Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c13

Benedetto Saraceno Istituzioni totali e de-istituzionalizzazione

Notizie Autori
Benedetta Saraceno – psichiatra – allievo di Franco Basaglia, leader internazionale della difesa dei diritti umani delle persone con disabilità mentale, è presidente dell’International Scientific Commitee del Lisbon Institute of Global Mental Health. Membro onorario del Royal College of Psychiatry, ha diretto il Laboratorio di epidemiologia e psichiatria sociale dell’Istituto Mario Negri di Milano e, dal 1996 al 2010, ha diretto il Dipartimento di Salute Mentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra.
Abstract
Si parla di riabilitazione, di cura, di diritti, ma non si parla mai dei «dove» si compiono queste pratiche e dove si inverino questi diritti. Come se ospedale, carcere, Residenza per anziani, Istituto per disabili intellettivi fossero luoghi metafisici, dati una volta per tutte, ovvi, e di cui non valga la pena, pena appunto la ovvietà, di dar conto. Il paradigma dell’ospedale psichiatrico è stato certamente quello più studiato e, soprattutto, quello più messo in reale e concreta crisi da esperienze pratiche di critica e di pratiche alternative. La critica al manicomio come luogo disumano e antiterapeutico, se non assume che tali connotazioni non sono solo del manicomio ma anche dell’ideologia psichiatrica (di cui il manicomio è il prodotto), si tradurrà semplicemente in creazione di altri scenari per l’esercizio della medesima ideologia psichiatrica. Questa lettura dell’istituzione non solo come luogo fisico e concreto ma come ideologia è simile per tutte le istituzioni totali. Dunque, la questione è quella dell’intrattenimento operato dalla psichiatria in questo unico spazio a una sola dimensione, che può essere il manicomio così come qualunque istituzione. La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (CRPD) è stata adottata nel 2006 e ha cominciato a essere applicata nel 2008. L’articolo 12 della Convenzione afferma in una riga un principio radicalmente innovativo quando stabilisce che «l’esistenza di una disabilità non giustifichi in nessun caso una privazione della libertà». In altre parole, nessuno può essere sottoposto ad alcuna misura coercitiva della libertà soltanto in quanto portatore di una disabilità mentale o fisica. È proprio grazie alla Convenzione che l’etichetta dei diritti umani affermati con insopportabile retorica e al tempo stesso violati dalle istituzioni per disabili, cessa finalmente di essere una piccola etica, etichetta del ben comportarsi in società, per inverarsi in Etica pratica. La conoscenza e la rigorosa applicazione della Convenzioni delle Nazioni Unite non è dunque un optional internazionale ma un dovere nazionale.

1. Istituzioni totali

Si parla di riabilitazione, di cura, di diritti, ma non si parla mai dei «dove» si compiono queste pratiche e dove si inverino questi diritti.
Come se ospedale, carcere, Residenza per anziani, Istituto per disabili intellettivi fossero luoghi metafisici, dati una volta per tutte, ovvi, e di cui non valga la pena, pena appunto la ovvietà, di dar conto.
Delle istituzioni deputate alla cura e alla riabilitazione sembra che non si possa più dire alcunché, che tutto sia stato già detto, che ognuno già sappia quello che di esso si potrebbe dire.
Questa convinzione assai diffusa fa sì che di quelle istituzioni «totali» non si possa più parlare senza venire ascoltati con un certo fastidio, come se si volesse introdurre una figura retorica del discorso, un pleonasmo o anche una iperbole.
Non è tuttavia possibile ragionare di diritti, di riabilitazione e di cura, senza tenere in conto di quei «dove» che sono i luoghi di riproduzione dell’esclusione, della malattia, della cronicizzazione, della miseria materiale, della povertà affettiva e, infine, della perdita dei diritti.
