L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c6
Il rigetto del pluralismo, di
quello radical in particolar modo, ci porta concettualmente
molto vicini al secondo «pilastro» della teoria, quello normativo. Al di là del
rifiuto di pensare al caso concreto come oggetto di regolazione da parte di più
«sistemi», conta l’idea che non si possa accettare a cuor leggero di non avere
soluzioni giuridiche, ma solo politiche, al conflitto. Da questo punto di vista è
essenziale la prospettiva dell’individuo e delle sue legittime aspettative
[12]
: Mr. Kadi ha il diritto a sapere qual è la norma
che lo riguarda e sulla base di quali considerazioni giuridiche. Questo punto è
particolarmente importante perché sottolinea la centralità per l’interlegalità di un
punto che, come vedremo, è essenziale anche per la culture of
justification: la legittima aspettativa degli individui a ricevere
una giustificazione giuridica coerente su quale norma si applichi. Il giudice è
responsabile per l’intero complesso di norme coinvolte nel caso e non può
semplicemente ignorare uno o più dei regimi coinvolti, dichiarandosi incompetente a
valutarne la rilevanza
[13]
. Dal punto di vista normativo, pertanto, l’interlegalità prescrive ai
giudici di prendere in considerazione l’insieme delle norme oggettivamente e
bilanciarle, motivando l’applicazione dell’una e la disapplicazione dell’altra
[14]
. Benché l’aspirazione a fornire una risposta giuridica anche quando essa
sembri assente risenta probabilmente di influenze dworkiniane
[15]
, non è accolta l’idea di una one right answer. Per
citare Klabbers sull’emblematico caso Kadi: «What the case
makes clear is that matters cannot be convincingly reduced to a single jurisdiction
or a single body of expertise […]. What is important to appreciate is that, as a
technical matter, the
¶{p. 142}case could easily have had a
different outcome»
[16]
. Ponderate tutte le norme rilevanti, il giudice non giunge alla risposta
corretta, ma più modestamente evita l’ingiustizia che deriva da un’argomentazione
chiaramente lacunosa
[17]
. La responsabilità per l’intero, formula sintetica che riassume
probabilmente l’intera parte prescrittiva del progetto, parte dal presupposto che il
giudice debba valutare la normativa rilevante e tentare di rendere la risposta
giuridicamente più adeguata, ma che non necessariamente giungerà ad uno specifico
risultato e che, ad ogni modo, avrà ottemperato al proprio dovere attraverso
un’argomentazione congrua, non raggiungendo un esito particolare.
2.2. La «culture of justification»
Il conio dell’espressione
culture of justification spetta al giurista sudafricano
Etienne Mureinik, in riferimento alla Interim Constitution 1993
e al suo Bill of Rights
[18]
. Il saggio del 1994 A Bridge to Where - Introducing the
Interim Bill of Rights è, di fatto, soprattutto un tentativo di
orientare la futura interpretazione di alcune delle disposizioni più rilevanti del
Bill. Questo, nell’idea di Mureinik, è un «ponte» tra una
culture of authority, in cui nessuna giustificazione è
dovuta quanto all’obbligatorietà di una norma giuridica, purché validamente prodotta
dalle autorità preposte, e una culture of justification. Sin
dal suo primo utilizzo, dunque, l’espressione culture of
justification si definisce soprattutto in opposizione rispetto ad
un’idea divergente. Seguendo l’efficace sintesi di Moshe Cohen-Eliya e Iddo Porat,
in una cultura dell’autorità la legittimità e la legalità dell’azione delle
istituzioni dipendono dalla validità formale delle disposizioni
¶{p. 143}adottate, mentre in una cultura della giustificazione la
legittimità di una decisione dipende anche dalla sua razionalità e persuasività
sostanziale. Ogni atto giuridico, in altre parole, dovrà essere giustificato o
giustificabile di fronte ai consociati per essere vincolante. Inoltre, non esistono
in linea di principio atti giuridici del tutto esenti da meccanismi di controllo,
soprattutto in riferimento a possibili violazioni dei diritti fondamentali. Questi
ultimi sono concepiti, più che come limiti all’azione di governo, come valori da
realizzare e in relazione ai quali eventuali limitazioni debbono essere giustificate
sostanzialmente, in particolar modo attraverso il test di proporzionalità. Il ruolo
dei diritti, pertanto, risulta cruciale: essi non sono «assoluti», ma le limitazioni
dovranno risultare razionalmente giustificabili. La culture of
justification è, conseguentemente, poco favorevole
all’interpretazione letterale e piuttosto ottimista nei confronti della possibilità
di ottenere argomenti razionali a favore o contro una certa decisione di fronte alle
corti (e della possibilità di decidere razionalmente sulla base delle ragioni
emerse). Ne consegue, infine, una maggior vicinanza alle concezioni deliberative
della democrazia rispetto a quelle meramente procedurali
[19]
.
