Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c2
Le ragioni, qui sommariamente ricordate, di frammentazione nella composizione della busta-paga si sono andate sovrapponendo nel corso del tempo, sino a confondersi strettamente con l’evoluzione dei rapporti di lavoro salariato, come tratto caratterizzante degli stessi. Esse appaiono tuttora largamente compresenti, sia pure in misura diversa, a seconda dei differenti contesti e soprattutto delle variabili contingenze sociali e istituzionali. Meno probabilmente la prima, stante la sostanziale stabilizzazione di una nozione, ampia e analitica, di retribuzione a fini previdenziali, dovuta all’operare della giurisprudenza e, poi, all’intervento del legislatore [18]
. Maggiormente le altre, soprattutto in un periodo,
{p. 102}come l’attuale, in cui le virtù salariali del contratto collettivo nazionale appaiono fortemente logorate e la stessa contrattazione integrativa «ufficiale» formalmente vincolata al rispetto di un obbligo di tregua quanto alle rivendicazioni di indole retributiva [19]
.
Essenzialmente la terza delle ragioni indicate ha indotto una morfologia non meno articolata delle retribuzioni nel settore del pubblico impiego, sotto rincalzare di un’azione sindacale tradizionalmente incline (quanto meno sino ai primi anni ’70) a supplire col patteggiamento occulto il mancato riconoscimento della legittimità della contrattazione collettiva, e disponibile alle concessioni sotto-banco di un potere pubblico paternalistico e clientelare [20]
. Nel campo dell’impiego pubblico il fenomeno, anzi, è apparso dotato di connotati così vistosamente negativi da aver suscitato la nota immagine della «giungla retributiva». Meno nota è forse la circostanza che la frammentazione della struttura retributiva ha significato, in questo caso, non semplicemente il moltiplicarsi nella busta-paga di una miriade di voci accessorie, ma, talvolta, un’articolazione nella composizione dello stesso stipendio-base. La retribuzione del pubblico impiegato (statale) è apparsa in tal modo caratterizzata, nel periodo post-bellico, da un {p. 103}andamento, per così dire, «a fisarmonica», le cui tappe fondamentali risultano scandite da periodici provvedimenti di riassetto. Alla legge 8 aprile 1952, n. 212, approvata nell’intento di «razionalizzare la situazione creata dal vorticoso succedersi di provvedimenti che in tema di trattamento economico dei dipendenti statali... si era avuto negli anni durante ed immediatamente dopo la guerra» [21]
, seguì, verso la metà degli anni ’50, un più ambizioso tentativo di conglobamento, finalizzato ad incorporare in una «retribuzione fondamentale unica» la molteplicità di assegni, proventi ed indennità ancora esistenti [22]
. Successivamente il ventaglio retributivo venne nuovamente allargato con l’attribuzione alla generalità dei dipendenti di due nuovi emolumenti — l’assegno mensile e l’assegno temporaneo [23]
— strutturalmente non distinguibili dallo stipendio-base e destinati, infatti, ad essere rapidamente incorporati in esso [24]
.

2. Le nozioni legali di retribuzione: a) nel diritto della previdenza sociale

Il richiamo alla nostra esperienza (giudiziaria e contrattuale) meno recente, così come alle vicende di altri ordinamenti, è parso utile per focalizzare in quali termini si sia sempre posto (ai giudici e al legislatore) il problema della definizione di un concetto giuridico di salario. A fronte di una frantumazione crescente nella composizione della busta-paga, l’esigenza pratica è stata quella di accertare la natura giuridica dei singoli emolumenti, al fine di {p. 104}decidere sulla computabilità degli stessi per un verso nella base di calcolo dei contributi sociali, per altro verso di altre spettanze dovute per prestazioni di lavoro eccedenti la norma (maggiorazioni per lavoro straordinario, notturno, festivo) e di compensi corrisposti in assenza di un legame diretto con l’attività lavorativa (e perciò anche indicati come indiretti e/o differiti) e riferiti alla «retribuzione» come parametro: tipicamente, e in primo luogo, le indennità di fine rapporto e, poi, le attribuzioni legate a ferie e festività, a periodi di malattia o infortunio, le mensilità aggiuntive (e altri ancora di minore rilievo).