L’assenza di ogni progetto, la perdita di un futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita ed organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo... Il malato mentale, chiuso nello spazio angusto della sua individualità perduta, oppresso dai limiti impostigli dalla malattia, è spinto dal potere istituzionalizzante del ricovero ad oggettivarsi nelle regole stesse che lo determinano, in un processo di rimpicciolimento e di restringimento di sé che – originariamente sovrapposto alla malattia – non è sempre reversibile [Basaglia 1964, 250].
Dunque, nulla di pleonastico o iperbolico a parlarne ora, quasi sessant’anni dopo che questo testo fu scritto, in quanto se lo scritto è {p. 306}«antico» ciò di cui parla è presente, immodificato o solo relativamente modificato.
Le istituzioni totali costituiscono ancora in ogni parte del mondo l’asse dell’assistenza ai vulnerabili (malati di mente, anziani, disabili con elevati bisogni assistenziali) e ai rei, il luogo supposto della cura e della pena, la macchina egemone che divora risorse umane e finanziarie offrendo in cambio miseria e sofferenza.
Ma allora, cosa sono le istituzioni totali?
Esse sono tutti quei luoghi concreti che praticano l’allontanamento e l’esclusione dal resto della società dei soggetti di cui si occupano (malati, disabili, carcerati, vecchi) e che basano la propria organizzazione su logiche autoritarie e normative, interessate al mantenimento e all’autoriproduzione dell’istituzione invece che ai bisogni delle persone di cui si occupano.
Il controllo operato dalle istituzioni totali è portatore di sistematiche violazioni dei diritti.
E. Goffman, sociologo di origini canadesi, pubblicò nel 1961 una raccolta di quattro saggi-indagine dal titolo Asylums [Goffman 1961; trad. it. 1968], in cui descriveva cinque tipologie generali di istituzioni totali:
  1. le istituzioni nate a tutela di incapaci non pericolosi (istituti per ciechi, sordomuti, disabili, anziani, orfani, indigenti);
  2. le istituzioni ideate e costruite per recludere chi rappresenta un pericolo non intenzionale per la società (ospedali psichiatrici, sanatori);
  3. le istituzioni finalizzate a recludere chi rappresenta un pericolo intenzionale per la società (carceri, campi di prigionieri di guerra);
  4. le istituzioni create per lo svolgimento di un’attività funzionale continua (navi, collegi, piantagioni, grandi fattorie);
  5. le istituzioni che richiedono il distacco volontario dal mondo (conventi, monasteri).

2. Il paradigma del manicomio

Il paradigma dell’ospedale psichiatrico è stato certamente quello più studiato e, soprattutto, quello più messo in reale e concreta crisi da esperienze pratiche di critica e di pratiche alternative. L’ospedale psichiatrico rappresenta in qualche modo l’istituzione totale perfetta e comprenderne la natura, le logiche e le culture che lo abitano permette di immaginarne il superamento definitivo.
Negli ultimi cinquant’anni, infatti, il ruolo egemone dell’ospedale psichiatrico è stato messo in questione in forme diverse, in luoghi e tempi diversi, attraverso l’attivazione di dispositivi di cura e assistenza diversi. {p. 307}Molto spesso, tuttavia, tale messa in questione non si è trasformata in una messa in scacco o perché ha esitato in dispositivi paralleli all’ospedale psichiatrico (è il caso dell’esperienza francese del settore) o perché si è arenata in una critica di gruppi intellettuali senza il potere o la volontà di tradurre il pensiero in una pratica di trasformazione reale (è il caso del movimento antipsichiatrico inglese).
Certamente, l’esperienza italiana e altre nate successivamente in altri Paesi (Spagna, Regno Unito, Brasile) costituiscono un patrimonio rilevante di reali alternative all’ospedale psichiatrico.
Cionondimeno l’ospedale psichiatrico come luogo e come contenitore dell’ideologia della psichiatria resta centrale nella maggior parte dei Paesi del mondo e soprattutto nella cultura psichiatrica.
Resta come segno di continuità storica dell’accerchiamento della s-ragione iniziato con il primo manicomio molti secoli fa.
