Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c13
Nella psichiatria medica, di cui il
massimo esponente storico è Emil Kraepelin, padre della nosografia psichiatrica, la
follia non ha legittimità in quanto è semplicemente incomprensibile e dunque insensata
(le pagine dell’Io diviso di R. Laing [1960; trad. it. 1969] su
Kraepelin alle prese con un paziente psicotico usato come oggetto di didattica per gli
studenti sono fra le più efficaci e drammatiche).
¶{p. 310}
Per l’antipsichiatra inglese Ronald
Laing, invece, la legittimità della follia è in quanto tale, ossia,
in quanto esperienza dell’altro, non può essere normalizzata né con la violenza della
psichiatria né con l’attribuzione interpretativa della psicoanalisi; può soltanto essere
compresa nel senso più concreto della parola, testimoniata e accolta.
Ciò di cui ha bisogno è della
ricostruzione dei nessi sociali, della contrattualità, dell’accesso allo scambio.
Tuttavia, l’impresa di Laing è, quantunque egli parli di interazioni, quella di
un’utopia di un Io originario: «per Laing il sociale si qualifica nella sua massima
estensione come una costellazione di famiglie [...] la società perde ogni connotazione
temporale, ogni specificità economica, per configurarsi come una dimensione eterna»
[Vegetti Finzi 1986, 200].
L’impresa di Basaglia è invece
quella di una liberazione del corpo, dal corpo avvilito e misero dell’internato al corpo
sociale: dunque un’impresa per definizione interattiva fra soggetto e contesto.
La questione della legittimazione
va comunque posta in termini di assunzione di senso dell’esperienza dell’altro.
Assumendo questo processo di
riconoscimento di senso dell’alterità come preliminare a qualunque ipotesi di cura (o di
riabilitazione), di fronte al deserto umano, etico e materiale del manicomio non si può
che intraprendere la rottura di questa desertificazione del senso (dei sensi) perché nel
deserto non cresce nulla.
Dunque, l’ipotesi della critica al
manicomio non è soltanto un’ipotesi filantropica (umanizzare lo scenario disumano), ma
un’ipotesi tecnica e scientifica (trasformare l’interdizione al trattamento in
possibilità di trattamento).
Ed è qui che comincia il grande
equivoco.
La critica al manicomio come luogo
disumano e antiterapeutico, se non assume che tali connotazioni non sono solo del
manicomio ma anche dell’ideologia psichiatrica (di cui il manicomio è il prodotto), si
tradurrà semplicemente in creazione di altri scenari per l’esercizio della medesima
ideologia psichiatrica. Questa lettura dell’istituzione non solo come luogo fisico e
concreto ma come ideologia è simile per tutte le istituzioni totali.
Credo che la non voluta complicità
fra movimenti per i diritti e movimenti per il risparmio della spesa pubblica negli anni
Sessanta negli USA vada considerata come un fenomeno da studiare approfonditamente. È
una complicità (ripetiamo non voluta) in quanto si assume che il manicomio vada svuotato
senza che a questo svuotamento corrisponda un’assunzione di responsabilità verso il
paziente che ha diritto e ha bisogno di altro. La non
specificazione chiara e inequivoca di cosa debba essere questo
altro spesso ha condotto – conduce – alla semplice riproduzione della
psichiatria così come è, ma in un altro luogo fatto di servizi poveri, latitanti,
abbandonanti e che soddisfano le logiche del risparmio.¶{p. 311}
Ecco perché la trasformazione del
manicomio da deserto a giardino, fino alle estreme conseguenze, ossia la trasformazione
che conduce alla costruzione della non-necessità del manicomio una volta che sia
divenuto giardino, è un processo ineludibile (ricordiamo a questo proposito
l’espressione liberarsi dalla necessità del carcere coniata da
Mario Tommasini in occasione di un convegno organizzato a Parma nel 1984)
[1]
.
Il grande equivoco sta nell’uso
sinonimico, ahimè sempre più diffuso, delle nozioni di deospedalizzazione e
deistituzionalizzazione, la deospedalizzazione è un atto amministrativo che fa uscire un
paziente dalla istituzione-ospedale mentre la deistituzionalizzazione è un processo che
fa uscire un paziente dall’istituzione-psichiatria.
Con la conservazione del manicomio
la psichiatria perfeziona il proprio paradigma dell’intrattenimento [Saraceno 1995].
Un intrattenimento che allude sia a
un’azione piacevole per fare passare il tempo sia al senso primario dell’etimologia
tenere dentro.
La psichiatria si è espressa e si
esprime oscillando fra la forma forte del tenere dentro e la forma
debole del fare passare il tempo. Il manicomio realizza entrambe le
condizioni.
Ed è a questo punto che si
chiarifica la necessità di discutere di manicomio per poter parlare di riabilitazione.
Il manicomio costituisce il
paradigma dei processi di disabilitazione in quanto in esso il paziente sperimenta tutti
gli elementi della vita quotidiana, dal dormire al mangiare, dal vestire al fruire di
spazi, dallo scambiare affettività al ricevere ordini e a sottostare a norme. Tutti
questi elementi assumono nel manicomio il loro grado zero nel senso
dell’impoverimento umano e materiale.
