Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c12
Alla luce di queste riflessioni, non sorprende che l’ambito privilegiato di applicazione dell’articolo 12 sia il diverso istituto dell’amministrazione di sostegno ex articolo 404 ss. c.c. A differenza di quanto avviene per l’interdizione, i cui effetti sono predeterminati per legge, l’amministrazione di sostegno è connotata da una sostanziale flessibilità: è infatti il giudice tutelare a perimetrare, sulla base di una valutazione «individua
{p. 295}lizzata», la portata della limitazione della capacità di agire e dei poteri dell’amministratore. Coerentemente con questa impostazione «flessibile», la disciplina codicistica non offre indicazioni dettagliate su come tale ampia discrezionalità debba essere esercitata dal giudice, né tantomeno sulle modalità di svolgimento dell’ufficio dell’amministratore, limitandosi a sottolineare l’importante principio secondo cui occorre «tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario».
In questo contesto, i giudici tutelari hanno da tempo riconosciuto l’opportunità di «attingere al bacino dei principi contenuti nella Convenzione» nella definizione delle «concrete modalità operative dell’amministrazione di sostegno» [40]
. Tale approccio è stato recentemente confermato dalla Cassazione, secondo cui
il contenuto della Convenzione assurge a canone ermeneutico cui deve confrontarsi il Giudice di merito nell’assumere la sua decisione sulla richiesta procedura quando è chiamato a valutare sia il tipo ed il grado di disabilità dell’amministrando sia la sua audizione «compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della persona, dei bisogni e delle richieste di questa» [...], al fine di individuare un provvedimento congruo e commisurato alle concrete esigenze dell’amministrando [41]
.
Di fronte a una disciplina codicistica piuttosto scarna, almeno sotto il profilo sostanziale, i «principi della Convenzione» sono così chiamati a orientare la giurisprudenza nell’affrontare le delicatissime questioni che sorgono nella variegata prassi relativa all’amministrazione di sostegno. Questo uso della Convenzione si situa evidentemente ai limiti esterni del concetto di interpretazione conforme. Non si tratta più di risolvere dubbi interpretativi, più o meno genuini, adottando la soluzione maggiormente rispondente agli obbiettivi della Convenzione; né di riempire di contenuto espressioni impiegate dal diritto interno servendosi delle definizioni pattizie. Qui è l’intera disciplina di un istituto a essere oggetto di una lettura adeguatrice. Peraltro, nella misura in cui i principi della Convenzione forniscono indicazioni molto più precise di quelle ricavabili dalla normativa interna, essi finiscono per svolgere una funzione integrativa rispetto a quest’ultima.
Questa veloce, e inevitabilmente parziale, rassegna della giurisprudenza dei giudici comuni offre terreno per due considerazioni di carattere gene{p. 296}rale. Per un verso, viene confermata la posizione dottrinale secondo cui l’interpretazione conforme a una norma internazionale, se intesa in senso ampio, è suscettibile di produrre risultati non facilmente distinguibili, sul piano pratico, dal riconoscimento di effetti diretti [Cannizzaro 2015, 13]. Com’è stato opportunamente rilevato [Rossi 2020, 285; Betlem e Nollkaemper 2003, 583], ciò è particolarmente visibile quando l’interpretazione conforme è utilizzata per colmare una lacuna nell’ordinamento interno – ad es., per quel che qui ci interessa, la definizione di «persona con disabilità» o la disciplina delle concrete modalità operative dell’amministrazione di sostegno.
Per altro verso, è interessante notare come, nella giurisprudenza analizzata, l’uso della Convenzione a fini interpretativi non appaia dettato dall’esigenza di evitare la responsabilità internazionale dell’Italia o dalla consapevolezza della sua posizione sovraordinata, ex articolo 117 Cost., nella gerarchia delle fonti dell’ordinamento italiano. Piuttosto, l’interpretazione conforme alla Convenzione sembra funzionale alla promozione di uno specifico valore, la piena tutela dei diritti delle persone con disabilità, secondo quello che è stato efficacemente descritto come «modello assiologico dell’interpretazione conforme» [Rossi 2020, 293-294]. Nell’esercizio della loro cruciale funzione di colmare la distanza tra società e diritto [Barak 2006, 3-19], i giudici spesso si servono di materiali normativi di varia provenienza e natura, non già in ragione della loro cogenza, quanto piuttosto della loro migliore attitudine a catturare e veicolare quelle che sono le attuali convinzioni etiche e sociali [Iovane 2008, 118-121]. E questo sembrerebbe essere il caso dell’uso della Convenzione nella giurisprudenza italiana, inaugurato – come si ricorderà – prima che la Convenzione stessa entrasse in vigore per l’Italia, proprio «per il suo carattere espressivo di principi comuni ai vari ordinamenti nazionali» [42]
.

