Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c18

Fabrizio Magani e Giovanni Merlo Bloccati dalle procedure

Notizie Autori
Fabrizio Magani è assistente sociale, formatore, direttore della RSD Luigi e Dario Villa di Fondazione Stefania Onlus (ente senza fini di lucro che si occupa della promozione e organizzazione di attività nei settori dell’assistenza sociale, socio-sanitaria, dell’educazione e della formazione professionale finalizzate a migliorare la qualità della vita e a favorire l’inclusione sociale e lavorativa delle persone con disabilità).
Notizie Autori
Giovanni Merlo è direttore di LEDHA (Lega per i diritti delle persone con disabilità) – federazione regionale lombarda delle associazioni delle persone con disabilità e dei loro familiari. Svolge attività di formazione, divulgazione e ricerca nel campo delle politiche sociali. Tra le sue pubblicazioni: L’attrazione speciale. Minori con disabilità: integrazione scolastica, scuole speciali, presa in carico, welfare locale (Maggioli, 2015) e, con A. Fontana, A sua immagine? Figli di Dio con disabilità (La Vita Felice, 2022). Con C. Tarantino ha curato, La segregazione delle persone con disabilità. I manicomi nascosti in Italia (Maggioli, 2018).
Abstract
Le unità di offerta socio-assistenziali e socio-sanitarie lombarde per le persone con disabilità trovano la giustificazione della loro esistenza in una serie di delibere approvate tra il 2004 e il 2008 dalla Giunta Regionale. Queste norme sono tutte ispirate dal principio che alle persone «prese in carico» dal sistema dei servizi debba essere garantito un buon livello di assistenza e di cura. Nei vent’anni che abbiamo alle spalle si è quindi affermata l’idea che la risposta ai bisogni – e quindi anche ai diritti – delle persone con disabilità che richiedono un forte sostegno potesse trovarsi, oltre che nella famiglia, in servizi sempre più specializzati e dedicati. Il modello di welfare sociale italiano per la disabilità ha un carattere che è possibile definire iper-familista. Infatti, la grande parte delle misure di sostegno per le persone con disabilità, siano esse in forma di servizio o di erogazione monetaria, sono giustificate con il fine di «mantenere la persona con disabilità al suo domicilio». Un legame che non si limita alla convivenza ma che è connesso alla dipendenza della persona con disabilità dalle risorse e dall’assistenza fornitagli dai suoi familiari. Oggi però viviamo un’epoca che sta cercando di parlare un linguaggio nuovo. A distanza di molti anni dalla ratifica della Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità da parte dello Stato italiano, sono state approvate due norme significative che cercano di garantire il rispetto alla vita indipendente e all’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità. Gli enti gestori di questi nuovi servizi residenziali potrebbero e dovrebbero essere sfidati (e messi nella condizione di farlo) a utilizzare risorse e competenze a promuovere l’inclusione, ovvero alla partecipazione alla vita sociale al di fuori della struttura, garantendo la continuità di relazioni e di legami con familiari e persone significative del proprio contesto di provenienza e la partecipazione alla vita sociale e la relazione con persone diverse da quelle che vivono e lavorano nella struttura.
