Character skills e didattica digitale
DOI: 10.1401/9788815374615/c1
Un’altra, importante implicazione può
essere colta attraverso l’idea di potenzializzazione. Un mondo
imprevedibile, rapido e in cui le possibilità di esperienza e azione si moltiplicano è anche
un mondo in cui non è possibile istituire aspettative certe e occorre prepararsi a «diventare
tutto». Le identità e le strutture sono quindi costrette a rendersi sempre più flessibili e
disponibili all’autotrasformazione, utilizzando il cambiamento esterno non come sfida a cui
{p. 11}resistere, ma come opportunità per ripensare continuamente il nocciolo
essenziale della propria mission, sviluppandola lungo una certa linea
direttrice, ma modificando in profondità orizzonte, forme e strutture della sua realizzazione
e gestendo in modo flessibile i propri confini. Ciò comporta tra l’altro un continuo esercizio
d’immaginazione, rivolto a sé stessi, con le proprie identità e pratiche, guidato dalla
possibilità di essere e realizzarsi sempre «diversamente». Certo, questa tendenza interferisce
con un tratto culturale che viene da lontano, intrecciandosi strettamente con i processi
d’individualizzazione e con la gamma di possibilità espressive a essi legate. La possibilità
di «diventare tutto» fa parte, in questo senso, della liberazione dell’individuo dai legami
ascrittivi e della sua autoimmaginazione che tende a espandere la propria sfera di esperienza,
di azione e di autorealizzazione identitaria. Rendere massimamente flessibile questo processo
– secondo la formula «dream of everything you can become, and become everything you dream of»
[5]
– può anche rappresentare lo zenit di questa costellazione
societaria. Laddove l’imprevedibilità sociale cresce oltre una certa soglia, tuttavia, il
medesimo processo viene tradotto dal codice del desiderio a quello della necessità. Vivere in
una condizione di «aspettative crescenti» – come è stato per le prime generazioni nate dopo la
Seconda guerra mondiale – è diverso da vivere in un mondo «senza aspettative». Questa
situazione rende più acuta la crisi della continuità e della congruità dei contesti di vita
entro cui le persone sono socializzate: come la teoria sociologica ha osservato da tempo,
l’emergere continuo di situazioni nuove mette in crisi l’azione di routine, provocando
l’espansione della riflessività
[6]
. Le persone possono sempre meno trovare
¶{p. 12}nelle varie
agenzie di socializzazione una guida normativa coerente per le loro
azioni. Di conseguenza, devono sempre più basarsi sulla propria riflessività personale, sulla
propria capacità di valutare i propri progetti di vita in relazione al mondo che cambia. La
necessità di selezionare tra molteplici esperienze e azioni possibili genera il bisogno di
efficacia progettuale e decisionale.
In ultima istanza, dunque, i giovani
devono oggi affrontare un orizzonte di vita per molti versi paradossale: «devono» predisporsi
a rimanere costantemente aperti a «diventare tutto» – s’immagina anzi che debbano
«naturalmente» desiderarlo – ma diviene sempre più problematico il senso di questo «tutto»,
cioè delle varie opzioni e delle differenze tra esse. Diviene sempre meno accessibile un
quadro culturale più ampio che ecceda l’individuo e il suo benessere psico-fisico
[7]
. La condizione, per molti, si approssima a quella di una performatività
senza orientamento
[8]
. Questo spiega anche l’ulteriore torsione riflessiva per cui molti giovani devono
poi essere motivati a essere motivati, il che parla del grande disagio in
cui si trovano.
La riflessione sui bisogni educativi
emergenti, oggi, deve ripartire da qui. Essa è frequentemente declinata sottolineando la
rilevanza dell’imparare a imparare – e a dis-imparare, cioè poi a
sciogliere i nodi di habitus mentali, per esempio professionali, ormai
divenuti problematici rispetto alla necessità di produrre innovazione. L’aspetto
meta-cognitivo è senz’altro importante, ma sarebbe un grave errore farne un focus di
attenzione pressoché esclusivo. Più radicalmente, il punto è capire se, e perché, ciò che
s’impara ha anche un valore in sé, al di là dell’utilità funzionale ad apprendere
qualcos’altro. Di conseguenza, il punto è perché si dovrebbe ¶{p. 13}essere
motivati a imparare, tout court. Transitare direttamente da un’idea
umanistico-classica a una puramente funzionalista di educazione implicherebbe una visione
molto riduttiva dell’orizzonte sociale e culturale in cui viviamo.
La questione delle character
skills si situa, oggi, all’interno del perimetro disegnato da queste tensioni
strutturali e culturali. Esse non costituiscono, di per sé, alcun meccanismo automatico.
Spetta a una cultura il compito di pensarle e proiettarle sul piano delle pratiche educative.
