Character skills e didattica digitale
DOI: 10.1401/9788815374615/c6
Conclusionidi Andrea M. Maccarini
Notizie Autori
Andrea M. Maccarini insegna Sociologia nell’Università di
Padova. È autore, tra l’altro, di Deep
Change and Emergent Structures in Global
Society (2019) e di Lezioni
di sociologia dell’educazione (2003);
ha curato il volume L’educazione
socio-emotiva. Character skills, attori e processi
nella scuola primaria (2021).
La ricerca basata su studi di caso non
ha, normalmente, l’obiettivo di acquisire conoscenze generalizzabili. Così è anche per il
nostro studio. Esso, tuttavia, ha prodotto dati che permettono di trarre alcune conclusioni
di carattere interlocutorio, soprattutto generando ipotesi di lavoro e identificando punti
cruciali su cui focalizzare l’attenzione per ulteriori ricerche. È dunque possibile
concludere questo libro con tre ordini di considerazioni: la prima riguarda l’esperienza
scolastico-educativa vissuta dagli adolescenti, i suoi significati e alcuni tratti
distintivi che i giovani alunni hanno manifestato. La seconda riguarda l’impatto della
DAD/DDI e il ruolo degli insegnanti. La terza concerne gli spunti che emergono per un
approfondimento degli studi.
Per quanto riguarda l’esperienza
scolastica nel periodo pandemico da parte degli alunni, la nostra indagine ha incontrato
adolescenti sicuramente toccati dalla crisi in atto, soprattutto perché hanno percepito un
contesto sociale e culturale che si sta sbriciolando e una scarsa capacità del mondo adulto
di fare fronte alla crisi in modo autorevole, proponendo modelli di comportamento che
possano approssimarsi a una guida normativa, a una bussola per orientarsi nel mondo che
cambia. Ci si può domandare che ne è, in queste condizioni, dell’idea che i giovani possano
essere o diventare una forza di cambiamento, esprimere un potenziale di energie aperto alla
contingenza, all’imprevedibilità del mondo, senza che le proprie
chances di vita siano ridotte o negate dalle avversità – quale
appunto la crisi pandemica e le altre che li aspettano, nel futuro incerto. In altri
termini, ci si chiede se la potenzializzazione che abbiamo discusso
¶{p. 172}nel capitolo primo come una delle tendenze forti in ambito
socializzativo/educativo abbia un riscontro effettivo su questi adolescenti. La premessa
necessaria è che non si è in presenza di un’impostazione educativa esplicita da parte delle
scuole. La nostra osservazione, dunque, riguarda un atteggiamento reattivo rispetto a una
situazione di fatto piuttosto che un effetto atteso da un’operazione educativa intenzionale.
Alcuni esiti della nostra indagine sono rilevanti da questo punto di vista. Anzitutto, è
emersa dalle autonarrazioni dei giovani una grande voglia di autonomia e di «fare la
differenza» a livello personale nei contesti della propria vita futura, di evitare ogni
forma di routine e di dipendenza. Questi desideri vengono espressi, nella maggior parte dei
casi, insieme al timore di non essere all’altezza o che le condizioni sociali non ne
permettano la realizzazione. In linea generale, questo è un esito del tutto prevedibile
nella fascia di età in questione. Due tratti però qualificano tali narrazioni in un senso
importante in questa sede. L’apertura al futuro, senza determinazioni rigide, compare nella
maggior parte dei racconti declinata come autorealizzazione pura, cioè
a dire sganciata da motivi ideali o da riferimenti, strutturali o simbolici, a un contesto
socio-culturale più ampio e che trascenda la dimensione individuale. Anche la famiglia, che
rimane un baluardo quasi unico in un panorama simbolicamente desertificato, appare tuttavia
come entità certo positiva, ma che sta nel proprio passato, come sostegno, e non nel proprio
futuro come progetto di vita – se non in una minoranza di casi – proprio per evitare ogni
tipo di vincolo. Questa connotazione è poi più pronunciata tra le alunne rispetto ai maschi.
