Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c18
Aggiungiamo il fatto che le lunghe liste d’attesa mettono spesso le persone con disabilità che necessitano di una soluzione abitativa urgente (per carenza abitativa, mancanza di supporto familiare o altra rete di sostegno, o altro) in condizione di dover accettare la prima disponibilità che si presenta. Ed è ampiamente condivisa tra gli operatori la consta
{p. 440}tazione che l’approccio ai servizi avviene, in molti casi, in condizioni di effettiva emergenza. È infatti considerato «normale», e quindi accettabile, il permanere per lungo tempo (rispetto al resto della popolazione) dei figli con disabilità con i loro genitori e familiari: una situazione che a volte necessariamente continua anche quando le condizioni di vita garantite alla persona sono per forza di cose lontane dalle sue esigenze, preferenze e interessi.
Un legame che non si limita alla convivenza ma che è connesso alla dipendenza della persona con disabilità dalle risorse e dall’assistenza fornitagli dai suoi familiari.
In questo senso, l’accesso a una condizione di vita di maggior indipendenza dai propri genitori dovrebbe poter rappresentare per le persone con disabilità l’inizio di un’esperienza nuova, l’occasione per esplorare nuove relazioni e nuove possibilità, una forma dell’abitare che favorisca l’autonomia e percorsi di emancipazione e crescita. Un’esperienza non scissa dalle esperienze precedenti, ma anzi in continuità con il percorso e il progetto di vita della persona.
Ma ancora molte persone (siano persone con disabilità o loro familiari, o anche operatori dei servizi territoriali, amministratori o semplici cittadini) sembrerebbero esprimere una visione un po’ diversa quando si parla di RSD.
Al di là del numero dei posti letto, o degli aspetti, per così dire, specialistici che caratterizzano alcuni di questi servizi rispetto alla presa in carico di situazioni di particolare complessità, al di là delle residue memorie degli istituti/ospizi di assistenza e beneficienza del passato, non è considerata normalmente desiderabile la prospettiva di abitare in un contesto che per certi versi viene assimilato a una casa di cura, se non addirittura a un piccolo ospedale.
Le indicazioni e prescrizioni normative in materia di accreditamento e appropriatezza, che oggi stabiliscono cosa sia una residenza socio-sanitaria per persone con disabilità, sembrerebbero in qualche modo essere uno degli elementi che concorrono a restituire ai più questo tipo di fisionomia delle RSD, cioè di servizi con una forte caratterizzazione di tipo sanitario, dove le persone sono ricoverate per essere curate e/o riabilitate perché portatrici di una patologia, più che di una casa dove invece le persone normalmente vivono.
In effetti, le procedure che sono state progressivamente inserite nel funzionamento dei servizi residenziali per le persone con disabilità (prevalentemente mutuate dall’ambito sanitario, definibili come una sequenza dettagliata e logica di azioni, a loro volta definite in modo più o meno rigido, che possono essere considerate l’unità di base di un’attività e consentono di rendere uniformi e omogenee operazioni poco discrezio{p. 441}nali) finiscono per costituire un insieme di prescrizioni che tendono a caratterizzare questi ambienti quasi esclusivamente come luoghi di cura, come se questo fosse l’ambiente «naturale» di vita di alcune persone con disabilità, cioè di quelle considerate «gravi o gravissime».
Ma nei fatti, cioè nella realtà concreta della vita di tutti i giorni delle persone con disabilità che vivono in una RSD, quale influenza e relazione ha l’adozione delle procedure e dei protocolli prescritti? Ciò che dovrebbe essere una tutela per le persone, che tipo di ricadute ha nella vita delle stesse persone?
Cosa ci dicono in questo senso le verifiche sui requisiti di accreditamento delle strutture residenziali socio-sanitarie?
Non molto per la verità. Al di là delle dichiarazioni di principio con cui vengono introdotte regole e procedure, il centro di attenzione dell’indagine è in ultima analisi «la struttura» (la struttura organizzativa come risultante delle scelte mediante le quali il lavoro è diviso, ordinato e coordinato all’interno dell’unità d’offerta, la struttura come insieme delle componenti costruttive dell’immobile) insieme agli aspetti di correttezza formale della documentazione. Perché in ultima istanza ciò che si accredita è una struttura, non i processi che si attivano, non i modi con i quali i desideri, le preferenze e le aspettative delle persone con disabilità che vivono nella struttura trovino o meno risposta.
Questo impianto della vigilanza irrigidisce ulteriormente la visione sulla centralità degli aspetti procedurali imposti dalla normativa, al di là dell’effettiva utilità o necessità in quel determinato contesto rispetto alla cura e al miglioramento dei processi che attengono alla qualità della vita delle persone che vi abitano.