Nel diritto della previdenza sociale gli orientamenti giurisprudenziali espansivi del concetto di retribuzione, essenzialmente motivati dall’esigenza garantistica di assicurare una corrispondenza fra salario effettivamente percepito e quantum delle prestazioni usufruibili dal singolo in connessione col verificarsi di determinati eventi protetti — un’esigenza, in definitiva, di tutela di diritti soggettivi violati o sminuiti, hanno sempre trovato una sponda assai sensibile in analoga tendenza del legislatore, dettata questa, in primo luogo, da ovvie preoccupazioni di equilibrio finanziario delle diverse gestioni previdenziali. Il peso crescente di tali preoccupazioni, da noi come altrove [25]
, ha anzi condotto il legislatore a giuocare, in questo specifico settore dell’ordinamento, un ruolo probabilmente preminente, senz’altro di incoraggiamento degli indirizzi giurisprudenziali e, talvolta, di chiarificazione di incertezze interpretative.{p. 105}
La tendenza ad attrarre nel concetto di retribuzione utile a fini previdenziali l’insieme delle attribuzioni patrimoniali connesse con la prestazione di lavoro, con la sola eccezione dei rimborsi spese e delle gratificazioni una tantum, appare in effetti riscontrabile sin dai primi del secolo. Già nel regolamento infortuni del 1904 può leggersi, infatti, una definizione a mente della quale «si intende per salario o rimunerazione o guadagno dell’operaio tutto ciò che questi riceve per retribuzione del suo lavoro». La norma proseguiva specificando l’assimilabilità a salario di premi, gratificazioni, indennità ordinariamente corrisposti, purché non avessero «carattere di rimborso di spese né di generose elargizioni fatte per una volta tanto dal capo o esercente dell’impresa». Forse non priva di qualche approssimazione, tale disposizione fu comunque ritenuta sufficientemente chiara nell’esprimere l’intenzione del legislatore di assicurare agli operai «un indennizzo correlativo all’entità delle perdite cagionate dal sinistro» [26]
.
Rispetto a questo iniziale materiale normativo, quelli più recenti appaiono confermarne la sostanza, l’ispirazione di fondo, differenziandosene soltanto per una maggior precisione dal punto di vista tecnico. Il rilievo vale essenzialmente per il d.p.r. 30 maggio 1955, n. 797 che, dopo aver espresso con una norma di principio (art. 27 co. 2) il concetto di retribuzione, intesa come «tutto ciò che il lavoratore riceve, in denaro o in natura, direttamente dal datore di lavoro per compenso dell’opera prestata», contiene un elenco analitico degli elementi da includervi, e di quelli da escludere, ai fini del calcolo dei contributi (per gli assegni familiari), dal quale appare evidente l’obbiettivo di ricondurre a salario qualsivoglia erogazione patrimoniale proveniente dal datore di lavoro e riferibile all’esecuzione della prestazione lavorativa. In questo senso l’inclusione fra le voci computabili di una percentuale (pari al 40%) delle indennità di trasferta in cifra fissa e dell’indennità di panatica va letta come espressione di una presunzio{p. 106}ne, iuris et de iure, del carattere parzialmente retributivo di siffatti emolumenti. Mentre la volontà di non tener conto di quanto non possa ascriversi a corrispettivo, sia pur latamente inteso, della prestazione lavorativa, risulta confermata dalla tradizionale esclusione di gratificazioni ed elargizioni concesse una tantum, dei rimborsi spese in senso stretto («a pié di lista») e, tutto sommato, non smentita da quella di erogazioni patrimoniali in cui, evidentemente, il profilo retributivo è parso troppo intrecciato a finalità risarcitorie e/o previdenziali (compensi per ferie e festività nazionali non godute, indennità sostitutiva del preavviso, indennità di cassa, indennità di anzianità).
