Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c4

Virginia De Silva Storia di Daniel che non è in un Paese per giovani

Notizie Autori
Virginia De Silva insegna Antropologia culturale all’Università degli Studi di Perugia. Coordinatrice del gruppo Antropologia Medica&Disabilità, è assegnista di ricerca presso l’Università della Calabria per un progetto PRIN sulle nuove forme di istituzionalizzazione. Ha fatto parte della Missione etnologica italiana in Tigray-Etiopia. È coordinatrice dell’editorial board di «Minority Reports. Cultural Disability Studies».
Abstract
Daniel è un giovane uomo che vive in una RSA dal 2011. Questa brevissima frase sintetizza in maniera densa l’ossimoro stridente che caratterizza la sua vita e condensa tutti i paradossi e le aporie di una società nella quale il welfare è ancora un concetto che ha poco a che fare con l’autodeterminazione e la capacità di essere e di aspirare dell’individuo/persona. Il punto zero, conditio sine qua non, può essere certamente rintracciato nel grave incidente di cui Daniel è stato protagonista e che gli causerà una gravissima lesione spinale con perdita di consistenti funzionalità motorie. Il fratello è arrivato in Italia al momento dell’accaduto e ha aiutato Daniel nei primi mesi dopo l’uscita dall’ospedale. Gli amici e il coinvolgimento del Terzo settore, in questo caso la Caritas, hanno permesso a Daniel di trovare una sistemazione e questo è indice di quanto la rete amicale e quella sociale delle associazioni, del volontariato siano importanti e di sostegno. Daniel mette in atto la propria agency attraverso forme di riappropriazione del sé e del proprio tempo, dedicandosi alle attività pomeridiane che sono le attività da lui scelte e non prescritte. L’approccio emergenziale e non progettuale alle crisi e una incapacità e impossibilità dei Servizi territoriali – proprio per come sono stati intrinsecamente pensati – di plasmarsi sui desideri e le aspirazioni delle persone, oltre che sui bisogni assistenziali, restringono la costellazione immaginativa e praticabile del futuro di Daniel. Una macchinosa burocrazia, fatta di cavilli, misurazioni, valutazioni, non permette a Daniel di accedere ai finanziamenti per i progetti sperimentali di vivere in autonomia.
Possiamo immaginare che ogni giocatore abbia davanti a sé pile di gettoni di diversi colori, corrispondenti alle diverse specie di capitale in suo possesso; la sua forza relativa nel gioco, la sua posizione nello spazio del gioco, come pure le sue strategie nel gioco, le mosse più o meno arrischiate, più o meno prudenti, più o meno sovversive, più o meno conservatrici che può fare, dipendono sia dal volume globale dei suoi gettoni, sia dalla struttura delle pile di gettoni, dal volume globale e dalla struttura del suo capitale.
[Bourdieu 1992, 69].