Val la pena di notare che
all’idea di cultura della giustificazione si affianca un «diritto alla
giustificazione»: se la legittimità dell’azione dei pubblici poteri dipende dalla
giustificabilità dei contenuti, in particolar modo delle restrizioni dei diritti
fondamentali, allora i cittadini avranno una legittima aspettativa morale e
giuridica a ricevere adeguate informazioni. Al diritto alla giustificazione si
correlano diritti strumentali quali l’accesso alle informazioni rilevanti e la
libertà d’espressione lato sensu intesa, senza i quali
qualunque interlocuzione con i pubblici poteri o critica degli stessi risulta
impossibile. Analogamente, al diritto alla giustificazione è correlato un dovere di
giustificare, in particolar modo di rivelare, motivando, le considerazioni
¶{p. 144}empiriche e normative che hanno portato all’adozione di una
certa decisione
[20]
.
Ne deriva anche una specifica
concezione della deference che le corti devono accordare al
legislativo e soprattutto all’esecutivo. Se è vero, infatti, che non si danno in una
culture of justification dei legal black
holes, è altrettanto vero che il potere di controllo da parte dei
tribunali non può essere illimitato. Nella misura in cui le decisioni, in particolar
modo dell’amministrazione, sono adeguatamente motivate, il giudice dovrà limitarsi a
ricostruire la razionalità e ragionevolezza degli argomenti forniti, senza potervisi
sostituire nel merito. La separazione dei poteri è riformulata richiedendo
all’amministrazione di approfondire la motivazione degli atti e al giudiziario di
essere deferente nei confronti delle (ragionevoli) giustificazioni fornite
[21]
. Nelle parole di Cristina Lafont, il giudiziario aggiunge al ruolo
tradizionale di guardiano degli interessi dei singoli quello di
conversation initiator sulle decisioni pubbliche: «even if
the litigants lost their case, exercising their right to legal contestation had the
intrinsic, expressive value of reinforcing the political community’s commitment to
treating all citizens as free and equal»
[22]
. Le corti, dunque, diventano la sede principale della public
reason
[23]
un foro aperto dov’è possibile discutere, al di là delle specifiche
ripercussioni sui diritti individuali, la giustificazione stessa delle policy.
In sintesi, per citare ancora
Möller:¶{p. 145}
[W]e can now summarize the idea of a culture of justification as insisting that citizens can rely on the bill of rights to challenge any act by the state which affects them; and that the courts, and in the final instance the constitutional court, have the responsibility of establishing whether the act in question is substantively justifiable [24] .
La cultura della
giustificazione, che assume al contempo valenza di descrizione di fenomeni giuridici
già in atto e di dottrina relativa all’evoluzione che essi dovrebbero avere,
individua un dovere generalizzato di esporre le ragioni che portano all’adozione di
specifiche politiche pubbliche, in particolar modo nei casi di limitazione dei
diritti. Non basta ad un’autorità, all’esecutivo in particolar modo, seguire le
procedure previste per legittimare l’adozione di una specifica decisione, è
necessario fornire ai consociati giustificazioni trasparenti, ragionevoli e
complete.
Questi i tratti essenziali
della culture of justification, una concezione del diritto che,
nata nel mondo anglofono, e in particolar modo nel contesto della transizione
sudafricana post-apartheid, è oggi nota e studiata in molti
ordinamenti giuridici occidentali, soprattutto come spiegazione del successo del suo
principale strumento di azione, il test di proporzionalità
[25]
. Non è necessario, ai fini di questo scritto, scendere ulteriormente nel
dettaglio nella ricapitolazione della cultura della giustificazione: una volta
individuati gli elementi essenziali, possiamo finalmente passare alla comparazione
con la recente teoria dell’interlegalità, in modo da individuare affinità e
divergenze tra le due concezioni.
3. Somiglianze di famiglia
Dopo questa breve individuazione
dei tratti rilevanti ai fini della comparazione, possiamo finalmente tentare di
¶{p. 146}confrontare le due teorie, sottolineandone affinità e
differenze. Alcune precisazioni preliminari sono però necessarie.