5. La (possibile) rilevanza interna della prassi interpretativa del Comitato sui diritti delle persone con disabilità

A differenza di quanto avviene per le disposizioni della Convenzione, che sono oggetto di numerosi richiami e (talora) di analisi abbastanza approfondite, non è dato rinvenire nella giurisprudenza italiana alcun riferimento alla prassi del Comitato sui diritti delle persone con disabilità.
Istituito dall’articolo 34 della Convenzione, il Comitato non si discosta, nella sua composizione e nelle sue funzioni, dagli omologhi organi istituiti da altri trattati in materia di diritti umani. Si tratta di un comitato di esperti indipendenti la cui funzione principale è quella di assistere {p. 297}le Parti Contraenti nel dare corretta attuazione agli obblighi derivanti dalla Convenzione. Nell’esercizio di questa funzione, il Comitato riceve e discute con le Parti Contraenti i loro rapporti periodici sullo stato di implementazione della Convenzione, formulando osservazioni (artt. 35 e 36). Con riferimento alle Parti del Protocollo Opzionale, inoltre, riceve comunicazioni individuali su presunte violazioni della Convenzione e, in caso di accertamento della violazione, trasmette suggerimenti e raccomandazioni alla Parte censurata (art. 5 del Protocollo). Infine, nell’ottica di agevolare la corretta attuazione degli obblighi pattizi, elabora Commenti generali, volti a chiarire il significato e la portata delle singole disposizioni della Convenzione [43]
.
In nessuno di questi casi, al Comitato è conferito il potere di adottare decisioni vincolanti. Nondimeno, nell’espletare il proprio mandato, esso è chiamato a svolgere una robusta attività di interpretazione della Convenzione. Trattandosi di un’interpretazione proveniente da un comitato di esperti, è legittimo chiedersi se i giudici italiani non possano valorizzarne maggiormente la prassi interpretativa, indipendentemente dal fatto che essa sia consegnata in atti privi di efficacia vincolante.
Il tema è venuto alla ribalta, in tempi relativamente recenti, con riferimento alla prassi di un altro comitato, con funzioni e poteri analoghi, vale a dire il Comitato europeo dei diritti sociali, e alla sua interpretazione della Carta sociale europea. La Corte costituzionale, infatti, nella sentenza n. 120, dell’11 aprile 2018, si è chiaramente espressa al riguardo statuendo che «le pronunce del Comitato [europeo dei diritti sociali], pur nella loro autorevolezza, non vincolano i giudici nazionali nella interpretazione della Carta [sociale europea]» (par. 13.4).
Questa affermazione ha sollecitato una serie di rilievi critici da parte della dottrina, soprattutto internazionalistica. Questi interventi hanno in vario modo messo in luce come, se è vero che gli atti del Comitato non hanno carattere vincolante, ciò non significa che la sua prassi interpretativa sia priva di qualsivoglia rilevanza giuridica [Forlati 2019; Russo 2019; Borlini e Crema 2020; Mola 2018]. A questo riguardo, si è tentato di dimostrare l’esistenza in capo ai giudici nazionali di un obbligo di «prendere in considerazione» le decisioni del Comitato nell’interpretazione della Carta [Amoroso 2018]. A noi pare che, viste le evidenti analogie – istituzionali e funzionali – tra il Comitato europeo dei diritti sociali e il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, gli argomenti sviluppati in relazione {p. 298}alla rilevanza giuridica della prassi interpretativa del primo possano essere agevolmente riproposti in riferimento alle pronunce del secondo.