Alcuni effetti del regime di appropriatezza nei servizi semiresidenziali e residenziali, per esempio, in Regione Lombardia:
  • effetto «marcatura a uomo» – discende dall’obbligo della somministrazione dei farmaci da parte degli infermieri. Le persone con disabilità che devono «prendere le medicine» non possono quindi pensare di svolgere qualunque attività fuori dalla struttura, senza la presenza di un infermiere. Il risultato è che molte persone hanno dovuto rinunciare a queste attività. Nota di colore: stiamo parlando dello stesso farmaco che può essere assunto a casa con l’aiuto di un familiare o di un amico;
  • effetto «muro invisibile» – può capitare che due servizi, ad esempio due Centri Socio Educativi, siano situati nella stessa struttura. Le regole prevedono però che gli spazi siano rigidamente suddivisi fra le due strutture. In questo modo due amici, assegnati però a due diversi servizi, non possono neanche mangiare insieme;
  • effetto «ingordi per forza?» – cucinare è una grande passione per molte persone, con e senza disabilità. È bello preparare, ad esempio, una torta per poi offrirla ai propri compagni, colleghi e amici. Se questa torta, però, viene preparata da una persona con disabilità all’interno di un servizio socio-sanitario, questo gesto di generosità non è consentito. Puoi farti una torta e – forse – puoi mangiarla solo tu (ma in alcuni casi sei anche costretto a buttarla...);
  • effetto «la salute prima di tutto» – sono diversi i motivi per cui una persona con disabilità può essere inserita in un servizio residenziale. Le precarie condizioni di salute non sono uno dei motivi più frequenti, come invece capita nelle RSA. Ma anche se sei un simpatico quarantenne in splendida forma fisica, per il solo fatto di essere inserito in una RSD dovrai sottoporti periodicamente a un’importante serie di controlli sanitari, più in applicazione di una procedura standard uguale per tutti gli «ospiti», che in considerazione di una effettiva valutazione di necessità/opportunità in riferimento alle tue reali condizioni cliniche.{p. 436}
Si potrebbe andare avanti a lungo: la logica che sottende a queste pratiche è abbastanza chiara e ha a che fare con la cosiddetta «sanitarizzazione» dei servizi. Le unità di offerta socio-assistenziali e socio-sanitarie lombarde per le persone con disabilità trovano la giustificazione della loro esistenza in una serie di delibere approvate tra il 2004 e il 2008 dalla Giunta Regionale. Queste norme sono tutte ispirate dal principio che alle persone «prese in carico» dal sistema dei servizi debba essere garantito un buon livello di assistenza e di cura. Assistenza e cura che viene verificata in base a procedure e protocolli che provengono dal mondo ospedaliero e che sono (minimamente) adattate alla vita quotidiana dei servizi. Strutture a cui – non a caso – è stato richiesto di assimilarsi – anche esteticamente – a servizi sanitari. Dobbiamo anche tenere conto che l’imprinting di queste norme risale alla delibera che ha definito le regole di accreditamento delle RSA, ovvero di servizi residenziali per le persone definite come anziane non autosufficienti e che sono destinate ad accogliere, in genere, persone con situazioni di salute molto complesse (ma anche questa, è in realtà una generalizzazione) e per un periodo in genere limitato della vita. La successiva proliferazione di norme secondarie e delle modalità di applicazione degli organismi di vigilanza ha enfatizzato questo orientamento, generando un concetto di appropriatezza che ha più a che fare con il tentativo di evitare qualunque rischio o pericolo che con il rispetto e la promozione della qualità della vita delle persone. Un concetto che non considera, neanche lontanamente, come obiettivo del servizio quella promozione del diritto alla vita indipendente e all’inclusione sociale che l’articolo 19 della Convenzione ONU ricorda essere di tutte le persone con disabilità. Un principio che anche il nostro ordinamento sta – lentamente – recependo tanto a livello nazionale (legge n. 227/2021) che a quello regionale (legge regionale della Lombardia n. 25/2022).
Abbiamo potuto misurare questa distanza – e purtroppo la continuiamo a misurare – con la gestione delle restrizioni seguite alla pandemia: le regole previste per gli ospedali sono state applicate – per estensione – a tutto il sistema dei servizi socio-sanitari e socio-assistenziali non tenendo conto del fatto che in queste realtà vivono decine di migliaia di persone con caratteristiche psicofisiche differenti e anche con età molto diverse fra loro. Inoltre, la degenza in ospedale si conta in giorni e settimane mentre l’inserimento nei servizi si misura in anni, lustri e decenni. Vi sono persone giovani e adulte senza alcuna particolare fragilità rispetto al COVID, che vivono in case, chiamate Comunità e situate in centri urbani, che hanno vissuto una vita fatta di vincoli anche molto severi, mentre ai loro vicini di casa è stato progressivamente permesso di riprendere uno stile di vita ordinario. Il tutto senza suscitare particolari reazioni da parte della società civile, fatta eccezione per le associazioni delle persone con disabilità e {p. 437}dei loro familiari e dagli organismi nazionali e internazionali di tutela dei diritti delle persone private della libertà personale.
Negli anni che abbiamo alle spalle, si è avuta così conferma dell’ipotesi che la richiesta di adottare questo tipo di protocolli e procedure favorisca l’insorgenza di condizioni di isolamento e segregazione fondate sulla disabilità.