Risalire quella spirale significa
modificare, rimettere in circolazione scambi ossia ricostruire storie soggettive,
soggettivare spazi trasformandoli in luoghi di esperienza, inventare risorse, produrre
risorse, esigere risorse, riformulare diritti, smascherare privilegi.
Se «i bisogni del malato
nell’istituzione deputata alla sua cura sono in antagonismo con l’efficienza
organizzativa necessaria alla sopravvivenza dell’ospedale in quanto organizzazione
sociale» [Basaglia 1971, 200], il lavoro non può che essere quello di occuparsi di quei
bisogni ed entrare con essi in antagonismo con l’istituzione.
È di questa alleanza con i bisogni
del malato, è di questo antagonismo con l’istituzione che non si trova traccia nelle
mille riabilitazioni in vendita sul mercato. Traccia non c’è o perché la riabilitazione
si fa dentro l’ospedale senza accorgersi che si è dentro l’ospedale oppure perché si
¶{p. 312}fa fuori dall’ospedale senza accorgersi che il fatto di esserne
fuori non fa scomparire l’ospedale, ma semplicemente fa scomparire l’angoscia che esso
determina in chi da esso si allontana lasciandolo immodificato.
Ma «qualcuno», se l’ospedale
permane, ancora vi lavorerà e vi abiterà e chi ne fugge senza porsi il problema della
sua permanenza porterà con sé il paradigma e lo riprodurrà all’infinito.
Infatti:
Il malato soffre soprattutto per essere costretto a scegliere di vivere in modo aproblematico e adialettico, perché le contraddizioni e le violenze della nostra realtà possono essere spesso insostenibili. La psichiatria non ha che accentuato la scelta aproblematica del malato, additandogli l’unico spazio che gli era consentito: lo spazio ad una sola dimensione creato per lui [Basaglia 1967, 452].
Dunque, la questione è quella
dell’intrattenimento operato dalla psichiatria in questo unico spazio a una sola
dimensione, che può essere il manicomio così come qualunque istituzione. È la
unidimensionalità della malattia l’istituzione da trasformare, è l’intrattenimento
unidimensionale della malattia la funzione da interrompere.
E, dunque, l’intervento per
aiutare, sostenere, prendersi cura delle persone destinate all’istituzionalizzazione non
può nascere e svilupparsi dentro l’istituzione quantunque riformata e resa più coerente
ai bisogni della vasta popolazione di malati cronici o di soggetti destinati al carcere.
Il nodo centrale è lo sviluppo massiccio di un’azione di comunità, di strategie di
prevenzione, cura, riabilitazione e assistenza centrate nella e sulla comunità.
È evidente che lo sviluppo di
interventi preventivi e curativi nella comunità implica l’attivazione di:
- intersettorialità delle risorse, delle competenze e delle azioni per la salute;
- flessibilità e mobilità dei budget che devono centrarsi e accompagnare i bisogni dei singoli utenti (person-oriented) invece che essere centrati sulla prestazione (provider-oriented). In altre parole, la storica logica della psichiatria praticata dal modello triestino secondo cui il budget segue il paziente e non sta attaccato alla prestazione (letto, intervento medico ecc.) non dovrebbe essere un’intuizione geniale di politica sanitaria riservata a una pratica specialistica di eccellenza circoscritta geograficamente ma dovrebbe trasformarsi in politica corrente dei sistemi sanitari [Cogliati Dezza et al. 2012, 374-387].
- compresenza orizzontale di prestazioni di primo livello e specialistiche nel quadro della Salute e Medicina Comunitaria. Soprattutto per le malattie croniche è necessario ripensare e superare radicalmente la separazione fra Primary e Secondary Care (ossia fra Medicina di base e Medicina specia¶{p. 313}listica) e, a questo proposito, si veda l’innovativo documento elaborato dall’Organizzazione Mondiale della Salute insieme alla Fondazione C. Gulbenkian [WHO e Fundação Calouste Gulbenkian 2014].
In conclusione, si tratta di
restituire ai diritti un ruolo e una collocazione centrali nella concezione,
pianificazione e organizzazione dei sistemi sanitari: è urgente e necessario smettere di
considerare i diritti come «contesti desiderabili» dell’offerta di salute da parte dei
sistemi sanitari ma invece includere i diritti come indicatori (ossia come misure)
sostanziali della politica, della pianificazione e dell’erogazione di salute e sanità.
3. I diritti come asse centrale della deistituzionalizzazione
La Convenzione delle Nazioni Unite
sui diritti delle persone con disabilità (CRPD) è stata adottata nel 2006 e ha
cominciato a essere applicata nel 2008 [United Nations 2006]. I diritti affermati dalla
Convenzione sono già presenti nei trattati internazionali sui diritti umani ma in questa
specifica convenzione i principi generali di dignità, uguaglianza, non discriminazione,
piena inclusione sociale sono applicati alle persone con disabilità, con la
preoccupazione che la disabilità mai debba costituire un fattore di indebolimento dei
diritti.