Ciò vale anzitutto per il fondamento dell’obbligo di «prendere in considerazione» le decisioni del Comitato, il quale va rinvenuto in un principio-cardine del diritto delle organizzazioni internazionali, vale a dire il dovere di leale collaborazione, richiamato dall’articolo 37 della Convenzione [44]
. Questa disposizione, in verità, è piuttosto avara di indicazioni, limitandosi a stabilire che le «Parti collaborano con il Comitato e assistono i suoi membri nell’adempimento del loro mandato». Non è pertanto agevole stabilire, sulla sola base del testo dell’articolo 37, quali obblighi specifici discendano dal generale dovere di collaborazione.
Può essere utile, però, volgere lo sguardo ad altre esperienze istituzionali, in cerca di spunti sulle possibili applicazioni concrete del principio. Particolarmente preziosa, al riguardo, è la prassi sviluppatasi nel quadro del diritto dell’Unione europea, dove il principio in parola è sancito dall’articolo 4, comma 3, del Trattato sull’UE. Senza disconoscere le peculiarità del processo di integrazione europea, deve infatti rilevarsi come il principio di leale collaborazione nel diritto dell’UE non si distingua qualitativamente dall’omologo principio stabilito dal diritto internazionale, derivando entrambi dal più generale principio di buona fede nell’interpretazione ed esecuzione dei trattati [De Baere e Roes 2015].
Sotto il profilo che ci interessa, molto significativa è la giurisprudenza della Corte di giustizia sugli effetti giuridici delle raccomandazioni adottate dalle istituzioni europee. Benché non vincolanti, infatti, i giudici nazionali sarebbero comunque «tenuti a prender[le] in considerazione [...] ai fini della soluzione delle controversie sottoposte al loro giudizio», soprattutto quando esse mirano a chiarire gli obblighi posti dai Trattati [45]
. È legittimo chiedersi se questo principio sia applicabile a organizzazioni diverse dall’UE. A noi pare possibile rispondere in senso affermativo, tenuto conto del fatto che l’obbligo in parola definisce un presupposto indefettibile per la realizzazione di una proficua collaborazione in qualsiasi struttura ordinamentale, dalla più rudimentale alla più sofisticata: un «ascolto» serio e senza pregiudizi delle posizioni espresse dalle altre istituzioni coinvolte [46]
. {p. 299}
Nella prospettiva indicata, dunque, l’obbligo di «prendere in considerazione» sarebbe del tutto slegato dalla natura giuridicamente vincolante dell’atto che contiene una data interpretazione, essendone piuttosto rilevante la provenienza (un organo di un’organizzazione internazionale) e la funzione (chiarire il significato degli obblighi assunti dalle Parti nell’ambito di tale organizzazione). Se ciò è vero, allora è plausibile sostenere che la natura non vincolante degli atti del Comitato non esoneri i giudici italiani dall’obbligo – discendente dal dovere di cooperazione ex articolo 37 – di prenderli in considerazione quando interpreta la Convenzione.
In concreto, l’obbligo in questione si tradurrebbe in un «aggravamento» dell’onere motivazionale incombente sul giudice nazionale il quale, se non vuole aderire alla prassi interpretativa del Comitato, sarà tenuto a indicarne espressamente le ragioni [47]
. In questo modo, rimarrebbe di fatto impregiudicata la possibilità per i giudici italiani di disattendere le interpretazioni del Comitato, a condizione però che tale deviazione sia adeguatamente motivata.
Il riferimento, nei limiti appena indicati, agli atti del Comitato potrebbe dunque offrire ai giudici italiani una valida guida nel ricostruire il significato delle disposizioni pattizie, superare eventuali dubbi interpretativi e valutare la conformità alla Convenzione di normative e prassi interne. Basti considerare le indicazioni fornite dal Comitato nel primo dei suoi Commenti generali, non a caso dedicato all’articolo 12, le quali risolvono alcune questioni – come, ad esempio, la distinzione tra capacità giuridica e capacità di agire – sollevate dal testo della disposizione e ancora segnalate come «controverse» nella giurisprudenza italiana più recente [48]
.
Anche se non si aderisce a questa proposta ricostruttiva, va comunque evidenziata la possibilità che l’attività interpretativa del Comitato eserciti sui giudici italiani un’influenza indiretta, per il tramite della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Quest’ultima, infatti, si è talvolta servita delle osservazioni del Comitato per valutare la conformità alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo di certe normative e prassi statali in tema di protezione delle persone con disabilità.