Viene rinforzata nei fatti la rappresentazione di una unità d’offerta residenziale socio-sanitaria assimilabile a un contesto sanitario, in cui le persone sono ricoverate in qualità di ospiti o pazienti, piuttosto che paragonabile a un luogo (una casa) in cui le persone vivono in qualità di residenti.
E la riproposizione continua di questa rappresentazione delle RSD nella rete dei servizi e delle opportunità per l’abitare delle persone con disabilità complessa, non aiuta certo queste realtà a evolvere come luoghi dell’abitare che permettano alle persone di diventare adulte, offrendo loro la possibilità di essere riconosciute e affermarsi attraverso relazioni generative con gli altri e con il proprio contesto di vita.
Al contrario, ci ripresenta un’immagine di tutte le persone con disabilità come malati da curare e riabilitare e come eterni bambini da proteggere, magari isolandoli, dai pericoli del mondo.
Non dobbiamo pensare a un’immagine, a una rappresentazione «solo» di carattere culturale, diffusa nella società. Certamente questo è un aspetto {p. 442}importante e significativo, anche nella generazione di aspettative e attitudine da parte dei familiari e degli stessi operatori coinvolti.
Quello che è significativo, all’interno di questa analisi è che questa aspettativa sociale trova puntuale conferma nelle diverse norme che regolano il finanziamento, l’organizzazione, il funzionamento di questi servizi residenziali e quindi della vita quotidiana di chi li abita.
Stiamo parlando certamente di leggi ma anche e soprattutto di quanto previsto dalle norme cosiddette secondarie, come ad esempio delle delibere di Giunta regionale che definiscono i criteri di accreditamento e di controllo di questi servizi.
Il modello di riferimento è sempre e rimasto quello – in barba a tutto quanto è stato detto dopo l’approvazione e ratifica della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità – che vede la persona con disabilità come «disabile» (dove l’aggettivo diviene sostantivo) e quindi non come abitante di una casa, adattata e specializzata a rispondere alle sue esigenze, ma come utente di un servizio. Un servizio che nei casi dei servizi residenziali deve preoccuparsi di garantire assistenza, cura, sicurezza e tutte le risposte alle esigenze della persona con disabilità.
Nella sovrapposizione tra le persone con disabilità con il «disabile»-«malato», si crea, conferma e rafforza la posizione di dipendenza della persona dalla struttura, governata da medici e secondo criteri sanitari o sanitarizzanti. La persona è destinataria di interventi e attenzione ed è soggetta a regole e vincoli che sono definiti da altri, in base a bisogni identificati solo grazie a diagnosi e a strumenti standardizzati e non all’ascolto della persona.
Si assiste a un’ulteriore sovrapposizione tra risposte sociali e diritti delle persone. È così radicata l’idea che l’unica risposta al di fuori di quella familiare sia all’interno dei servizi residenziali che è l’accesso a questi ultimi a essere definito come diritto e non come strumento. In altre parole, la persona con disabilità ha diritto, in condizioni di parità con gli altri, all’abitare, all’assistenza (quando necessaria), al cibo, alla libertà di espressione e di scelta, ecc. Se e quando lo si ritenga necessario (e sia anche scelto), il servizio residenziale dovrebbe essere uno strumento per veder garantito uno o più dei diritti umani della persona.
Invece noi vediamo descritto, nelle norme come anche in sentenze della Magistratura, l’accesso al servizio in sé come diritto, in quanto evidentemente definito come unica risposta e unica possibilità. Si rafforza così l’idea che in presenza di forti bisogni di sostegno le uniche e complete risposte si possano trovare all’interno dei servizi sempre più specializzati e dedicati.
Non è quindi un caso che uno dei criteri per verificare il rispetto dei LEA (Livelli essenziali di assistenza) non sia dato dalle condizioni di vita {p. 443}delle persone con disabilità adulta ma dal numero di posti letto presenti in un dato territorio.
È importante anche notare come ancora oggi l’inserimento in un servizio residenziale sia considerato come «definitivo» e non come un possibile passaggio, una delle tante e diverse svolte che possono avvenire nella vita di una persona. Ancora oggi, nella grandissima parte dei regolamenti di accesso e di partecipazione alla spesa dei servizi, si prevede che il contributo comunale per «l’integrazione alla retta del servizio» avvenga solo quando la persona con disabilità abbia versato l’intero ammontare del suo reddito e abbia esaurito tutte le altre sue risorse, sia mobiliari che immobiliari. A cos’altro potrebbero servirgli queste risorse, se il servizio residenziale è deputato a rispondere a tutti i suoi bisogni e per tutto l’arco della sua vita?
Si crea così un curioso ma anche triste paradosso: capita infatti che le risorse spesso faticosamente risparmiate dai genitori quando erano ancora in vita vengano utilizzate, non come nelle aspettative per garantire una migliore qualità della vita alla persona con disabilità, ma per generare risparmi alle casse comunali.
