Character skills e didattica digitale
DOI: 10.1401/9788815374615/c1
Ragionare su queste domande implica due
grandi nuclei generativi del discorso. Il primo tratta l’impatto della crisi dal punto di
vista dell’apprendimento scolastico-disciplinare e della rilevanza economica dell’istruzione.
Sotto questo profilo, il notevole effetto negativo sugli apprendimenti è già stato ampiamente dimostrato
[16]
. Sul piano economico, tale perdita di conoscenze e competenze – cioè di capitale
umano – si tradurrebbe, secondo stime autorevoli, in un calo del PIL nazionale quantificabile
nell’1,5% per ogni anno fino alla fine del secolo [Hanushek e Woessman 2020]
[17]
. A livello individuale, naturalmente, ciò significherà perdite di reddito lungo
tutto l’arco della vita lavorativa, minori opportunità e chances di vita
in generale e maggiori
¶{p. 22}diseguaglianze, ancora difficili da
quantificare, ma molto probabilmente di vaste proporzioni.
Il secondo polo di analisi, quello che
qui c’interessa più da vicino, riguarda lo sviluppo umano dei giovani. Da questo punto di
vista, le evidenze sono per ora assai più indirette. In parte, ciò dipende fatalmente
dall’oggetto di osservazione. È concettualmente facile (benché tecnicamente complesso nelle
raffinate operazioni di misurazione) esaminare il gap di competenze in
matematica (o in altre materie) dovuto alla chiusura delle scuole, e poi proiettare questa
carenza sul quadro del capitale umano a livello aggregato. D’altro canto, invece, interpretare
gli effetti del grande evento pandemico sui sistemi psichici e sullo sviluppo psico-sociale
dei giovani è naturalmente più complicato. Si può, certo, osservare un aumento di ansia e
depressione. Gli studi recenti sono concordi nel cogliere un forte incremento di questi stati
[18]
. Al di là della produzione scientifica, la realtà dei servizi psichiatrici e
psicoterapeutici sul territorio restituisce un’immagine molto netta di adolescenti e giovani
in crisi profonda, benché spesso silenziosa (per ora); una marea di disagio che sale, una
problematica per il momento sottovalutata o soverchiata da altre priorità – reali o apparenti
– ma che minaccia di portare i suoi danni nel lungo periodo. L’accumularsi di fattori di
stress – si dice, ovviamente: dopo la pandemia la guerra! – è un’ulteriore spinta nella stessa
direzione. Tuttavia, in primo luogo, l’analisi di queste situazioni gravi, ma temporanee non
consente immediatamente previsioni certe sugli effetti a lungo termine. Inoltre, e
soprattutto, la questione è più ampia e multidimensionale rispetto al manifestarsi di disturbi
e patologie, che rappresentano la punta di un iceberg. Il benessere e il malessere psichico e
sociale dei giovani, la loro capacità di cercare e trovare il proprio posto nel mondo, di
relazionarsi positivamente con sé stessi e con gli altri entro le sfere sociali in cui si
svolgono le loro vite, di attribuire senso alle proprie esperienze e di pensare sensatamente
¶{p. 23}al loro futuro, facendo progetti e dando forma al proprio percorso di
vita in relazione a essi – tutto ciò va molto oltre la sola prevalenza di ansia e depressione
(che ovviamente rimane un indicatore importante) e costituisce non una «variabile», o un
insieme di variabili, ma un nodo problematico di eccedente complessità, anche per la sua
proiezione nelle nebbie del «lungo periodo» in cui si situano alcuni dei life
outcomes più rilevanti. Il punto è tentare di capire che cosa ne sia delle
traiettorie biografiche dei giovani, fluttuanti in un ambiente sociale instabile e con pochi
punti di riferimento; della loro generatività e capacità di futuro tra ritiro e impegno, tra
perdita e recupero di senso, tra percezione apocalittica e ingaggio individuale-performativo.