Possono senz’altro essere concepite come un «modo nuovo» di pensare il soggetto umano in
quanto tale, cioè in modo totalizzante. Chi sostenesse questo finirebbe
per stirare questo strumento oltre i suoi limiti, illudendosi di poter semplicemente
dissolvere i legami di alcuni atteggiamenti e comportamenti umani fondamentali – come la
cooperazione, la perseveranza, l’attaccamento a obiettivi, la fiducia, l’apertura mentale, la
capacità di comprendere gli altri eccetera – con le culture che da sempre li (ri)generano. Ciò
che i sistemi educativi possono aspettarsi dalla riflessione sulle SES non è avere a
disposizione una «nuova» fonte che costituisca il senso delle cose, ma una risorsa pratica per
dischiudere tale senso. Conoscere meglio le qualità socio-emozionali di
alunni e alunne, entrare in sintonia con esse, stimolarne lo sviluppo, può servire a
mediare l’accesso ai contenuti, ai significati, insomma all’insieme del
mondo naturale, sociale e pratico con cui le persone non possono – anche solo per ragioni di
pura sopravvivenza – non entrare in relazione.
In ultima analisi, dunque, l’orizzonte
che dà senso a questo discorso consiste in un’idea di educazione come capacità di
relazione sensata. Parlare di SES significa, allora, entro questa formula, porre
l’accento sull’aspetto della capacità. Costituire una forma vitale e progettuale (sensatamente
orientata al futuro) di relazione con sé stessi, con gli altri e con il mondo è il nocciolo,
il cuore dell’educazione. Implica sviluppare attaccamento per,
e investimento di sé nel mondo. Implica sviluppare «premure», nel
duplice senso di «ciò che urge» e di «ciò che sta a cuore», il che diventa possibile se la
propria relazione col mondo è radicalmente percepita come sensata. E ciò accade – il mondo «ci
dice qualcosa» e ¶{p. 14}con esso diventa possibile «entrare in risonanza» –
ancora una volta attraverso relazioni
[9]
.
Ma tutto questo accade nella società che
abitiamo, in cui relazioni e comunicazioni sono intensamente mediate dalla tecnologia, in cui
il declino demografico renderà la fraternità/sororità un’esperienza sempre più rara e in cui
l’amicizia stessa è alla difficile ricerca di tempi e spazi possibili; in cui, infine, una
cornice culturale comune appare sempre più evanescente e problematica, tra le società
nazionali e all’interno di esse, tra le grandi entità geo-culturali come nella vita
quotidiana, e al tempo stesso s’intensifica l’interazione –
l’avvicinamento
[10]
– con altri profondamente diversi. Per tutte queste ragioni, quella capacità di
relazione sensata non può essere appresa spontaneamente, «sul campo», ma deve spesso essere
imparata intenzionalmente, attraverso processi espliciti: in un certo senso «come il latino»
[11]
. Se questo comporta il rischio di una certa artificialità, che sta alla creatività
educativa evitare, appare anche una strada obbligata per una scuola che non intenda scivolare
nell’incomunicabilità tra le generazioni e in ultima analisi nella marginalità
culturale.¶{p. 15}
2. Il nesso fondamentale: didattica digitale, «character skills», riflessività
La ricerca presente parte da questo
background teorico e incorpora le premesse che abbiamo brevemente
delineato. Si tratta ora d’illustrare il suo oggetto specifico, la sua articolazione, le
domande che la generano, gli aspetti e i luoghi del processo educativo/socializzativo che ne
costituiscono il campo di gioco. Ciò implica portare il discorso sul nesso fra trasformazioni
della scuola, didattica digitale e competenze socio-emozionali.
In tutto il mondo il vento della
pandemia ha colpito crudamente sistemi, strutture e culture educativi, accelerando
cambiamenti, evidenziando problemi, qualche volta provocando crolli. In Italia, il complesso
istituzionale della scuola si trova oggi esposto all’osservazione e alla critica, senza la
protezione di tradizioni e canoni ancora dotati di una qualche validità indiscussa o almeno
ampiamente condivisa. Il presente volume affronta un aspetto specifico, ma cruciale di questo
grande e complesso «fatto sociale»: il senso e l’impatto del passaggio alla didattica a
distanza (DAD). Essa – successivamente nella forma della cosiddetta «DDI» (didattica digitale
integrata) – è stata praticata a partire dalla prima ondata pandemica della primavera 2020 e
poi durante tutto l’anno scolastico 2021-2022, con una logica di stop and
go, e ha rappresentato un’inedita discontinuità nelle biografie educative di
alunni e insegnanti, modificando profondamente le relazioni all’interno e tra questi gruppi.
Vivere in emergenza sanitaria o in
contesti altamente all’erta, come sta ancora accadendo nella maggior parte dei paesi del
mondo, ha rilanciato con forza il tema della DAD e del ruolo della tecnologia nell’educazione
scolastica, con urgenza e in modalità parzialmente diverse dal passato. Se per lungo tempo
essa è stata intesa come strumento residuale negli interventi didattici rivolti alle fasce
d’età dell’obbligo e del postobbligo, o è stata utilizzata in specifici contesti
(prevalentemente per la formazione degli adulti, attraverso i MOOC), la situazione pandemica
ha invece fatto entrare a ¶{p. 16}forza la didattica digitale nel mondo della
scuola, in modo trasversale agli ordini e gradi.
