Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c6
Giovanni Pizza Postilla. All’ombra delle parole. Nota metodologica sulle storie di vita
Notizie Autori
Giovanni Pizza
insegna Antropologia medica e Scienze demoetnoantropologiche e salute all’Università degli Studi di Perugia. Dirige «AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica fondata da Tullio Seppilli». Tra le sue pubblicazioni: Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo (Carocci, 2005); Il tarantismo oggi. Antropologia, politica, cultura (Carocci, 2015); L’antropologia di Gramsci. Corpo, natura, mutazione (Carocci, 2020).
Abstract
Una delle metodologie di analisi dell’antropologia sociale e culturale più note è la storia di vita cioè la fonte orale e/o autobiografica he, come sostenuto anche da Stefano Montes [Montes 2019], contiene il segno di una divergenza etnografica, vera e propria schismogenesi tra l’antropologo/a e la voce narrante raccolta, un’autentica frontiera che la storia di vita riesce a oltrepassare recandone traccia. Coniugare alla vita la conoscenza vuol dire provarsi a effettuare una congiunzione di limite. Ma per farlo occorre chiarirsi bene le idee soprattutto sul concetto di vita.Dal punto di vista dell’antropologia medica e delle sue metodologie operative è urgente affrontare oggi quella che Bruce Kapferer ha definito la «grande svolta individualista dell’antropologia» [Kapferer 2005, 2]. Altrimenti si rischia di produrre un clamoroso ribaltamento, di causare una chiusura comunicativa, notturna, dell’intimità, favorendo il declino della natura umana.
Una delle metodologie di analisi
dell’antropologia sociale e culturale più note è la storia di vita cioè la fonte orale e/o
autobiografica [Clemente 2013] che, come sostenuto anche da Stefano Montes [Montes 2019],
contiene il segno di una divergenza etnografica, vera e propria schismogenesi tra
l’antropologo/a e la voce narrante raccolta, un’autentica frontiera che la storia di vita
riesce a oltrepassare recandone traccia.
Le storie di vita proposte in questa
sezione – vicende paradigmatiche dal versante metodologico dell’antropologia – vertono sulla
presenza e la sua crisi. Attraverso un’etnografia politica del corpo, delle sue esperienze
incarnate, esse introducono tale dinamica, che, nel terzo millennio, ha visto decisamente un
nuovo impulso nella ricerca antropologica.
Tra i successori e gli esegeti di
Ernesto de Martino vi sono quanti, felicemente, declinano la presenza e la sua crisi come
una questione non psicologica, in essa riecheggiando l’agency politica
soggettiva che certo non si incrina con la disabilità.
La presenza è la capacità di stare al
mondo e di trascenderlo. Nelle società occidentali la presenza umana è data, non lo è ancora
nell’universo magico, dove essa non è consolidata ma appare ancora labile. È questo per de
Martino il «dramma storico» della magia: presenza umana e mondo esterno non sono ancora
autosufficienti, autonomi, indipendenti. La presenza vive qui un rischio, quello di una sua
possibile dissoluzione: è il rischio di una perdita, di una crisi. La presenza «che abdica
senza compenso» si riscontra in stati psicologici e psicofisici che appaiono diffusi nel
mondo e che possono talora verificarsi in contesti di istituzionalizzazione quando
l’istituzione penetra nel corpo del soggetto, come la metafora del serpente di cui Franco
Basaglia [Pizza 2007] ci racconta nei suoi scritti sulla violenza istituzionale del
manicomio visto come un rettile che possiede un essere umano, che Massimiliano Minelli
riprende a proposito della sua etnografia brasiliana sulla salute mentale [Minelli
2014].¶{p. 132}
La metafora della possessione – scrive Minelli – consente a Basaglia di evidenziare la dimensione processuale delle lotte per il superamento dell’ospedale psichiatrico e di sondare microfisicamente il rapporto fra corpo, soggettività e istituzione [Minelli 2014, 388].
In simili istituzioni totali [Goffman
1961; trad. it. 2010; Minelli 2022] si potrebbe dire, come ha scritto Marcello Massenzio
introducendo Il mondo magico di Ernesto de Martino [2022], che:
Vi è il rischio che la presenza possa defluire nel mondo, confondersi con esso, annullarvisi; non meno inquietante è il rischio che il mondo possa sommergere la presenza, determinando una situazione di caos, incompatibile con la nozione elementare di cultura che presuppone la distinzione dei due termini, funzionale al loro interagire [Massenzio 2022].
Le storie qui raccolte sono esperienze
di persone in carne e ossa, di pluralità corporea; sono le storie di vita di quante e quanti
«portano» la disabilità su di sé a definire l’analisi culturale, non i numeri delle grandi
misurazioni. Come diceva Tullio Seppilli [cfr. Bibeau 2020], fondatore dell’antropologia
medica italiana, l’antropologia serve a capire, ad agire, a impegnarsi per cambiare.
