere dal concetto anche le maggiorazioni retributive per lavoro a turni e/o straordinario, ancorché caratterizzate da assoluta continuità di corresponsione
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.
¶{p. 117}
L’opinione menzionata si segnala per la sua interna coerenza, peraltro troppo vistosamente funzionale all’obbiettivo prefissato di legittimare una nozione «pluralistica» di retribuzione. Non si sfugge, infatti, all’impressione che lo sforzo interpretativo sia segnato dall’utilizzo di una tecnica improntata, abbastanza chiaramente, a una sorta di apriorismo definitorio. Il risultato raggiunto, peraltro, rischia di essere alquanto paradossale: una volta inclusi nel concetto di retribuzione soltanto gli emolumenti che spettano indistintamente a tutti i lavoratori, si finisce col prospettare una nuova nozione (contrattuale) unitaria della stessa, comprensiva, a ben vedere, delle sole paga-base e contingenza (e, forse, degli scatti).
Muovendosi sullo stesso piano di ragionamento, d’altro canto, non sarebbe impossibile approdare ad esiti (anche diametralmente) opposti, ispirati da una diversa coerenza.
Si potrebbe prospettare, in altre parole, una ricostruzione in cui, indicato come «retribuzione base» l’importo corrispondente a minimi tabellari, indennità di contingenza e scatti di anzianità (ove dovuti), si intenderebbe per «retribuzione normale» la risultante della retribuzione base e delle indennità legate allo svolgimento della prestazione in particolari condizioni e ordinariamente (al singolo) corrisposte; per «retribuzione globale» la risultante della retribuzione normale e delle maggiorazioni (per lavoro a turni, per straordinario ecc.). Quando, poi, la clausola contrattuale facesse riferimento alla retribuzione normale o globale «di fatto», l’una e l’altra dovrebbero intendersi comprensive anche degli aumenti di merito.
Questa seconda chiave interpretativa trova conforto anche nel rilievo che con essa resta salvaguardata l’autonomia concettuale delle diverse nozioni di retribuzione presenti nella contrattualistica, altrimenti destinate a rimanere alquanto indistinte e sovrapponibili. Si può aggiungere, in contrasto con l’opinione precedente, che risulta oscuro a quale espressione lessicale, diversa da quella di retribuzione «globale», dovrebbe far ricorso la norma collettiva per esprimere l’intenzione di includervi l’insieme degli emolumenti corrisposti dal datore di lavoro (indennità e maggiorazioni comprese).
Da quanto detto dovrebbe essere emersa con chiarezza l’impossibilità di sistematizzare adeguatamente la complessa problematica muovendosi su un piano meramente concettuale. Le ¶{p. 118}ricorrenti indagini sul tema, oltre tutto, non sembrano fornire elementi suscettibili di generalizzazione perché, in genere, limitate, secondo una consolidata tradizione dottrinale, all’analisi del settore metalmeccanico
[61]
. Per cercare di orientarsi con minore approssimazione nel complicato gioco di interrelazioni fra legge, autonomia collettiva e opinioni giurisprudenziali sembra evidente la necessità di un diverso approccio metodologico, con considerazione dei problemi in un arco di tempo sufficientemente ampio (grosso modo l’ultimo trentennio), e riferito a uno spettro più largo di categorie contrattuali.
Nelle pagine che seguono, pur tenendo conto della problematica in generale, si tenterà di individuarne i punti di emergenza soprattutto nei settori metalmeccanico e tessile (categorie industriali «classiche»), edile (categoria industriale «atipica»), del commercio e delle banche (categorie rappresentative del terziario).
L’analisi dei criteri di computo delle principali competenze indirette sarà condotta, in linea di massima, anche con riguardo ad alcune categorie del pubblico impiego (stato, parastato, enti locali), per verificare la possibilità di trarne indicazioni utili sul piano della sistemazione teorica generale.