Come già anticipato, paragonare una
teoria in fase di evoluzione ad una concezione del diritto con ormai alle spalle quasi
30 anni di sviluppo può essere in un certo senso fuorviante, poiché la prima risulterà
verosimilmente più soggetta della seconda a cambiamenti, anche radicali. Dunque, si può
solo tentare di fornire un’istantanea del concetto di interlegalità per come è oggi
immaginato e teorizzato.
In secondo luogo, la distanza
temporale tra le due potrebbe far immaginare una genealogia intellettuale (una
derivazione della teoria dell’interlegalità dalla culture of
justification) che qui non si intende né ipotizzare, né tantomeno
dimostrare. Di per sé questa ipotesi ha un minimo di evidenza testuale a sostegno: nel
commentare una delle vicende chiave per inquadrare la parte normativa della teoria
dell’interlegalità, la saga relativa ai risarcimenti per i crimini di guerra tedeschi,
una delle critiche fondamentali rivolte alla Corte internazionale di Giustizia ha ad
oggetto l’incapacità della Corte di prendere in considerazione la totalità delle norme
rilevanti per il caso in esame e, dunque, l’assenza di un’adeguata culture of
justification
[26]
. Tuttavia, questo passaggio non può dirsi sufficiente a provare un vero e
proprio debito intellettuale, tanto più che non vi sono specifici riferimenti
bibliografici ai principali autori di riferimento della cultura della giustificazione.
Il riferimento può essere stato usato in modo più ampio e «rilassato» per indicare una
carenza di adeguata argomentazione da parte della Corte. Di conseguenza, ciò che si
intende sottolineare in questa sede è semplicemente una serie di affinità negli
argomenti proposti dalle due teorie, una somiglianza di famiglia, per riprendere una
celebre espressione del Novecento filosofico
[27]
. Ciò può suggerire una comunanza di valori ed un comune milieu
culturale, ma non anche, o almeno non necessariamente, specifici rapporti di
¶{p. 147}derivazione dell’una dall’altra. Come tali, queste affinità (ma
in modo altrettanto significativo anche le divergenze) possono suggerire delle
riflessioni sullo stato attuale della riflessione giuridica in parte della tradizione
giuridica occidentale, il che sembra un obiettivo di indagine di rilievo.
Note
[12] Cfr. Palombella, Theory, Realities, and Promises of Interlegality, cit., p. 369.
[13] Cfr. ibidem, pp. 385-390.
[14] Cfr. ibidem, 386.
[15] Cfr. R. Dworkin, Hard Cases, in Id., Taking Rights Seriously, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1978, pp. 81 ss.
[16] J. Klabbers, Judging Interlegality, in Palombella e Klabbers (a cura di), The Challenge of Inter-legality, cit., pp. 346-347.
[17] Cfr. Palombella, Theory, Realities, and Promises of Interlegality, cit., pp. 362 e 383.
[18] E. Mureinik, A Bridge to Where - Introducing the Interim Bill of Rights, in «South African Journal on Human Rights», 10, 1994, n. 1, pp. 31 ss.
[19] Per una spiegazione dettagliata dei caratteri sinteticamente individuati si veda M. Cohen-Eliya e I. Porat, Proportionality and the Culture of Justification, in «The American Journal of Comparative Law», 59, 2011, pp. 474 ss.
[20] I diritti strumentali e l’onere di motivazione sono individuati da Mureinik nel già citato saggio del 1994, cfr. Mureinik, A Bridge to Where, cit., pp. 34, 41 e 43-44.
[21] Cfr. D. Dyzenhaus, Proportionality and Deference in a Culture of Justification, in G. Huscroft, B. Miller e G. Webber (a cura di), Proportionality and the Rule of Law, Cambridge, Cambridge University Press, 2014, pp. 234 ss., 254.
[22] C. Lafont, Philosophical Foundations of Judicial Review, in D. Dyzenhaus e M. Thorburn (a cura di) Philosophical Foundations of Constitutional Law, Oxford, Oxford University Press, 2016, pp. 265 ss., 270-275: 273.
[23] Cfr. M. Kumm, The Idea of Socratic Contestation and the Right to Justification: The Point of Rights-Based Proportionality Review, in «Law & Ethics of Human Rights», 4, 2010, n. 2, pp. 142 ss.
[24] K. Möller, Justifying the culture of justification, in «International Journal of Constitutional Law», 17, 2019, n. 4., pp. 1078 ss., 1081.
[25] Cfr. ancora Cohen-Eliya e Porat, Proportionality and the Culture of Justification, cit.
[26] Cfr. Palombella, Theory, Realities, and Promises of Interlegality, cit., pp. 384-386.
[27] Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1974, §§ 65-67.