Il più recente intervento legislativo nella materia non si sarebbe limitato, invece, a consolidare la tendenza a definire in termini amplissimi la nozione di retribuzione imponibile, ma avrebbe fatto un ulteriore, decisivo passo innanzi, abbandonando ogni riferimento all’idea di corrispettivo del lavoro e, perciò stesso, rendendo praticamente inutile il ricorso al concetto di retribuzione. Il rilievo, comune a molti osservatori [27]
, è probabilmente alquanto fuori misura. Se si osserva, infatti, attentamente l’elenco delle voci escluse dalla base imponibile ai sensi dell’art. 12 legge 30 aprile 1969, n. 153, si potrà trovarvi conferma della tendenza a ricomprendervi tutte quelle erogazioni di natura non retributiva (rimborsi a pié di lista) o in cui alla natura retributiva si accompagnano funzioni risarcitorie (diaria o indennità di trasferta in cifra fissa), previdenziali (indennità di anzianità) o assistenziali (indennità di panatica, gratificazioni una tantum) [28]
latamente intese. Da questo punto di vista l’inclusione nell’elenco dell’indennità di cassa appare come una svista del legislatore, una ripetizione tralaticia del divieto di computo già previsto dal d.p.r. 797/1955, comprensibile alla luce degli orientamenti giurisprudenziali forse dominanti negli anni ’50 e poi superati con la ripetuta affermazione della natura retributiva anche di questo emolumento, come di
{p. 107}altri consimili (indennità di rischio, di maneggio denaro) [29]
. La computabilità dell’indennità di trasferta in cifra fissa si limita a ribadire la presunzione legale circa la natura parzialmente retributiva della stessa, mentre l’elevazione al 50% della porzione valutabile risponde, con tutta evidenza, ad esigenze di accrescimento del gettito contributivo. La coerenza del disegno normativo risulta, infine, dalle modifiche apportate in tema di gratificazioni una tantum: di queste viene confermata la non assoggettabilità a contribuzione, purché però si tratti di elargizioni legate ad «eventi eccezionali e non ricorrenti» [30]
, mentre si stabilisce, con disposizione innovativa, l’obbligatoria computabilità di quelle «collegate, anche indirettamente, al rendimento dei lavoratori e all’andamento aziendale», valutabili, quindi, come parte del corrispettivo del lavoro, sia pur latamente inteso [31]
.
Note
[18] Da noi, com’è noto, l’evoluzione legislativa in proposito sembra aver trovato il suo definitivo assestamento con la nozione di retribuzione accolta nell’art. 12 della legge n. 153/1969. Ampie nozioni legali di salario (o stipendio) a fini previdenziali appaiono in genere diffuse anche negli ordinamenti stranieri: si v. ad es. per il Belgio, Geysen, op. cit., p.363. Il rilievo espresso nel testo non intende naturalmente sminuire la portata del fenomeno dell’evasione contributiva, riconducibile peraltro non più (o non tanto) all’esistenza di smagliature nelle norme di legge in materia, quanto alla ben diversa problematica del lavoro (e del salario) «nero».
[19] Le cronache riportano la vicenda — e non è che uno dei possibili esempi fra i tanti — di una fabbrica metalmeccanica emiliana che, dopo aver concesso nel settembre ‘80 un premio di presenza ad alcuni operai, ha attribuito nel febbraio ’82 un «premio di qualità», anch’esso strettamente legato alla presenza, agli operai di altri reparti. Più recentemente, in piena vigenza del blocco della contrattazione salariale aziendale, ha reso nota la decisione di istituire un nuovo incentivo per gli operai, calcolabile sulla base di un indice di produttività stabilito dalla direzione al di fuori di qualsiasi negoziazione col sindacato. Quanto agli impiegati «grazie ai superminimi individuali si può dire che non ne esista uno che abbia un salario uguale all’altro»: Paterlini, Soldi a pioggia, premi di qualità, ne «Il manifesto», 22 gennaio 1984. Si prescinde, per il momento, dal valutare le esatte implicazioni giuridiche dell’obbligo di tregua salariale contenuto nell’accordo interconfederale 22 gennaio 1983: in proposito cfr. Ghezzi, Più ombre che luci, in «Pol. dir.», 1983, p. 210, nonché infra, cap. III.
[20] Le indagini al riguardo sono ormai numerose: basti, per tutte, rinviare a Rusciano, L’impiego pubblico in Italia, Bologna, il Mulino, 1978 e Aa. Vv., Il sindacato nella pubblica amministrazione, Roma, Ediz. Lavoro, 1981.
[21] E. Ferrari, Tendenze della normativa sulla retribuzione dei dipendenti pubblici, in Aa. Vv., Il pubblico impiego in Italia, Milano, Vita e Pensiero, 1983, p. 63.
[22] D.p.r. 17 agosto 1955, n. 767 (recante norme sul «conglobamento parziale del trattamento economico del personale dello Stato in attività di servizio») e d.p.r. 11 gennaio 1956, n. 19 (recante norme sul «conglobamento totale del trattamento economico del personale statale»).