«Sono Daniel, sono entrato in questa struttura nel 2011. Avevo 27 anni e sono ancora qui, in una residenza per anziani» [1]
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La storia di una vita è come un telaio nel quale le esperienze, le scelte, gli accadimenti, le quotidianità creano l’ordito e la trama. Nella storia di una vita, i fili verticali e quelli orizzontali disegnano traiettorie presenti e orizzonti futuri. E se uno di quei fili si sfilacciasse, si deteriorasse? Se gli altri fili avessero invece una stabilità, un legame forte, una correlazione, il filo spezzato resterebbe solo un dettaglio, una sbavatura o anche una crepa caratteristica che rende il tessuto unico, irripetibile, raro; quel difetto che è anche positivamente distintivo. Se poi tutti gli altri piccoli fili non fossero in grado di reggere l’urto, né ben legati, ben saldati e collegati tra loro, quel filo che non tiene potrebbe essere l’inizio di uno sfilacciamento a cascata dell’esistenza e dell’esistente. Potremmo definire questo sfilacciamento come una crisi. Etimologicamente la crisi è un punto di separazione, uno spartiacque, ma anche una scelta, una decisione. Sono allora le restrizioni della possibilità di scegliere che rendono la crisi un punto di non ritorno e di rischio di perdita della presenza nel mondo, come direbbe Ernesto de Martino.{p. 94}
Nel caso di Daniel, entrare in un’istituzione e «sparire» dentro di essa significa perdere la possibilità di esserci, di abitarlo quel mondo e di farlo proprio. Può essere, però, anche foriero di atti di r-esistenza per l’affermazione della propria presenza.
Daniel è un giovane uomo che vive in una RSA dal 2011.
Questa brevissima frase sintetizza in maniera densa l’ossimoro stridente che caratterizza la sua vita e condensa tutti i paradossi e le aporie di una società nella quale il welfare è ancora un concetto che ha poco a che fare con l’autodeterminazione e la capacità di essere e di aspirare dell’individuo/persona.
Daniel non vive in una RSA per scelta, ma per una burocrazia macchinosa, per un restringimento delle possibilità, per un approccio emergenziale alle crisi. Potremmo dire «per caso», ma parlare di casualità, fato, sfortuna sarebbe un modo per de-responsabilizzare il dis-ordine sociale e non ci aiuterebbe a ricostruire la «violenza strutturale» [Farmer 2007] che caratterizza la sua storia e a riconoscere le variabili culturali e soprattutto storico-politiche che hanno condotto un giovane, ventisettenne ai tempi dell’ingresso in struttura, a vivere e a essere dimenticato in un’istituzione, perdipiù pensata per anziani.
Cerco qui, allora, di tracciare la tela della storia di vita di Daniel, intessuta dalle sue parole, per analizzare e comprendere quali sfilacciamenti esistenziali hanno portato un giovane uomo a vivere in una tale situazione.