In sanità la definizione di protocolli e procedure è posta a garanzia che il trattamento terapeutico venga realizzato nel rispetto delle evidenze scientifiche. Seguendo quello che si è rivelato un pericoloso sillogismo, l’applicazione di analoghi protocolli e procedure nel contesto dei servizi per persone con disabilità, dovrebbe garantire la qualità del servizio erogato agli utenti.
Risulta abbastanza evidente che si tratti anche (e soprattutto?) dell’estensione del concetto di risk management in ambito socio-sanitario e socio-assistenziale.
Non si tratta «solo», come negli esempi iniziali, di comportamenti codificati da tenersi con e verso gli «ospiti» ma di una serie di procedure che riguardano l’insieme dell’organizzazione e quindi l’approvvigionamento, conservazione e smaltimento farmaci; tracciabilità della somministrazione dei farmaci; criteri e modalità di accesso dell’utente (programmazione liste attesa, accoglimento e registrazione); presa in carico e dimissione; modalità di prelievo, conservazione e trasporto dei materiali organici; modalità di pulizia, lavaggio, disinfezione e sterilizzazione di strumenti e accessori; modalità di pulizia e sanificazione degli ambienti; modalità di compilazione, conservazione, archiviazione del FASAS (Fascicolo Socio Assistenziale Sanitario) e di ogni altra documentazione comprovante l’attività socio-sanitaria erogata; sorveglianza e prevenzione delle infezioni correlate all’assistenza compresa l’adozione di adeguate strategie vaccinali ove ritenute opportune; identificazione, segnalazione e gestione degli eventi avversi e degli eventi sentinella; gestione delle risorse tecnologiche; programmazione degli acquisti di apparecchiature biomediche e dispositivi medici, per citarne solo alcuni.
Anche altri requisiti, vengono normalmente verificati dalle commissioni di vigilanza attraverso l’esistenza di documenti scritti che li formalizzano, quali ad esempio «l’adozione di un programma annuale di valutazione e miglioramento delle attività relativo ai processi di erogazione, selezionati in rapporto alle priorità individuate favorendo il coinvolgimento del personale; definizione di strumenti, indicatori, modalità e tempi per la valutazione del raggiungimento degli obiettivi del programma annuale; adozione di una procedura operativa per l’inserimento del personale di nuova acquisizione; presenza di criteri di selezione del personale che includano anche la conoscenza della lingua italiana» (personale che tra l’altro deve essere «identificabile mediante cartellino di riconoscimento»). {p. 438}
Nel corso del tempo, nella difficile relazione e interazione tra sistema sanitario e quello sociale, è abbastanza evidente come il primo abbia rotto gli argini e abbia invaso e sommerso la logica e l’orizzonte sociale dei servizi.
Ma quali sono le ragioni e le conseguenze di questa situazione?
Il sistema di welfare sociale lombardo per la disabilità è stato per lungo tempo dominato dalla risposta al bisogno tramite i servizi. Solo in tempi relativamente recenti e grazie alle implementazioni di misure nazionali (come, ad esempio, il FNA e la legge n. 112) si è sviluppato un secondo pilastro basato sulla domiciliarità.
Nei vent’anni che abbiamo alle spalle si è quindi affermata l’idea che la risposta ai bisogni – e quindi anche ai diritti – delle persone con disabilità che richiedono un forte sostegno potesse trovarsi, oltre che nella famiglia, in servizi sempre più specializzati e dedicati.
Tracce di questa ideologia, la possiamo ritrovare anche nel linguaggio informale di molti operatori che, nel valutare la condizione di una persona con disabilità definiscono un servizio come soluzione dei suoi problemi: «... è da CDD» oppure «... è da RSD», ecc. Ogni altra ipotesi di lavoro viene confinata nello sperimentalismo ed è spesso contraddistinta dalla dimensione ridotta e dalla precarietà dei finanziamenti.
Ad esempio, come è noto sin dall’anno 2000 le persone con disabilità hanno diritto a un «progetto individuale», come è previsto dall’articolo 14 della legge n. 328. Una norma poco conosciuta e poco applicata. Peccato però che anche quando è stata rispettata si è verificato che, in molti casi, i «progetti individuali» che prevedevano interventi domiciliari siano stati sostenuti da risorse in genere decisamente minori del costo dei servizi residenziali: risorse che devono poi essere confermate periodicamente (in genere con cadenza annuale) mentre una volta approvato l’inserimento in una struttura, la retta viene versata dal fondo sanitario e/o sociale in modo permanente.