5. Le nozioni di retribuzione ai fini del calcolo dei trattamenti di fine rapporto
L’esistenza nell’ordinamento di precisi criteri legali di computo ai fini della determinazione del quantum spettante a titolo di indennità di anzianità avrebbe dovuto mettere la relativa nozione di retribuzione al riparo da incertezze interpretative e manipolazioni pratiche. Al contrario, proprio in tema di indennità di anzianità ha avuto occasione di formarsi, nel corso degli anni, una casistica assai ampia, con riferimento alle più diverse voci retributive, che ha finito con lo sboccare nella teorizzazione del «principio di onnicomprensività» come regola fondamentale dell’ordinamento nella materia in esame.¶{p. 119}
Le ragioni dei ripetuti interventi giurisprudenziali sono da ascrivere alla non perfetta coincidenza fra la nozione legale e le nozioni accolte nei contratti collettivi. Questi ultimi, infatti, talvolta si limitano a fare sostanziale riferimento alla definizione prevista dal codice civile e, prima ancora, dalla legge sull’impiego privato
[62]
. Più spesso vi aggiungono o ve ne sovrappongono una propria, contenente un elenco, più o meno dettagliato, di voci da computare e di elementi da escludere
[63]
. Proprio con riguardo a questi ultimi ha avuto modo di esercitarsi la giurisprudenza, con decisioni spesso orientate nel senso della dichiarazione di nullità di clausole collettive difformi dalla norma inderogabile di legge
[64]
.
La tensione fra giurisprudenza e autonomia collettiva, che costituisce il fondamentale nodo teorico nel settore del lavoro privato, va ritrascritta nell’impiego pubblico in termini di rapporto fra giurisprudenza e legge. In assenza di disposizioni collettive, si è trattato, infatti, per i giudici di fare opera di interpretazione della normativa regolante i diversi tipi di trattamento di fine rapporto (indennità di buonuscita per gli statali, indennità di anzianità per i parastatali, indennità premio di servizio per il personale degli enti locali, indennità di licenziamento per il personale non di ruolo), secondo criteri in parte conformi, in parte divergenti da quelli seguiti dalla giurisprudenza ordinaria, che hanno, comunque, permesso di attingere risultati non di rado creativi.¶{p. 120}
Nell’ambito del lavoro privato, per decidere sulla computabilità o meno di un emolumento nella base di calcolo dell’indennità di anzianità, si è dato rilievo, in generale, alla concorrenza dei caratteri della continuità, obbligatorietà, corrispettività. Al requisito della determinatezza, spesso previsto nei contratti collettivi
[65]
, sembra attribuirsi minore importanza. Del resto anche obbligatorietà e corrispettività non vengono sempre menzionate o lo sono ad abundantiam. Conformemente al modello legale, infatti, la massima enfasi è posta sulla continuità di corresponsione, ritenuta come un indice presuntivo della natura retributiva di un determinato compenso
[66]
.
L’analisi giurisprudenziale, in altre parole, si è circoscritta all’effettuazione di un duplice accertamento. Una volta verificata in positivo la continuità di corresponsione dell’emolumento in discussione e, in negativo, la non attribuibilità dello stesso a titolo di rimborso spese, nessuna ulteriore indagine si renderà necessaria. Secondo questi criteri, da lungo tempo consolidati, sono state risolte le singole questioni concrete.
Nella determinazione del trattamento di fine rapporto ricorrente è stato il tentativo di escludere gli emolumenti collegati al costo della vita. La questione, riportata d’attualità dall’intervento, cosiddetto di «sterilizzazione» della scala mobile, attuato con la legge 31 marzo 1977, n. 91 (su cui v. infra, cap. III), si era già presentata nel periodo corporativo
[67]
e, successivamente, fu ampiamente controversa nell’immediato dopoguerra, sino ai primi anni ’50.¶{p. 121}
A parte minori problemi, relativi alla computabilità di indennità anch’esse in qualche modo legate all’andamento del costo della vita, quali il caro-vita e il caropane
[68]
, il dibattito fu particolarmente contrastato attorno all’indennità di contingenza, anche allora in ragione del rilevantissimo peso economico acquisito dall’istituto nel contesto della vertiginosa inflazione post-bellica
[69]
. La tesi negativa, inizialmente prevalente e diffusa in dottrina come in giurisprudenza
[70]
, poggiava su un presunto carattere
¶{p. 122}precario dell’emolumento, desumibile dall’intenzione di temporaneità legata alla particolare congiuntura economica, con cui le parti collettive s’erano impegnate ad istituirlo (appunto in via «contingente»); sulla variabilità dello stesso; sull’affermata identità di funzione con l’indennità di caro-vita, da cui si faceva derivare la necessità di un’identità di disciplina e, in particolare, l’applicabilità dell’art. 7 d. lgs. lgt. 2 novembre 1944, n. 303, che avrebbe comportato la non computabilità ad alcun effetto della contingenza come parte del salario (o stipendio). Nel senso dell’esclusione deponeva pure l’esplicita previsione degli accordi interconfederali istitutivi
[71]
, pur con i temperamenti apportati dal successivo accordo interconfederale 27 ottobre 1946
[72]
.