Ciò che ci riguarda in questa sede è più specificamente quale ruolo possa avere in tutto
questo l’esperienza scolastica. Parlando di character skills e di
riflessività intendiamo attaccare questo fronte problematico da un particolare versante,
consapevoli di poter soltanto cominciare a gettare una luce parziale su alcune delle sue
dimensioni. La questione sottostante è se la tecnologia rappresenti prevalentemente un mostro
che ora, nelle varie forme assunte dal classware, sta invadendo anche la
scuola, dopo essere già divenuto dominante in altre dinamiche e sfere di vita sociale e
personale, oppure se non si aprano con essa anche e specialmente possibilità
d’insegnamento/apprendimento positive [Koehler e Mishra 2009; Mishra e Koehler 2006].
L’attenzione va dunque al nesso tra due attori e nuclei tematici in sé
rilevanti: da un lato la tecnologia, dall’altro i giovani alunni, con le loro conoscenze e
competenze, intese queste sia nel senso specifico, sia in quello generalizzato di «ciò di cui
le persone sono capaci» [Boltanski 2009].
3. L’«imperativo riflessivo»: alunni adolescenti e didattica a distanza nella scuola che cambia
Parlare di giovani alunni e delle loro
competenze e riflessività non deve indurre a un equivoco. La nostra ricerca non li ha studiati
come categoria a sé stante, individuata come ¶{p. 24}coorte nata in un
determinato torno di tempo e dotata in quanto tale di un certo «capitale»
di competenze e capacità riflessive. Dal punto di vista sociologico, abbiamo considerato le
competenze socio-emozionali e le forme della riflessività come proprietà che
emergono dalle relazioni – con sé stessi, con gli altri, con le
dimensioni simboliche, materiali e pratiche del mondo. In altri termini e per dirla in breve,
ciò significa che se i giovani sono come sono è perché il mondo degli adulti li
socializza-ed-educa in un certo modo. Dunque anche il senso di essere una generazione, di
saper generare il proprio futuro, la definizione dei propri problemi e il modo di affrontarli
nascono e si svolgono in relazione alle altre generazioni. È nel contesto delle
generazioni compresenti che bambini e adolescenti hanno sperimentato un nuovo
modo di fare scuola, una diversa socialità, talora anche una riscoperta di un modo di essere e
stare nel mondo che per certi tratti era già appartenuto ad altre generazioni; ma nel contempo
anche forte disagio, senso di isolamento, perdita di progettualità e di obiettivi per il
futuro. Se si vuole porre seriamente il problema dell’esistenza o no di una ipotetica
«generazione Covid» occorre studiare i processi di socializzazione che favoriscono od
ostacolano l’emergere di un «nesso generazionale» e con ciò la maturazione
eventuale di comuni atteggiamenti e orientamenti culturali alla vita e
al futuro, in questa specifica situazione di catastrofe della socialità
[19]
.¶{p. 25}
Naturalmente educatori, dirigenti e
insegnanti, genitori e amici sono tutti protagonisti di tali processi – benché non i soli,
com’è ormai del tutto scontato nella società della comunicazione
[20]
. Per una teoria della socializzazione non deterministica, ma orientata alla
riflessività, sia le caratteristiche dei soggetti e il loro approccio all’interazione, sia le
relazioni in sé sono dunque il nocciolo della questione
[21]
. Entro questa cornice, anche le narrazioni e interpretazioni che il mondo adulto
offre sono importanti per i giovani e richiedono la loro rielaborazione creativa [Corsaro
2020]. Sotto questo profilo, le molteplici narrazioni intorno alla pandemia generate da
diversi attori sociali sono a oggi descrivibili come chaos narratives
[Frank 1995]: non lineari, frammentate e disordinate, talora contraddittorie, ma implicanti
comportamenti adattivi/contro-adattivi, insidie, fallimenti, incertezze, cambi di direzione
[Cozzi e Diasio 2017]. Gran parte dei media ha consegnato a bambini e adolescenti l’idea che
la pandemia, la scuola a distanza e la limitazione della socialità costituissero una perdita