Si ha quindi l’impressione che l’apertura al futuro venga percepita da questi soggetti come
un processo che deve avvenire, per così dire, «nel vuoto» – sia per un deficit della società
in cui si svolge la propria vita, sia per le conseguenze che si traggono circa le proprie
condizioni di autorealizzazione.
La focalizzazione sulle SES e sugli stili
riflessivi ha permesso di qualificare ulteriormente queste considerazioni. Abbiamo osservato
una percentuale elevata, in misura preoccupante, di riflessivi «fratturati», un numero
relati¶{p. 173}vamente elevato di «autonomi» e viceversa pochi
«metariflessivi» e «comunicativi». Queste qualificazioni piuttosto rozze – «pochi», «tanti»
– sono necessariamente impressionistiche, non soltanto a causa dei limiti imposti alla
nostra indagine, ma anche e più in generale poiché non esiste un
benchmark – nazionale o internazionale – con cui comparare questi
risultati. È stato possibile solo metterli in relazione a precedenti ricerche, anch’esse
tuttavia non facenti capo a massicce surveys standardizzate, bensì
condotte in contesti locali e (com’è ovvio) culturalmente specifici. In ogni caso, la realtà
che si profila è quella di adolescenti spinti in una dimensione
individualistico-performativa, che per una certa percentuale implica poi una sorta di
fallimento della capacità autoriflessiva e proiettiva; sempre meno «comunicativi» (nel senso
tecnico del termine) a dispetto della nube comunicativa in cui la loro vita è costantemente
avvolta; infine, meno impegnati in una dimensione metariflessiva.
Si è visto, ancora, che la cooperazione è
la SES più problematica a livello generale. Anche la resistenza allo stress risulta un
problema per molti alunni, problema che si rivela come un tratto caratterizzante la
popolazione femminile. Al tempo stesso, le ragazze appaiono, in confronto ai maschi, più
determinate rispetto agli obiettivi e meno cooperative. Le dinamiche del gioco hanno, da un
lato, presentato una significativa convergenza con questi esiti, mentre dall’altro li hanno
ulteriormente arricchiti di sfumature, per esempio mostrando come la passione per gli
obiettivi implichi nella maggior parte dei casi l’assunzione di un’ottica di breve termine e
di spiccato individualismo, o come l’ansia e la bassa resistenza allo stress compromettano
la capacità di perseguire un obiettivo comune in una circostanza concreta. Sotto questo
profilo, bisognerebbe riflettere sul fatto che il discorso educativo della
potenzializzazione tende ad associarsi a un’idea di competizione
cooperativa [Andersen, Knudsen e Sandager 2022].
Anche la corrispondenza tra SES e stili
riflessivi offre considerazioni interessanti. È impressionante, per esempio, vedere come i
riflessivi fratturati mostrino punteggi bassi in tutte le SES osservate. È, ancora,
interessante constatare ¶{p. 174}che gli unici soggetti il cui modo di
riflessività si associ a un indice di cooperazione almeno medio siano i metariflessivi. Ciò
si presta a varie riflessioni, sia sul futuro destino di questi ragazzi, sia su ciò che
potrebbe spiegare la bassa competenza cooperativa anche tra i riflessivi comunicativi. In
linea generale, comunque, si osserva che livelli elevati di SES sono correlati a forme della
riflessività personale che indicano una maggiore capacità di orientamento al futuro sensato
e progettuale. In che direzione vada il rapporto causale non è ciò che più conta in questa
sede. Conta, piuttosto, sapere che entrambe le proprietà vanno «educate» e promosse insieme,
perché insieme crescono e si manifestano.