Si tratta, allora, di indicare i
passaggi che fanno sì che la disabilità diventi oggi un tema rilevante delle antropologie
critico-politiche dei processi di incorporazione che caratterizzano le storie di vita come
metodo antropologico e anche di sottolineare l’efficacia comparativa dei resoconti
etnografici [Palumbo 2020], la potenza trasformativa che può scaturire dalle pratiche
teoriche messe a confronto in una dimensione laboratoriale, pure in chiave di
co-disciplinarità [Fainzang 2006], per l’importanza di elicitare domande e dibattiti allo
scopo di favorire una ricerca collettiva, sperimentale e aperta.
Già nove anni fa, nel 2014, Gianfranca
Ranisio, facendo una rassegna critica nell’intento di evidenziare il contributo
antropologico agli studi sulla disabilità e sulla sua concettualizzazione, ci ricorda quanto
sia stato importante per la nostra disciplina «non costringere la disabilità solo entro le
categorie mediche» [Ranisio 2014, 200]. Un contributo significativo, che al tempo stesso
allontana e avvicina l’antropologia medica (d)alla questione della disabilità. Ma, a nostro
avviso, la libertà metodologica di cui gode l’antropologia medica è proprio questa doppia
mossa: allontanare il vicino e avvicinare il lontano. Certamente, come suggerisce Ranisio,
la disabilità è una nozione socio-culturale su cui riflettere fin dalla sua nominazione;
nondimeno, ci troviamo dinanzi a un’estrema complessità da dipanare: sono molte e complesse
le tematiche connesse con la disabilità, che si dimostra un mondo vario e ampiamente
articolato, ¶{p. 133}e analogamente complesse sono le piste di ricerca che
si aprono, che tuttavia hanno in comune la premessa che il modo in cui gli individui
sperimentano la disabilità, al di là degli elementi soggettivi, legati all’esperienza
individuale, si deve misurare con le politiche di leggi nazionali e deve essere considerato
nel contesto delle situazioni locali, nelle quali hanno un loro peso specifico gli aspetti
culturali e sociali [ibidem, 209-210]. Forse proprio per mimetizzare
una simile complessità evocheremmo una nozione più ampia di politica, che non riguarda
soltanto le leggi del governo dello Stato nazionale italiano, ma la teoria antropologica
stessa: l’intersezione di cui giustamente ci parla Ranisio, e che De Silva [2020] sviluppa
nella sequenza delle molteplicità figurali umane, sta a indicare la plurale diversità che
caratterizza chiunque, ciascuno di noi, nei suoi passaggi trans-contestuali quotidiani,
fatti di allontanamenti e avvicinamenti [Marchetti 2013]. E pertanto essa ci spinge a
parlare non di individui, ma almeno di dividui (secondo la complessa tradizione scientifica
dell’antropologia) se non figure proteiformi che, ad esempio, solo James Joice avrebbe
potuto immaginare.
Coniugare alla vita la conoscenza vuol
dire provarsi a effettuare una congiunzione di limite. Ma per farlo occorre chiarirsi bene
le idee soprattutto sul concetto di vita. Approfondendo uno studio che consideriamo
fondativo ai fini dell’elaborazione della cornice di lavoro [Pizza 2003; 2020, 67], e anche
in ragione dell’esercizio critico nei confronti delle procedure di classificazione, e di
normalizzazione, più o meno violente, insisto sull’esigenza espressa in un libro di Roberto
Esposito [2010] di considerare l’«estroflessione alla vita» del pensiero un’ascendenza
italiana alla quale ascrivere anche Gramsci e il suo «pensiero vivente». Nondimeno, quello
che ci interessa qui, non è tanto la questione della conoscenza, cioè della cultura
epistemica che ne risulta coinvolta, quanto verificare le implicazioni della nozione di
vita: non una riflessione esclusivamente votata all’analisi della costellazione
Stato-nazione-territorio dunque, ma, forse soprattutto, l’individuazione di un rapporto
socio-culturale e politico tra il corpo e lo Stato [Pizza e Johannessen 2009].
Dal punto di vista dell’antropologia
medica e delle sue metodologie operative è urgente affrontare oggi quella che Bruce Kapferer
ha definito la «grande svolta individualista dell’antropologia» [Kapferer 2005, 2].
Altrimenti si rischia di produrre un clamoroso ribaltamento, di causare una chiusura
comunicativa, notturna, dell’intimità, favorendo il declino della natura umana.
La disabilità è una categoria insieme
intima e pubblica, una nozione sociale plastica e mobile, storicamente usata per includere e
modellare molteplici condizioni umane che sono parte della vita. Ben oltre le
classificazioni e le etichette, le storie di vita in quanto esperienze sociali
¶{p. 134}impongono di pensare differenti orizzonti per una moltitudine di
traiettorie possibili.
Si tratta, quindi, di effettuare un
passaggio verso un’unica meta: dimostrare come prospettive antropologiche plurali, fondate
su storie di vita concrete, siano in grado di confrontarsi usando gli strumenti
dell’antropologia, con pratiche, esperienze, politiche, poetiche della disabilità, riuscendo
a evidenziare la fluidità della soglia culturale e istituzionale tra spazio individuale e
sociale, tra dimensione intima e pubblica. Dunque, si tratta di innestare ciò che fiorisce
oltre le parole o all’ombra di esse.