irreparabile, che li avrebbe marchiati a vita. Il mercato del lavoro si sarebbe ricordato di
loro come «quelli che non hanno fatto la maturità; quelli che sono stati tutti comunque
promossi». In realtà, il nostro studio è partito dall’ipotesi che l’esperienza della perdita
non vada necessariamente qualificata in termini soltanto negativi, ¶{p. 26}ma
vada osservata nel quadro di una «terapia del possibile» [Cometti 1996]. Le biografie degli
individui, in ogni tempo, sono disseminate di trappole, incidenti, imprevisti, eventi
spiazzanti e sfidanti. La cosiddetta «generazione Covid» non è dunque sostanzialmente diversa
da altre che hanno subito guerre, migrazioni, crisi economiche o politiche. In tutti questi
casi non si ha a che fare con meccanismi automatici; la differenza decisiva sta nel modo –
strutturalmente e culturalmente condizionato, ma non determinato – in cui si
re-agisce, si elabora la difficoltà, si accoglie la sfida. Un esempio
riguarda il fattore tempo: durante la pandemia il tempo ha, apparentemente, iniziato a fluire
in modi diversi rispetto a quanto accadeva prima, in una oscillazione continua tra la polarità
del tempo vuoto da lasciare scorrere rimanendo a guardare nell’inerzia e
il tempo libero da occupare, riempire, arricchire; il tempo durante la
pandemia ha di conseguenza acquisito nuovi significati, che stanno tra lo scivolamento verso
la perdita inesorabile che non si sa contrastare e la riappropriazione del tempo per sé, speso
nell’investimento in nuove conoscenze e competenze, e nella (ri)scoperta di nuove e vecchie
passioni. Il tempo lungo di esposizione alla pandemia e l’incertezza rispetto al suo epilogo
sta agendo infine sulle scelte e sulle prospettive individuali, spingendo in direzione
dell’immobilismo/incertezza paralizzante per alcuni e della intraprendenza/scoperta per altri.
Nel caso di giovani e adolescenti, questa gamma di vincoli-e-possibilità ha preso una forma
polarizzata: più casa, più famiglia, più noia, più ansia e incertezza su chi si è e dove si
sta andando, ma anche più iniziativa, più curiosità e soprattutto più tempo riflessivo.
Ipotizziamo dunque che i giovani esposti alla pandemia in una fase della vita caratterizzata
dalla definizione identitaria non siano stati soltanto annientati dal virus e dai suoi effetti
sociali. Talvolta, il momento attuale potrebbe addirittura giocare a loro vantaggio, svolgendo
il ruolo d’incubatore e acceleratore di energie, capacità, progettualità, orientamenti al
futuro. Non per tutti l’anno di scuola con il Covid è stato un «anno di riposo e oblio».
Le considerazioni svolte fino a questo
punto spiegano in che senso l’evento della pandemia possa essere definito
¶{p. 27}come un imperativo riflessivo. Tale formula
indica un fatto che genera discontinuità e incoerenza profonde nel corso di vita delle persone
e pertanto non può essere affrontato semplicemente sulla base delle norme, delle pratiche e
degli habitus precedenti, ma sollecita le capacità riflessive a elaborare
nuove risposte pratiche e nuovi significati per le proprie esperienze
[22]
. In tale contesto, anche le competenze sociali ed emozionali assumono un ruolo di
crescente rilevanza, come operatori specifici che facilitano od
ostacolano l’adattamento creativo e la resilienza delle persone in condizioni di rapido
cambiamento ed elevata complessità. Il condizionamento strutturale/culturale e la
ri-socializzazione alla nuova situazione sono mediati da queste capacità,
che qualificano l’azione sociale e concorrono a spiegare come dal medesimo contesto e dalla
stessa pressione sociale si generino traiettorie biografiche divergenti. Le strategie di
coping, di risposta alle sfide, i processi di maturazione,
autonomizzazione e assunzione di responsabilità, la possibilità di esprimere una visione
sensata di sé e dei propri piani di vita per il futuro dipendono in misura rilevante da queste
proprietà.