Note
[57] Cfr. soprattutto Persiani, I limiti del principio dell’omnicomprensività della retribuzione, in «Mass. giur. lav.», 1982, p. 44; Id., Determinazione delle singole voci retributive ed interpretazione del contratto collettivo, in «Dir. lav.», 1982, I, p. 459 ss.
[58] Citazioni da Persiani, I limiti, cit., pp. 44 e 45. Cfr. anche, in senso parzialmente critico, con riferimento all’interpretazione della nozione di retribuzione globale, Bianchi D’Urso, Onnicomprensività, cit., p. 98 ss.
[59] Persiani, op. ult. cit., p. 45.
[60] Cfr. Persiani, op. citt. in nota 56. Oltre che sulle argomentazioni indicate nel testo, questo autore poggia il suo ragionamento su valutazioni (ancor meno) condividibili. Così è della tesi secondo cui una considerazione a posteriori del concetto di retribuzione normale priverebbe l’oggetto del contratto, contra legem, del requisito della determinatezza, dimentica della circostanza che, a norma dell’art. 1346 cod. civ., è sufficiente che l’oggetto del contratto sia determinabile. Così pure della negazione agli elementi accessori del salario del carattere di controvalore della prestazione lavorativa, dove, ancora una volta, l’utilizzo, di dubbia correttezza, di una categoria economica viene ad inficiare la plausibilità del discorso giuridico: cfr., in proposito, I limiti, op. loc. cit.
[61] Cfr., da ultimo, Sotgiu, La retribuzione globale di fatto nella contrattazione collettiva del settore metalmeccanico privato, in «Dir. lav.», 1984, I, p. 35 ss.
[62] È il caso del settore commerciale, dove la relativa nozione di retribuzione è rimasta sostanzialmente immutata sin dal periodo corporativo. L’art. 70 ccnl 10 settembre 1939 dispone infatti che «agli effetti del presente articolo dovranno computarsi nella retribuzione: oltre lo stipendio o il salario, tutte le indennità continuative e di ammontare determinato, le provvigioni, i premi di produzione, nonché la partecipazione agli utili». L’art. 97 del ccnl 17 dicembre 1979 impone di computare, agli effetti del calcolo della liquidazione, «oltre allo stipendio o salario contrattuale di fatto, le provvigioni, i premi di produzione, le partecipazioni agli utili, nonché le indennità continuative e di ammontare determinato, esclusi gli assegni familiari». All’indicazione degli elementi computabili si è poi sempre accompagnata l’espressa previsione secondo cui «non costituiscono accessori computabili... i rimborsi di spese, i compensi per lavoro straordinario, le gratificazioni straordinarie non contrattuali, e simili».
[63] V. infra nel testo i riferimenti specifici ai contratti collettivi dei tessili, dei metalmeccanici e, soprattutto, degli edili e dei bancari.
[64] In singole fattispecie, naturalmente, la dichiarazione di nullità ha colpito clausole di contratti individuali di lavoro: v. infra nel testo, soprattutto a proposito delle c.d. indennità estero.
[65] Oltre che nel contratto del commercio, il requisito della determinatezza è sempre stato previsto nella contrattazione collettiva (parte impiegati) dei tessili e dei meccanici. Per gli impiegati del settore edile esso compariva nell’art. 41 del ccnl 14 novembre 1947, ma venne soppresso già a partire dal rinnovo contrattuale del gennaio 1952. La svalutazione giurisprudenziale di tale requisito è probabilmente ascrivibile anche alla circostanza che esso, menzionato nel r.d. 13 novembre 1924, n. 1825 ai fini dell’individuazione delle voci retributive computabili nella base di calcolo dell’indennità di anzianità, non è stato poi riprodotto nel successivo an. 2121 cod. civ.