[23] Rispettivamente con legge 19 aprile 1962, n. 173 e legge 28 giugno 1963, n. 20.
[24] D.p.r. 21 aprile 1965, n. 373 (recante norme sul «conglobamento dell’assegno temporaneo negli stipendi, paghe e retribuzioni del personale statale») e d.p.r. 5 giugno 1965, n. 749 (recante norme sul «conglobamento dell’assegno mensile e competenze analoghe negli stipendi, paghe e retribuzioni del personale statale»).
[25] La tendenza a ricomprendere nel concetto di retribuzione imponibile l’insieme delle attribuzioni patrimoniali provenienti dal datore di lavoro è chiaramente riscontrabile, ad esempio, nella legge francese 20 marzo 1954, approvata per porre fine a divergenze interpretative sorte nell’applicazione della previgente disciplina. Secondo la nuova legge si deve considerare come remunerazione «toutes les sommes versées (ou dues) aux travailleurs en contrepartie ou à l’occasion du travail, notamment les salaires et gains, les indemnités de congés payés, le montant des retenues pour cotisations ouvrières, les indemnités, primes, gratifications et tous autres avantages en argent, les avantages en nature, ainsi que les sommes perçues directement ou par l’entremise d’un tiers à titre de pourboire». Al di là delle differenze di tecnica legislativa (su cui v. infra nel testo) sembra evidente un’affinità d’ispirazione con la legge italiana 30 aprile 1969, n. 153, in particolare per quanto riguarda l’accoglimento di una nozione ampia di corrispettivo dell’attività lavorativa.
[26] Verona-Positano, op. cit., p. 72. La disciplina introdotta dall’art. 13 del regolamento infortuni è ampiamente commentata da Barassi, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, I, Milano, S.E.L., 1915, pp. 115-120, con particolare sottolineatura della non generalizzabilità, al di fuori dello specifico ambito previdenziale, della nozione di salario ivi accolta. Tale precedente normativo è ora ricordato da Bianchi D’Urso, Onnicomprensività e struttura della retribuzione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1984, p. 38.
[27] Fra i tanti si v. Persiani, Retribuzione di fatto, dovuta, normale, effettiva e contribuzione previdenziale in «Dir. lav.», 1975, I, ora in 1 nuovi problemi della retribuzione, cit., p. 128, 133; Fontana, L’indennità di trasferta, in «Dir. lav.», 1977, I, p. 177 ss.; Id., Note sul vigente sistema retributivo con particolare riguardo al settore bancario, in «Dir. lav.», 1978, I, p. 99 ss.; da ultimo Sconocchia, L’obbligo contributivo e la retribuzione imponibile, Milano, Franco Angeli, 1981, p. 13 ss.
[28] Per rilievi consimili si v. Gentili, Retribuzione del lavoro e contribuzione previdenziale, in «Riv. dir. civ.», 1973, I, p. 174 ss.
[29] Sul punto v. infra nel testo. L’impressione che l’esclusione dalla base di calcolo dei contributi previdenziali dell’indennità di cassa sia da valutare alla stregua di un infortunio del legislatore è avvalorata dal rilievo che nessun riferimento è fatto nell’art. 12 legge 153/1969 all’indennità di rappresentanza, che pure figurava, nella precedente normativa, a fianco dell’indennità di cassa fra le voci escluse.
[30] Dovrà trattarsi, in altri termini, di elargizioni concesse in relazione ad eventi eccezionali, non ricorrenti e del tutto esterni al rapporto di lavoro (rectius all’esecuzione dell’attività lavorativa), quali, in ipotesi, una gratifica attribuita per il raggiungimento di una determinata anzianità aziendale, (da non confondere con i premi di fedeltà previsti da certi contratti collettivi), o per venire incontro alle spese di nuzialità di un dipendente.
[31] Contra, per il carattere non corrispettivo di tali emolumenti, si v. Treu, op. cit., p. 32 e, in termini anche più rigidi. Barassi, op. loc. cit., in relazione alla problematica affine posta all’inizio del secolo dalla nozione di retribuzione accolta nell’art. 13 del regolamento infortuni. Costituendo anche le «elargizioni» una tantum pane del plusvalore estratto dal lavoro, l’assoggettabilità delle stesse a contribuzione può essere considerata, in realtà, come il punto di emersione più evidente della tendenza della normativa previdenziale a far coincidere nozione giuridica e sostanza economica del salario (ma su ciò v. infra nel testo).