La storia continua.
Non più pazzi, delinquenti e prostitute ma psicotici, disturbi della personalità e marginali di ogni tipo.
Continua, mutando forme, linguaggi e competenze, il processo di accerchiamento della follia, di esclusione della s-ragione.
«Il manicomio è il luogo zero dello scambio», scrive F. Rotelli [1981] ed è nell’esigenza, ben ulteriore allo specifico della psichiatria, di un luogo deputato ad azzerare lo scambio, espropriare al massimo grado, che dobbiamo ricercare il significato antico e immutato della scienza psichiatrica e di tutte le scienze del controllo sociale. Soltanto cogliendo il significato di luogo di azzeramento dello scambio possiamo capire come mai tutti gli ospedali psichiatrici del mondo sono uguali, ossia capire che il manicomio è una variabile indipendente dalle condizioni socio-economiche del Paese in cui esso si trova. Se compariamo un reparto di rianimazione di un Paese ricco con uno di un Paese povero coglieremo immediatamente le enormi differenze che esistono fra i due Paesi, mentre se compariamo un manicomio europeo con un manicomio africano vedremo con assai meno evidenza delle differenze. Certamente, alcune differenze macroscopiche si apprezzeranno a testimoniare che il reddito pro capite dell’Europa è mille volte più alto di quello di un Paese africano, ma vedremo soprattutto delle costanti comuni fra i due luoghi: assenti e abbandonati passeggiatori che instancabilmente percorrono i viali dell’ospedale, fumatori ostinati che ogni volta che aspirano una boccata di fumo sembrano volere consumare l’intera sigaretta in un colpo solo (e che vi chiederanno una sigaretta), gabinetti gelidi, bagnati e maleodoranti, ricoverati contenuti ai letti o isolati in stanzucce vuote, saloni di soggiorno fumosi e percorsi da fantasmi che non comunicano fra loro, bar squallidi dove si accalcano consumatori di caffè, ecc. Vedremo cioè un lay out molto simile, come ci accade quando {p. 308}confrontiamo gli hotel delle catene internazionali, uguali in ogni luogo (ossia variabili indipendenti), accomunati da una ratio che prescinde dalle culture locali, dalle storie dei Paesi e delle popolazioni.
Questa ratio superiore è il manicomio ed è la psichiatria.
Dunque, la questione non è lo scandalo né l’attribuzione di un’improbabile malvagità a coloro che concepirono e praticarono (concepiscono e praticano) l’ordine manicomiale. Tale ordine ha semplicemente la funzione di ordinare il disordine del folle (ma anche del misero, del carcerato, dell’anziano). Tale ordine si legittima e si autoriproduce; la psichiatria è quest’ordine, questa legittimazione e questa riproduzione.
L’istituzione manicomiale non è che lo spazio, il tempo, l’insieme di norme e di riti che contengono naturalmente quest’ordine. La funzione ordinante ha in sé la complessità e l’ambiguità dell’ordine del padrone ma anche di quello del padre. Se, infatti, guardiamo le architetture manicomiali, i parchi bellissimi dove sono edificati gli ospedali, la quiete separata delle piccole chiesette che in essi furono costruite, siamo costretti a riconoscere un intento di protezione non solo della società dal folle minaccioso ma anche del folle, vittima della minacciosa società, ossia siamo costretti a riconoscere che c’era nell’idea del manicomio un autentico intento di dare forma e visibilità al diritto di asilo.
Si chiamavano appunto asili ed erano dedicati ai pazzi poveri.
Non possiamo non vedere in questo anche un progetto paterno, ossia un progetto in cui la società forte provvede alla tutela dei suoi membri deboli. Se non fosse così non si spiegherebbe l’enorme investimento economico che stava dietro alla costruzione degli asili per alienati; c’era un autentico progetto assistenziale che vedeva lo Stato (o le Province, o le Municipalità) che si assumevano il peso e la responsabilità di dare asilo e proteggere gli alienati (spesso sostituendosi alle confraternite religiose che fin dal 1600 costruivano e gestivano asili per insani e miseri).