Si consideri, ad esempio, il recente caso Calvi c. Italia, in cui la Corte ha ritenuto contraria all’articolo 8 CEDU (Diritto al rispetto della vita
{p. 300}privata e familiare) la decisione di un amministratore di sostegno di far ricoverare in una Residenza sanitaria assistenziale (RSA) una persona anziana in stato di vulnerabilità contro la sua volontà [49]
. Nel motivare le sue conclusioni, la Corte ha richiamato l’«inquiétude» espressa dal Comitato in relazione alla «prassi della sostituzione nella presa di decisioni» da parte degli amministratori di sostegno (par. 106). La Corte, inoltre, ha condiviso le preoccupazioni del Comitato in merito all’adozione di misure detentive, inclusi il ricovero coatto e i trattamenti sanitari obbligatori, in ragione della disabilità (par. 107) [50]
.
Note
[40] Trib. Varese, decreto del 5 marzo 2012 (consultabile al seguente indirizzo web: https://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/7031.pdf). Dello stesso Tribunale, si veda anche il decreto del 6 ottobre 2009, in tema di diritto della beneficiaria di amministrazione di sostegno, una persona adulta affetta da sindrome di Down, ad esprimere il proprio consenso a contrarre matrimonio senza l’intermediazione dell’amministratrice. La decisione è consultabile al seguente indirizzo web: https://agasge.it/moduli/39__Trib.%20Varese%206%2010%202009%20AdS%20e%20consenso.pdf.
[41] Cass. civ., sez. I, sent. n. 21887, dell’11 luglio 2022, par. 1.2.
[42] C. Cost. sent. n. 251, del 25 giugno 2008, par. 12.
[43] Tale competenza non è espressamente attribuita né dalla Convenzione, né dal Protocollo, ma è stata introdotta dallo stesso Comitato in sede di adozione delle proprie regole di procedura (v. Regola 47.1, la quale specifica che l’adozione di commenti generali è funzionale a promuovere l’attuazione della Convenzione e ad assistere le Parti Contraenti nell’elaborazione dei rapporti periodici). Sul ruolo del Comitato nell’interpretazione della Convenzione, v. in generale Seatzu [2009].
[44] Tale nesso tra leale collaborazione e obbligo di «prendere in considerazione» è stato messo in luce anzitutto da Conforti [1968, 128-129], con riferimento agli organi (politici) delle Nazioni Unite, e successivamente esteso da Cassese [1971, 151] a tutti gli organi internazionali di controllo.
[45] Corte di giustizia, sentenza del 13 dicembre 1989, causa 322/88, Grimaldi, punto 18. V., più di recente, Corte di giustizia, sentenza del 18 marzo 2010, cause riunite 317/08, 318/08, 319/08 e 320/08, Alassini, punto 40. Nel senso che il fondamento di questo obbligo vada rinvenuto nel principio di leale collaborazione, v. Senden [2004, 391].
[46] A tale riguardo, vale la pena notare che è lo stesso Comitato a definire le proprie interazioni con le Parti Contraenti, ancorché nel diverso contesto della discussione dei rapporti periodici, come «constructive dialogue» (v. Working Methods of the Committee on the Rights of Persons with Disabilities Adopted at Its Fifth Session (11-15 April 2011), 2 settembre 2011, UN Doc. CRPD/C/5/4, parr. 1, 4, 8, 11 e 13).
[47] In questo senso, benché con riferimento allo Stato nel suo complesso, v. ancora Conforti [1968, 128-129] e Cassese [1971, 151].
[48] Cass. civ., sez. I, sentenza n. 3462, del 3 febbraio 2022, par. 3.7.2. Nel Commento generale dedicato all’articolo 12, infatti, il Comitato ha chiarito che «Legal capacity includes the capacity to be both a holder of rights [capacità giuridica] and an actor under the law [capacità di agire]». V. General Comment No. 1 (2014), Article 12: Equal Recognition Before the Law, 19 maggio 2014, UN Doc. CRPD/C/GC/1, par. 12.
[49] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Augusto Calvi e C.G. c. Italia, ricorso n. 46412/21, sentenza del 6 luglio 2023. Per un esame della vicenda che ha dato origine al ricorso, cfr. Tarantino [2023].
[50] La Corte ha fatto riferimento, in particolare, alle Concluding Observations on the Initial Report of Italy, 31 agosto 2016, UN Doc. CRPD/C/ITA/CO/.1, parr. 27-28 e 33-34.