[66] Cass., 9 aprile 1973, n. 1006, in «Giust. civ. Mass. Cass.», 1973, p. 534; 22 maggio 1979, n. 2981, in «Mass. Giur. It.», 1979, c. 730.
[67] Con riferimento all’indennità di caro-vita concessa agli impiegati dopo la fine della prima guerra mondiale, ritenuta generalmente computabile dalla giurisprudenza ai fini del calcolo dell’indennità di anzianità prevista dall’art. 10 della legge sull’impiego privato: cfr. Papeschi, L’indennità di contingenza nel computo dell’indennità di anzianità, in «Foro pad.», 1949, I, c. 61.
[68] L’indennità di carovita fu istituita dal d. lgs. lgt. 2 novembre 1944, n. 303: l’art. 7 prevedeva espressamente che essa non dovesse ritenersi parte dello stipendio o del salario ad alcun effetto. Col successivo accordo interconfederale 24 febbraio 1945, inteso a dettare norme per la determinazione del «nuovo caro-vita», si derogò alla disciplina legislativa, stabilendo che l’indennità di carovita sarebbe stata considerata come retribuzione agli effetti del trattamento di quiescenza. La dottrina maggioritaria riconobbe al carovita carattere retributivo e ne ammise la computabilità agli effetti delle indennità previste dall’art. 2121 cod. civ.; in giurisprudenza, a favore della computabilità, si v., per tutte, Cass., 13 luglio 1950, n. 1881 e 1882, in «Riv. dir. lav.», 1951, II, p. 161; 5 maggio 1951, n. 1072, in «Mass. giur. lav.», 1951, p. 157. Quanto all’indennità di caropane, istituita con d.l. 6 maggio 1947, n. 563, in concomitanza col passaggio dal prezzo politico al prezzo di mercato del pane e della pasta, natura retributiva e computabilità nell’indennità di anzianità le furono riconosciute da dottrina (contra v. però Barassi, Il diritto del lavoro, III, Milano, Giuffré, 1957, p. 62) e giurisprudenza largamente prevalenti. L’opinione minoritaria, che attribuiva al caropane il carattere di un rimborso spese per il maggior costo del pane e della pasta, si trova rispecchiata nella circolare 10 giugno 1948 del Ministero del lavoro, che, conseguentemente, disponeva in ordine alla non assoggettabilità dell’emolumento a contribuzione previdenziale; ma fu palesemente smentita dall’accorpamento dello stesso nell’unica voce retributiva definita dall’accordo interconfederale 12 giugno 1954. Dopo l’accordo sul conglobamento e tenuto conto anche del chiaro indirizzo giurisprudenziale, il Ministero emanò la circolare 5 dicembre 1957 che, modificando l’indirizzo precedente, disponeva l’assoggettabilità a contribuzione del caropane a partire dal 1° gennaio 1958. Il carattere retributivo dell’indennità di caropane è stato infine riconosciuto dalla Corte costituzionale (con sentenza 26 aprile 1962, n. 41, in «Giur. It.», 1962, I, 1, c. 1053).
[70] Cfr., per tutti, Cantilo, L’indennità di contingenza ed il suo computo nell’indennità di anzianità, in «Giur. It.», 1948, I, 2, c. 489; Musatti, Indennità di contingenza e indennità di anzianità, in «Mass. giur. lav.», 1950, p. 255. In giurisprudenza Trib. Firenze, 23 gennaio 1948, in «Dir. lav.», 1948, II, p. 237; App. Trento, 12 giugno 1948, in «Riv. dir. lav.», 1949, II, p. 394; Trib. Milano, 6 aprile 1949, in «Rep. giur. it.», 1949, c. 1041; App. Napoli, 28 aprile 1949, in «Foro it.», 1950, I, c. 75.
[71] Accordo interconfederale 6 dicembre 1945 per i lavoratori dell’industria delle provincie settentrionali; accordo interconfederale 23 maggio 1946 per i lavoratori delle provincie centro-meridionali.
[72] L’art. 18 dell’accordo interconfederale stabiliva che la contingenza dovesse essere computata ai fini del calcolo dell’indennità di fine rapporto limitatamente all’anzianità maturata dopo il 1° gennaio 1945.