In ultima istanza, al di là del disagio
psicologico che affiora tra i giovani – lo abbiamo notato di passaggio ed è ben noto da
altri dati e osservatori – e che moltiplica le situazioni propriamente patologiche, il punto
di vista specifico della presente indagine invita a una riflessione più ampia sui tratti che
potrebbero caratterizzare la «generazione Covid», se essa davvero emergerà all’esistenza nel
mondo sociale e culturale, a partire dalle qualità che abbiamo osservato in questi casi.
Quale fiducia potranno avere i giovani nelle istituzioni, negli altri in generale e in
definitiva in sé stessi? Quale «ideale» – e in che senso – potrà guidare la loro ricerca di
esprimere il loro pieno potenziale? Cioè a dire, questa avverrà lungo una direttrice di
sviluppo o in una flessibilità senza orientamento? I nostri risultati mettono in evidenza il
bisogno di agire su questi punti sensibili, se si vuole che l’educazione sappia aiutare le
nuove generazioni a intrecciare relazioni sensate con la società, con un patrimonio
culturale di riferimento e con la propria stessa soggettività umana.
Naturalmente, la domanda successiva che
emerge da tutto questo è «perché»? I dati che abbiamo illustrato in questo libro illuminano
connessioni prima non viste e suggeriscono che «lì», nei punti indicati, c’è
qualcosa d’interessante da scoprire. Non è possibile, però, su
questa sola base procedere a determinazioni più conclusive quanto alle cause e ai processi
generativi di questa fenomenologia empirica.
Quanto alle tecnologie – in questo caso
la DAD/DDI vissuta e il gioco online proposto – oltre ad aiutare a
com¶{p. 175}prendere quale sia il vissuto dei nostri adolescenti, quali SES
essi manifestino e come si comportino in situazioni modellate ad hoc,
appare intrigante esplorare più a fondo le loro potenzialità come strumenti sia educativi,
sia conoscitivi. Sotto il primo profilo, due sono le considerazioni che l’indagine ci ha
consegnato. Anzitutto, che l’aspetto fortemente negativo della DAD è legato 1) allo stile di
vita, alle SES e alla motivazione degli alunni ancor più che alle loro
prestazioni; 2) che ciò dipende certamente dalle dotazioni tecnologiche – delle scuole e
delle famiglie – ma in misura nettamente maggiore dalle motivazioni e dalle competenze degli
insegnanti, in un contesto organizzativo e culturale a livello d’istituto scolastico che sia
facilitante e che non abbandoni i processi in atto alla sola iniziativa dei singoli docenti
«volenterosi». La capacità, volontà e possibilità pratica di questi ultimi di pensare e
realizzare la didattica digitale non come ripetizione della lezione in
presenza oppure come assegnazione di compiti da svolgere poi da soli (insomma, come una
forma di home schooling assistito), e viceversa di non de-potenziare
poi il «ritorno a scuola» qualificandolo soltanto sul lato del controllo sociale – si legga:
dedicando le ore in presenza fisica prevalentemente alle verifiche – è ciò che conta di più
per gli alunni. La motivazione e l’entusiasmo degli insegnanti sono il fattore più rilevante
in generale per spingere gli alunni oltre la caduta nella crisi o anche la mera «resistenza»
volontaristica che deprime altre qualità. Sono dunque, in parte, proprio le SES degli
insegnanti a correlarsi con quelle degli alunni in modalità che si devono ancora comprendere
e spiegare rigorosamente, ma comunque in un nesso che appare molto robusto – trasversalmente
a diverse situazioni relative alle classi e agli istituti scolastici. Anche questa
considerazione attende ulteriori studi. In fin dei conti, questa è la conferma di una verità
molto semplice, nota alla sociologia dell’educazione da molto tempo, eppure spesso
stranamente dimenticata: che come e quanto
s’impara dipende da come e quanto
s’insegna
[1]
.
¶{p. 176}
Note
[1] Tra le numerose trattazioni degli effetti della scolarizzazione che mettono in evidenza questo aspetto si veda Sørensen e Morgan [2000].