1. Il punto 0?

Il punto zero, conditio sine qua non, può essere certamente rintracciato nel grave incidente di cui Daniel è stato protagonista e che gli causerà una gravissima lesione spinale con perdita di consistenti funzionalità motorie, ma, con un occhio più attento, possiamo riconoscere che quello dell’incidente è stato un punto di svolta anche a causa delle condizioni antecedenti. Se diamo per assodato che l’incidente sia stato lo spartiacque, provo qui a ritrovare le tracce che nel passato di Daniel hanno reso, quello dell’incidente, un momento così cruciale e come le azioni intraprese a partire da quel momento abbiano tracciato anche i sentieri futuri:
Tessere una storia di vita significa accordarle una coerenza – spesso a posteriori – dipendente da ciò che ci viene chiesto dal nostro prossimo e dal modo in cui noi intendiamo «offrirci» agli Altri [Montes 2019].
L’incidente ha provocato gravi danni fisici a Daniel. Sappiamo che una menomazione o malfunzionamento fisico acquisito è spesso associato a un sentimento di perdita. Che a livello fisico-funzionale si tratti di una perdita {p. 95}di facoltà precedentemente possedute e socialmente definite «standard» o «normali» possiamo darlo per assodato. Ma il senso di perdita non ha meramente a che vedere con le funzionalità organiche motorie, quanto più con il funzionamento della persona nell’ambiente di vita; diviene simbolicamente anche una perdita di mobilità sociale. La narrativa della «perdita» e la «teoria della tragedia personale» [Oliver 1990] che caratterizza spesso le storie di vita di persone con disabilità ha, a mio avviso, a che fare con dei processi di incorporazione [cfr. Csordas 1994; Pizza e Johannessen 2009] del «senso comune» [Gramsci 1975]. In una società nella quale gli standard fisico-prestazionali sono imposti dall’immaginario egemone – e quindi hanno spesso a che vedere con una teoria della produttività tipica della «globalizzazione neoliberale» [Ledwith 2016, 691] – tutto ciò che non è conforme alla norma è definito diverso, ma in un’accezione peggiorativa:
Per quanto riguarda la disabilità, se è vista come una tragedia, allora le persone disabili saranno trattate come se fossero le vittime di qualche evento o circostanza tragica. Questo trattamento non avverrà solo nelle interazioni quotidiane, ma si tradurrà anche in politiche sociali che cercheranno di compensare queste vittime per le tragedie che le hanno colpite.
In alternativa, ne procede logicamente che se la disabilità è definita come oppressione sociale, allora le persone disabili saranno viste come vittime collettive di una società indifferente o inconsapevole, piuttosto che come vittime individuali delle circostanze [Oliver 1990; trad. it. 2023, 34].
Daniel, originario e residente in Romania, prima dell’incidente lavorava stagionalmente in Italia:
Io venivo stagionalmente. Per fare la stagione assunto come cameriere, ma facevo il tutto fare. E poi in inverno stavo in Romania e cercavo altro lavoro da fare. Venivo per iniziare la stagione, un po’ in ritardo, perché dovevo finire un lavoro in Slovacchia e il 2 giugno è successo questo incidente. Il pulmino veniva dalla Romania, a me ha preso dall’Austria ed è successo in Italia tra S. e T. Abbiamo fatto un frontale con un camion. Era un pulmino di nove persone privato. A P. ci son finito così, perché l’incidente è successo lì e poi avevo amici conoscenti e il datore di lavoro da cui venivo che abitavano a T. e attraverso loro avevo qualcuno e avendo la regione una delle migliori Unità Spinali, sono specializzati in queste cose. Allora son rimasto qua, anche perché spostarmi è difficile.
La precarietà lavorativa diventa anche una precarizzazione della vita; i contratti di lavoro di Daniel erano saltuari e spesso ufficialmente riportavano meno mesi lavorativi, rispetto a quelli realmente svolti. Un particolare che ha influito anche su una riduzione economica del risarcimento per l’incidente, che Daniel riuscirà a percepire solo dopo una lunga lotta processuale con l’assicurazione.{p. 96}
Io non ho la famiglia, cioè... ce l’ho, ma non è qua. È tutta in Romania. Fratelli, la mamma, le nipoti non mi possono aiutare. Purtroppo, da noi la vita è diversa, più cara rispetto a qua. E quindi sto in Italia, da solo.
Sono tornati in Romania, perché non valeva più la pena. È rimasto mio fratello per un po’, ma non trovando lavoro non poteva più stare. A P. è anche un po’ difficile trovare lavoro.
Iniziamo a vedere come l’incidente, questo certamente una sfortunatissima e tragica casualità, si innesti su una situazione già precaria di insicurezza economica e sociale: il trovarsi in un Paese che non è il proprio, senza una rete familiare come cuscinetto protettivo; un lavoro saltuario che non garantisce diritti di tutela né economica, né previdenziale, né sociale (malattia, stipendi e indennizzi, ecc.). Questa «intersezione tra assi di potere» [Yuval-Davis 2006] di giovane straniero con un lavoro precario, senza familiari vicino, agisce come forza oppressiva che rende la tragica casualità dell’incidente quella goccia che fa traboccare il vaso.