Le conseguenze sono state molteplici. In
primo luogo, a seguito della pandemia e delle misure di protezione della salute pubblica, è
temporaneamente scomparsa tutta una dimensione materiale della vita scolastica e con essa un
lessico: «vado a scuola, esco da scuola, quello è il mio banco, vieni alla cattedra per
l’interrogazione, aspetto l’intervallo, facciamo merenda in cortile, quando arriva la
ricreazione»; sono tutte espressioni cadute, almeno temporaneamente, in disuso e sostituite da
altre, del tipo: «non riesco a connettermi, togli l’audio, condivido lo schermo, troverete le
dispense nel cloud». Quanto agli aspetti organizzativi, per quanto riguarda sia i docenti, sia
gli studenti, le dotazioni sono divenute essenziali; non a caso la loro mancanza o
insufficienza ha contribuito a incrementare le disuguaglianze nelle opportunità educative.
Inoltre, le competenze tecnologiche sono divenute determinanti onde riuscire a realizzare una
didattica efficace e a fruirne in modo adeguato. In breve, al livello dell’organizzazione il
cambiamento ha preso forma su tre piani: rispetto ai luoghi, ai metodi di
insegnamento/apprendimento e rispetto alle relazioni educative.
Anzitutto, per oltre un anno la scuola
non è più stata un luogo fisico: non più quella scuola, a
quell’indirizzo, con quelle aule, quel cortile, quei banchi. È entrata a casa di ciascuno, o
per meglio dire si è svolta da casa di ciascuno, non con istitutori a
domicilio, ma con insegnanti che entrano a forza attraverso lo schermo del PC dentro cucine
affollate, camere da letto da rassettare, balconi, divani. La dematerializzazione
dell’edificio scuola pone la prima sfida nella dimensione dello spazio: gli alunni devono
sapersi organizzare, imporsi regole nuove, voler continuare a fare scuola davvero; gli
insegnanti devono trovare nuovi modi per fare lezione, uscire dalla zona di
comfort di anni di scuola svoltisi dentro le aule per far diventare
aula una stanza qualsiasi, nella domesticità privata di ogni alunno. La mancanza di un luogo
fisico definito amplifica la disuguaglianza, aggiungendosi a quella derivante dalle competenze
digitali e dal possesso dei dispositivi cui si faceva cenno poc’anzi:
¶{p. 17}mostra case piccole e affollate da una parte e case ampie, lussuose,
confortevoli, magari troppo grandi per chi le abita, dall’altra; evidenzia le differenti
dotazioni tecnologiche, più o meno aggiornate oppure obsolete; sottolinea la differenza nelle
risorse e nei consumi culturali delle famiglie.
Note
[5] Un’interessante teoria della potenzializzazione come necessità funzionale percepita in ambito organizzativo si trova in Andersen e Pors [2016]; per una prima applicazione al campo dell’educazione si veda Andersen, Knudsen e Sandager [2022], da cui riprendo anche la formula qui citata.
[6] Questo è ciò che in vari lavori Archer [per es. 2009] ha definito l’imperativo riflessivo. Tornerò su questo punto in un successivo paragrafo del presente capitolo.
[7] In questo senso la situazione culturale contemporanea corrisponde, sotto certi aspetti, all’idea di «terapeutica» elaborata dal grande (e dimenticato) Philip Rieff [1966]. Tornerò altrove su questo argomento. L’assenza di riferimento a un quadro culturale più ampio presenta dei riscontri empirici che saranno sottolineati nei capitoli terzo e quinto di questo volume.
[8] Quello dell’orientamento è a sua volta un tema di grande rilevanza, che in questo volume potremo soltanto sfiorare.
[9] Sul filo di questa argomentazione diventa rilevante la connessione tra l’idea di educazione come relazione sensata, la nozione di character skills e una teoria dell’educazione come «risonanza» [Rosa 2016, 402-419; Rosa e Endres 2016]. L’educazione come relazione sensata rappresenta in sé un’idea non nuova, che rimanda a una visione complessiva del sociale come relazione. Su questo si veda per esempio Donati [1991; sul fenomeno educativo soprattutto cap. 7].
[10] Questa espressione allude all’idea di una società «senza esterno», in cui vengono meno le distanze simboliche e sociali – benché possano essere imposti distanziamenti fisici. Su questo mi permetto di rinviare a un mio contributo [Maccarini 2019].
[11] Questa singolare espressione è emersa – piuttosto curiosamente – in una delle nostre interviste con insegnanti e in una lunga intervista – profilo biografico di Margaret Archer – il cui lavoro sociologico è una delle fonti d’ispirazione di questo studio. La riprendo qui, nel significato specifico che dovrebbe essere chiaro, dato il contesto discorsivo.