La CRPD sancisce un fondamentale e
storico mutamento di paradigma affermando in modo unitario e senza distinzioni i diritti
delle persone con disabilità sia essa fisica oppure mentale. Inoltre, promuove un
modello sociale di disabilità, cosicché essa cessi di essere solamente una condizione
esclusivamente individuale ma sia vista come la risultante di una vulnerabilità
personale e delle risposte che la società propone alle persone con disabilità. In altre
parole, la tradizionale distinzione fra diminuita abilità di un soggetto e le barriere
che la società impone a tale soggetto viene a cadere, mettendo in evidenza come la
disabilità appartenga sia al soggetto sia alla società in cui esso vive; come dire, metà
del danno in chi ne è portatore ma metà insito e generato dalla comunità che lo
circonda: così come il discorso secondo Michel de Montaigne: «La parole est moitié à
celui qui parle, moitié à celui qui l’écoute»
[2]
[Montaigne 1595, 1066b].
Dunque, le persone con disturbi
mentali protratti nel tempo e con una qualche disabilità non sono più un gruppo
vulnerabile separato e con diritti diminuiti o messo sotto tutela speciale. Questa
comune appartenenza all’universale contratto sociale dei diritti costituisce un
progresso sostanziale rispetto al tempo in cui la disabilità mentale veniva relegata in
un limbo giuridico, non solo separato, ma sostanzialmente normato da leggi che avevano a
che fare con la pericolosità sociale invece che, piuttosto, con il
¶{p. 314}diritto all’inclusione sociale. Tuttavia, alcune associazioni
di utenti della psichiatria hanno argomentato che ponendo la disabilità mentale insieme
alle disabilità fisiche si rischia di ignorare il fatto che la malattia mentale non è
altro che un costrutto sociale e che l’esperienza che definiamo psicotica è un legittimo
percorso individuale che non può essere ascritto ad alcuna nozione di malattia o di
deficit o di disabilità. Malgrado questi punti di vista piuttosto radicali, la
Convenzione è stata accolta dalla maggioranza delle associazioni di utenti della
psichiatria come un evento positivo e, anzi, molte associazioni hanno partecipato alla
sua stessa elaborazione.
Sarebbe un’evoluzione positiva
quella per cui l’universo della salute mentale (operatori, familiari, utenti,
amministratori) si affrancasse da una certa autoreferenzialità e, anzi, si ponessero le
fondamenta di un grande movimento per i diritti di tutte le persone
con disabilità, sia che tali disabilità siano sensoriali, motorie, intellettive o
mentali. Certamente, ognuno di questi gruppi ha anche bisogni specifici e soffre di
violazioni dei diritti specifiche, dalle barriere architettoniche per le persone con
disabilità motorie all’esclusione sistematica e radicale dal mondo per le persone con
disabilità intellettive con alte necessità assistenziali o alle forme di coercizione
fisica per le persone con disabilità mentali. Il vasto movimento per i diritti delle
persone con disabilità avrà la forza della sua unità e l’intelligenza delle proprie
differenze.
I principi generali su cui si fonda
la Convenzione sono sostanzialmente otto e riguardano tutti i tipi di disabilità:
- il rispetto della disabilità come parte della diversità umana;
- la non discriminazione;
- l’uguaglianza di genere;
- il rispetto per i bambini con disabilità e del loro diritto a evolvere e preservare la propria identità;
- il rispetto per la dignità delle persone con disabilità ossia il diritto all’autonomia e la libertà di scegliere in piena indipendenza;
- la piena partecipazione e inclusione sociale;
- l’uguaglianza delle opportunità;
- l’accessibilità ai servizi.
La CRPD è un testo giuridico
internazionale per molti versi innovativo in quanto non si limita a sancire dei diritti
negativi (diritto a-non) ma promuove anche molti diritti positivi (diritto a) cosicché
si affermano le opportunità ad abitare, a lavorare, a studiare come diritti e non come
semplici aspirazioni.
Certamente però l’elemento più
rivoluzionario della Convenzione è l’attiva e influente partecipazione delle stesse
persone con disabilità nel processo di concezione, elaborazione e formulazione dei
cinquanta articoli che la costituiscono. Anche gli utenti della psichiatria sono stati
attivamente coinvolti e hanno svolto un ruolo di innovazione radicale: per una
¶{p. 315}volta la compassata e spesso burocratica logica che
caratterizza i processi all’interno del sistema delle Nazioni Unite ha lasciato il posto
alla vivacità spesso conflittuale di un dibattito, per nulla compassato o troppo
formalizzato. Sarebbe stato auspicabile che anche nel nostro Paese all’atto della
ratificazione della Convenzione, il Parlamento avesse avuto il coraggio di aprire un
dibattito nazionale articolato e coraggioso. Ma non è stato così.
Note
[1] Mario Tommasini (1928-2006), politico italiano del Partito Comunista, noto per avere condotto importanti battaglie a Parma per la chiusura del manicomio di Colorno e per avere creato iniziative di inserimento lavorativo per decine di detenuti.
[2] «La parola appartiene per metà a colui che parla e per metà a colui che ascolta».