2. Famiglia: assistenza, responsabilizzazione e disabilitazione

Il fratello è arrivato in Italia al momento dell’accaduto e ha aiutato Daniel nei primi mesi dopo l’uscita dall’ospedale. Alla fine, però, è stato costretto a tornare in Romania sia per questioni lavorative, sia perché, come dice Daniel, «il carico assistenziale era troppo alto»:
Sono finito in questa struttura nel 2011, perché purtroppo quando mi hanno dimesso dall’ospedale ancora sul territorio non c’erano queste strutture per disabili adulti. Ero già grande, avevo 27 anni compiuti e allora è capitato anche di entrare in emergenza perché a casa dove stavo non avevo le condizioni. Dall’ospedale sono finito in una casa che mi hanno trovato gli amici, attraverso Caritas, e sono finito per un periodo per vedere come va... con mio fratello, mia cognata e amici. Avevo molti dolori. Anche oggi non possono dedicare tutta l’assistenza di cui ho bisogno, perché nel mio caso io sono abbastanza impegnativo dal punto di vista assistenziale.
Come si evince dalle parole di Daniel, la situazione colpisce e coinvolge non solamente lui in prima persona, ma anche familiari e amici. Nello studio delle malattie e delle condizioni croniche, e in un’opera dedicata in particolare allo studio delle illness narratives di persone affette da sclerosi multipla, gli autori Monks e Frankenberg [1995] riportano la storia di una donna malata che si chiede, pensando al proprio marito: «[C]hi ne è stato più colpito?». L’approccio individualizzante e medicalizzante al malessere, alla malattia e alla disabilità conduce a un’individualizzazione degli interventi terapeutico-riabilitativi e abilitativi. La de-socializzazione è un caratteristico atteggiamento che contraddistingue il paradigma biomedico:{p. 97}
la tendenza al riduzionismo biologico porta a individualizzare all’estremo l’idea stessa di malattia (salvo per alcune patologie infettive), a circoscrivere l’attenzione sul singolo paziente – quando non addirittura su qualche suo organo o tessuto – e a escludere ogni coinvolgimento degli altri individui che con lui formano la sua «molecola sociale» [Lupo 2014, 114].
Eppure, davanti a una riduzione delle abilità e delle funzionalità fisico-motorie, l’acquisizione di un nuovo status corporeo e sociale davvero riguarda soltanto colui o colei che chiameremmo «paziente»? Non vi è forse una ridefinizione della vita anche per chi assiste? Utilizzo qui il termine assistenza nella doppia accezione che l’antropologo Massimiliano Minelli e l’antropologa Veronica Redini ne danno in un loro articolo [2012] e cioè sia di verbo transitivo che indica un’azione di cura, sia nell’etimologia di ad-sistere e cioè dello «stare accanto». Non è forse vero che coloro che Erving Goffmann [1963] chiamava «i saggi» coesistono e partecipano della disabilitazione della persona alla quale sono vicini?
Di fatto l’empowerment dovrebbe riguardare non soltanto la persona, ma anche il potenziamento dei familiari e della «comunità». Un aiuto ad aiutare – laddove, ovviamente, l’aiuto e il sostegno di questi siano desiderati e auspicati dalla persona interessata.
La creazione di un nuovo «kinship imaginary» [Rapp e Ginsburg 2011] e cioè una ridefinizione quasi totale dei rapporti intra-familiari, della gestione e dell’immaginazione del tempo e della quotidianità da parte delle famiglie nelle quali «il dispiegarsi culturalmente ordinato di un corso di vita normativo non può più essere assunto» [ibidem, 380; trad. it. mia], deve essere sostenuta e supportata anche da un nuovo immaginario collettivo, un diverso processo istituzionale e politiche differenti.
In Italia sembra che molto del welfare sia delegato alla famiglia in una chiara responsabilizzazione del singolo o dei singoli nuclei familiari e una de-responsabilizzazione da parte degli organi istituzionali e governativi preposti.
La disabilitazione di Daniel diventa anche, in assenza di una sussidiarietà verticale, garantita dai servizi e dalle istituzioni e con insufficiente sussidiarietà orizzontale data da associazioni e confronto tra pari, una disabilitazione di tutto il nucleo familiare che, come dice lo stesso Daniel, non riesce a gestire il «carico assistenziale».

3. Dimissioni non protette o di una quotidiana emergenza

D.: Avendo l’Unità Spinale qua, allora son rimasto qua, poi ho allargato la rete di amicizia. Ma in Romania non credo tornerò mai, perché la sanità qua in Italia è migliore. La Romania è un Paese in cui non ce la fai. [...]. In ospedale
{p. 98}sono stato quattro mesi e mezzo. Poi sono stato in una casa data dalla Caritas, poi ho fatto richiesta per entrare nella struttura. Perché non era adatta la casa. E tutto là.
Note
[1] Nel testo è stato utilizzato uno pseudonimo e i riferimenti geografici sono stati oscurati.