Si tratta dell’esito di un approccio considerato pragmatico, che non perde tempo ed energie a riflettere sui diversi «regimi sulla disabilità» o sulle conseguenze della ratifica da parte dello Stato italiano della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Di fronte a una situazione di bisogno e di richiesta di intervento da parte delle famiglie coinvolte, si cerca di attivare una risposta sicura e affidabile come viene valutata quella offerta dai servizi tradizionali. Nessuna attenzione viene posta sul punto di vista del diretto interessato e sugli esiti di questa scelta sulla sua qualità della vita e sul rispetto dei suoi diritti umani.
Un primo punto di attenzione non riguarda quindi, in sé, la presenza di procedure e protocolli di intervento ma il loro contenuto. La lettura delle delibere istitutive di questi servizi, i successivi atti di aggiornamento delle regole di funzionamento e gli strumenti in mano alle commissioni di {p. 439}controllo e valutazione non contemplano la possibilità di verificare, tra le altre cose, il grado di soddisfazione della persona con disabilità, la qualità della sua vita, gli spazi e strumenti per poter esprimere il proprio punto di vista sul servizio e sulla sua vita, l’effettiva possibilità di scegliere se provare o meno a vivere in un posto e in condizioni differenti.
Si tratta di una condizione di «minorità» che definisce la condizione di molte persone con disabilità come segreganti ancor prima e ancor di più che la dimensione del servizio o la sua localizzazione.
Sappiamo bene che l’abitare costituisce per ogni persona un aspetto fondamentale del proprio progetto di vita adulta.
Proviamo allora a condividere alcune riflessioni su questo, a partire da un’evidenza con cui spesso, nell’ambito dei nostri servizi, ci troviamo a fare i conti: il fatto cioè che una persona con disabilità, soprattutto in presenza di condizioni di disabilità complessa con gravi compromissioni della sfera cognitiva, si trovi a vivere in un servizio residenziale «dedicato» come la RSD, in molti casi per mancanza di alternative.
Il modello di welfare sociale italiano per la disabilità ha un carattere che è possibile definire iper-familista. Infatti, la grande parte delle misure di sostegno per le persone con disabilità, siano esse in forma di servizio o di erogazione monetaria, sono giustificate con il fine di «mantenere la persona con disabilità al suo domicilio», dove viene dato per implicito che il domicilio corrisponda alla casa dei genitori o comunque dei suoi familiari più stretti che possono occuparsi della gestione della sua assistenza.
Un «implicito» che diviene «esplicito» quando in altri passaggi, nei documenti di programmazione sociale viene indicato come obiettivo il sostegno «ai compiti di cura della famiglia».
Questo è quanto emerge dalla lettura di documenti quali, ad esempio, i regolamenti di accesso ai servizi sociali dei Comuni che corrisponda al vissuto e alla percezione dei familiari delle persone con disabilità che frequentano le associazioni di riferimento.
Ma cosa succede quando, per diversi motivi, le persone con un forte bisogno di sostegno e non in grado di svolgere autonomamente le funzioni essenziali della vita quotidiana, rimangono prive del sostegno familiare?
La prima opzione, quella garantita dal menù del sistema di welfare sociale, è proprio quella dell’inserimento in servizi e strutture residenziali, variamente denominate a seconda della Regione di appartenenza (in Lombardia, CA, CSS, RSD o RSA).
Aggiungiamo il fatto che le lunghe liste d’attesa mettono spesso le persone con disabilità che necessitano di una soluzione abitativa urgente (per carenza abitativa, mancanza di supporto familiare o altra rete di sostegno, o altro) in condizione di dover accettare la prima disponibilità che si presenta. Ed è ampiamente condivisa tra gli operatori la consta
{p. 440}tazione che l’approccio ai servizi avviene, in molti casi, in condizioni di effettiva emergenza. È infatti considerato «normale», e quindi accettabile, il permanere per lungo tempo (rispetto al resto della popolazione) dei figli con disabilità con i loro genitori e familiari: una situazione che a volte necessariamente continua anche quando le condizioni di vita garantite alla persona sono per forza di cose lontane dalle sue esigenze, preferenze e interessi.