Note
[16] Per l’Italia si vedano i dati, chiari e drammatici, emersi dalle prove INVALSI del 2021: https://invalsi-areaprove.cineca.it/index.php?get= static&pag=materiale_approfondimento.
[17] Questa percentuale è una media riferita ai paesi OCSE, calcolata sul periodo di chiusura delle scuole nella sola «prima ondata» pandemica del 2020 e supponendo che non vi siano ulteriori chiusure. Naturalmente, i vari paesi saranno variamente posizionati attorno a questa media, a seconda della maggiore o minore durata della loro chiusura e di altre variabili, quali per esempio la dotazione tecnologica e la qualità della didattica erogata a distanza.
[18] Nella vasta letteratura già accumulatasi sul tema, che non possiamo discutere qui, si veda per esempio la meta-analisi di Racine e colleghi [2021].
[19] Qui la nostra ricerca si connette al dibattito teorico ed empirico sul tema delle generazioni. In particolare, si situa all’incrocio tra le classiche analisi di Karl Mannheim [1928; trad. it. 1974] e la loro critica. Parlare di «generazione Covid» sembra echeggiare l’idea di generazione intesa come insieme di persone esposte a un medesimo contesto storico-sociale, alle stesse idee, eventi e «contenuti di vita», da cui risulta – attraverso un «nesso generazionale» – lo sviluppo di comuni modi di sentire, di pensare e di agire, e potenzialmente di certe forme di agire collettivo. Tale effetto è, naturalmente, più forte e profondo quando l’esposizione a eventi di vasta portata avviene nell’età in cui la propria identità è in fase di formazione. Il lavoro di Donati e Colozzi [1997] ha a suo tempo mostrato efficacemente come e perché le generazioni in questo senso risultino sempre più difficili da identificare e forse non esistano più. Ora, la potenza del fenomeno pandemico sembra rilanciare in un certo senso tale possibilità, in forme ancora da comprendere. La nostra interpretazione tiene conto di questa possibile evoluzione. Ma rimane vero, in ogni caso, che la costituzione di «nessi», articolati in «unità» generazionali – per dirla sempre con Mannheim – può essere colta soltanto attraverso le relazioni con le generazioni compresenti, che mediano tali complesse transazioni. Queste relazioni sono, perciò, al centro delle nostre analisi.
[20] Occorre però ricordare che anche i social media e l’intera nube comunicativa che avvolge ormai completamente le nostre vite non è semplicemente un fenomeno naturale, ma un fatto socio-culturale che dipende da specifici «architetti» e dal design che essi esprimono. Benché sganciato dal livello dell’interazione faccia a faccia, essi fanno comunque parte di quel «mondo adulto» con cui i giovani si confrontano.
[21] Non è certamente questa la sede per fare il punto sulla teoria della socializzazione. Un’utile rassegna, ancora attuale, si trova in Maccoby [2007]. Il riferimento a una teoria «orientata alla riflessività» rimanda a una prospettiva esemplificata in Archer [2015]. Su questo tema ci permettiamo di rinviare anche alle considerazioni svolte in Maccarini [2017].
[22] L’espressione «imperativo riflessivo» compare nel lavoro di Margaret Archer per designare un effetto centrale delle situazioni di rapida trasformazione sociale e culturale, introducendo la sua teoria della riflessività personale. Si può argomentare che tale concetto sia applicabile a vari livelli di organizzazione sociale, dall’interazione all’organizzazione fino ai sistemi sociali più complessi. La stessa nozione di potenzializzazione, a cui abbiamo accennato sopra, è strettamente connessa a questa condizione di «necessità riflessiva». L’interpretazione della pandemia come imperativo riflessivo è qui ripresa da una conversazione con Mark Carrigan (Università di Manchester) e da un lavoro comune in corso di elaborazione.