È cruciale cogliere questo aspetto di protezione, ossia di servizio, che coesiste con la vocazione del padrone che invece norma la vita degli schiavi.
Tale doppio caratterizza la psichiatria, e il manicomio non è che l’espressione fisica della doppiezza paterna e padronale di una supposta scienza che invece è ideologia, proprio in quanto esercita due funzioni (paternità e dominio) che, per definizione, escludono l’ipotesi del dubbio, ossia della propria messa in questione, il che è (o dovrebbe essere) la cifra del metodo scientifico.
E la ragione (del padre e del dominus) che fonda la scientificità della psichiatria è una fra le tante possibili ragioni, appunto la ragione borghese. Se osserviamo le fotografie dei manicomi della fine dell’Ottocento e del primissimo Novecento vediamo prevalere la funzione paterna ossia l’ordine, la norma; con il crescere parallelo della presunta scientificità della {p. 309}psichiatria e dell’ideologia medica vediamo assumere prevalenza alla miseria e all’abbandono, ossia alla funzione padronale. Può sembrare paradossale ma erano meglio i manicomi dei primi del Novecento di quelli di oggi, in quanto erano più padri normatori che padroni violenti: la diminuzione della «violenza diretta» sui pazienti corrisponde a una crescita della «violenza indiretta» (miseria e abbandono); la diminuzione dell’organizzazione rigida e asilare (la cittadella autosufficiente che caratterizza il manicomio del primo Novecento: chiesa, panetteria, osteria con vino falso, colonia agricola, fabbrica interna per il lavoro del paziente operaio, ecc.) conduce alla cultura del carcere che caratterizza il manicomio attuale (miseria, rapporti violenti, anomia, abbandono).
Ecco perché la rottura della segregazione manicomiale, iniziata a Gorizia nel 1964 da Franco Basaglia, non significa soltanto umanizzazione del luogo disumano ma interruzione della connivenza fra tecnici e ideologia della ratio borghese, crisi della scientificità fondata sulla normativa paterna e sulla violenza del dominatore.
Dunque, il vero doppio non sta all’interno della coppia padre/dominus ma fra questa coppia e la coppia frater (soror)/civis.
Non a caso la messa in questione dell’ideologia psichiatrica nella lezione degli antipsichiatri inglesi è anche messa in questione della relazione di dominio della famiglia [Schatzman 1973]; alla funzione protettiva e dominante della relazione paterna si sostituiscono la funzione solidale e di partnership nella costruzione della cittadinanza che caratterizzano le relazioni di fraternità e di complicità per la condivisione della civitas.
Credo che si debba riflettere su queste due «coppie di coppie» per cogliere la natura personale e affettiva così come collettiva e civile che connotano, da un lato la psichiatria manicomiale (padre e dominus), e, dall’altro, quella antistituzionale (fratello-sorella e cittadino/a).
Infatti, la psichiatria antistituzionale non ha solo avuto una funzione di trasformazione dei ruoli sociali del curante e del malato (da dominus a cittadino il curante, da schiavo a cittadino il malato) ma anche di quelli affettivi (da padre a fratello, il curante e quindi di conseguenza da figlio a fratello, il curato).
La lezione che a partire dagli anni Sessanta caratterizza molta parte della psichiatria critica è quella della legittimazione morale, politica, culturale e psicologica del malato mentale e della malattia mentale.
Nella psichiatria medica, di cui il massimo esponente storico è Emil Kraepelin, padre della nosografia psichiatrica, la follia non ha legittimità in quanto è semplicemente incomprensibile e dunque insensata (le pagine dell’Io diviso di R. Laing [1960; trad. it. 1969] su Kraepelin alle prese con un paziente psicotico usato come oggetto di didattica per gli studenti sono fra le più efficaci e drammatiche).
{p. 310}
Note