Abbiamo visto quindi come le procedure che determinano, in senso assistenzialistico e sanitarizzante, la vita delle persone con disabilità all’interno dei servizi residenziali corrispondano a una precisa idea – cristallizzata dalle normative e prassi vigenti – delle persone con disabilità che richiedono un forte sostegno come persone meritevoli di soli interventi finalizzati alla loro cura e assistenza: regole la cui genesi e applicazione sarebbe improprio e ingeneroso addossare a singoli dirigenti o operatori di aziende sanitarie e di commissioni di vigilanza.
Oggi però viviamo un’epoca che – almeno dal punto di vista normativo – sta cercando di parlare un linguaggio nuovo. A distanza di molti anni dalla ratifica della Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità da parte dello Stato italiano, sono state approvate due norme significative, una a livello nazionale (l. n. 227/2021) e una a livello regionale in Lombardia (l.r. n. 25/2022) che cercano di garantire il rispetto alla vita indipendente e all’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità, così chiaramente e solennemente descritto dall’articolo 19 della stessa «Convenzione».
Due leggi che – con le dovute e chiare differenze – individuano nella personalizzazione degli interventi e del loro orientamento alla responsabilizzazione e inclusione sociale delle persone con disabilità la pietra angolare di un nuovo modello di welfare sociale.
Un sistema che quindi necessariamente dovrà prendere le distanze da quello attuale che invece dà per acquisita e in qualche modo «naturale» la posizione di dipendenza delle persone con disabilità e le loro necessità di protezione e quindi di separazione dal resto della popolazione. {p. 444}
Un contesto normativo che dovrebbe sostenere, da un lato, una nuova stagione di deistituzionalizzazione delle persone con disabilità e, dall’altro, anche una nuova configurazione dell’assetto dei servizi residenziali.
Abbiamo quindi bisogno di nuove norme e di nuove regole che possano aiutarci a superare la logica dell’istituzionalizzazione, diffusa e persistente nelle diverse regole che governano il sistema dei servizi.
Non stiamo parlando tanto o solo delle trasformazioni che potranno o meno modificare le questioni macroscopiche che riguardano le caratteristiche dei servizi residenziali, come quelle classiche circa la dimensione o gli aspetti strutturali.
Come ci ricorda il Comitato della Nazioni Unite per i diritti umani delle persone con disabilità, nel suo General Comment n. 5 del 2017, «istituzionalizzazione» non coincide con un luogo specifico, ma può avvenire dappertutto: «non è vivere in una particolare abitazione o ambiente, è, prima di tutto, perdere la scelta personale e l’autonomia a causa dell’imposizione di modi di vivere e dover cambiare le abitudini personali».
Non solo quindi le grandi residenze ma anche le «case famiglia» e persino le case «singole» possono essere definite segreganti se applicano regole tipiche degli istituti o dell’istituzionalizzazione.
Si potrebbe pensare che in realtà l’abitare delle persone con disabilità non abbia bisogno di essere regolato: si tratta a tutti gli effetti di una illusione. Laddove si parla – ed è importante che sia così – dell’uso di risorse pubbliche a sostegno della vita indipendente delle persone con disabilità emerge anche la necessità di criteri trasparenti di utilizzo che possano garantire il buon uso di queste risorse. Quello di cui abbiamo bisogno è quindi di un nuovo sistema di regole che accompagni e – in qualche modo – determini questa transizione.
Quello che naturalmente si auspica è che si vada verso un insieme di norme rigorose ma anche sobrie ed essenziali, che si basino sull’approccio alla disabilità basato sui diritti umani e che quindi siano rispettose della dignità di ogni persona e del suo riconoscimento come cittadino.
In questo contesto, è possibile pensare e quindi regolamentare i servizi residenziali non come un approdo definitivo ma come strumenti e opportunità di emancipazione, di promozione dell’adultità della persona che può e deve essere messa nella condizione di scegliere come vivere, a partire dalle piccole situazioni quotidiane, costruire relazioni e interazioni positive e gratificanti in un contesto comunitario, condividere e contribuire a definire regole di convivenza adeguati a luoghi di vita prima che di cura e assistenza.
Gli enti gestori di questi nuovi servizi residenziali potrebbero e dovrebbero essere sfidati (e messi nella condizione di farlo) a utilizzare risorse e competenze a promuovere l’inclusione, ovvero alla partecipazione alla
{p. 445}vita sociale al di fuori della struttura, garantendo la continuità di relazioni e di legami con familiari e persone significative del proprio contesto di provenienza e la partecipazione alla vita sociale e la relazione con persone diverse da quelle che vivono e lavorano nella struttura.