Francesca Biondi Dal Monte, Simone Frega (a cura di)
Contrastare la dispersione scolastica
DOI: 10.1401/9788815413369/c9
Questi processi di produzione del confine educativo non si limitano all’accoglienza degli studenti con background migratorio: si riproducono potentemente nel contesto della classe dove, a parte rare eccezioni, il modello di lezione
{p. 175}frontale e la didattica depositaria costituiscono la norma. Lo spazio educativo in questo caso si scinde letteralmente in due tra chi può decidere di accedere ai contenuti delle lezioni e chi no. Nelle classi prime dell’indirizzo meccanico in cui ho trascorso il mio tempo durante la ricerca c’era un gruppo di NAI che era totalmente tagliato fuori dalle lezioni. I ragazzi trascorrevano il loro tempo a giocare con il cellulare, unica forma di intrattenimento che avevano a disposizione per trascorrere il tempo in classe. Risulta quindi abbastanza paradossale leggere le motivazioni della circolare ministeriale che vieta l’utilizzo del cellulare in classe: «L’uso di dispositivi digitali causa distrazione e rappresenta una mancanza di rispetto verso i docenti» [32]
.
L’unico momento in cui i ragazzi venivano coinvolti era proprio quando uscivano dalla classe e partecipavano ai sopracitati corsi di Italiano tenuti da docenti che mettevano a disposizione le loro ore. Si trattava di pochissime ore a settimana e i corsi erano organizzati in maniera inadeguata con livelli di competenza diversi. Ma perlomeno in quei momenti si dava spazio agli studenti per prendere parola. Ed era paradossale che ciò accadesse proprio quando i discenti con background migratorio venivano isolati, quando si materializzava concretamente il confine interno allo spazio educativo.
Questi brevi estratti etnografici risultano essere fortemente indicativi degli effetti che un determinato modello di insegnamento può produrre in un contesto scolastico multiculturale. La riproduzione di un confine educativo sta escludendo una porzione sempre più ampia di popolazione scolastica. Il caso preso in oggetto, in cui la componente NAI è numericamente cospicua nelle classi, mostra che nessun cambiamento si pone come naturale conseguenza dettata dalla trasformazione della società. In un ambito strutturale pervicacemente configurato lungo la divisione noi-altri sarà sempre questo confine a dettare modelli e risultati dei processi educativi.
Appare allora quanto mai necessario rompere questo {p. 176}confine educativo e produrre modalità, intenzionalità e relazionalità diverse nell’approccio al contesto multiculturale.

3. Co-costruire frontiere educative

È John Dewey che per primo introduce il concetto di frontiera educativa. Riecheggiando la tesi della frontiera di Turner [33]
come spazio di costruzione della civilizzazione americana, Dewey e il suo gruppo di studio inquadrano la frontiera educativa come avamposto di una democratizzazione della società verso cui tendere [34]
. A questa idea di frontiera educativa come spazio progressivo verso cui tendere per una società migliore se ne aggiunge un’altra nel corso del Novecento. Una frontiera come spazio di messa in discussione di un ordine costituito e come spazio di produzione di nuove configurazioni [35]
volte a costruire relazionalità e finalità educative altre rispetto a quelle su cui si fonda l’approccio educativo egemonico. È Paulo Freire che nella sua pedagogia degli oppressi inquadra l’educazione come pratica di liberazione dalle strutture sociali che riproducono la subalternità di una parte della popolazione. Paulo Freire, lavorando con i nativi brasiliani parte dal sapere incorporato dei discenti, dalla loro visione del mondo nel costruire processi educativi. La messa a valore di ciò che viene comunemente inquadrato come appartenente a un’alterità si rivela uno dei primi meccanismi atti a rompere il confine educativo [36]
. Educatori come Danilo Dolci, d’altro canto, mettono in discussione il modello depositario costruendo relazionalità come frontiere porose e permeabili tra docente e discente. Lavorando con sottoproletari nel Sud agricolo, Dolci mette in campo un processo che definisce come «maieutica reciproca» in cui mette al centro la reciprocità della comunicazione e sottopone {p. 177}a una costante messa a critica le proprie visioni del mondo, co-costruendone di nuove assieme ai discenti [37]
.
Facendo tesoro di questo arcipelago di prospettive di frontiera ho provato a costruire anch’io una frontiera educativa nell’ambito di una ricerca-azione condotta con i giovani dell’istituto scolastico di Monfalcone lungo tutto l’anno scolastico 2021-2022.
Costruire uno spazio educativo capace di mettere in crisi i modelli confortevoli dell’educazione depositaria non è certo un’attività semplice. E ovviamente non potevo farlo da solo. Durante l’anno due docenti dell’istituto hanno abbracciato la progettualità, promosso il progetto a scuola e istituzionalizzato l’intervento. Inoltre due professionisti, un filmaker e un’insegnante di teatro [38]
, hanno fornito in corso d’opera delle competenze tecniche ed educative necessarie per sviluppare il progetto. Infine il lavoro è stato portato avanti con il continuo coordinamento del gruppo di ricerca Fami Impact dell’Università di Trieste [39]
.
Il progetto è cominciato da un’idea molto semplice che ho condiviso con i docenti interessati a portarlo avanti. Facendo nostra l’idea freiriana di partire dalle visioni del mondo dei discenti piuttosto che da quelle dell’insegnante abbiamo pensato di strutturare uno spazio di espressione che desse la possibilità ai giovani di tirare fuori la propria visione del mondo. Il blog è sembrato essere lo spazio più adatto perché oltre alla scrittura, permetteva la possibilità di pubblicare materiale audiovisivo di ogni tipo. Siamo difatti partiti dalla convinzione che all’interno della popolazione scolastica della scuola presa in considerazione vi fossero delle persone interessate a mettere in pratica le loro competenze per una progettualità volta a raccontare Monfalcone, il territorio che vivevano.
Non ci eravamo sbagliati. Al primo incontro di progetto c’erano oltre 20 giovani sia con background migratorio che {p. 178}autoctoni interessati a costruire un percorso di narrazione della loro città attraverso i mezzi che più ritenevano opportuni. Il numero era impressionante considerando che gli incontri si tenevano nel pomeriggio e la partecipazione aveva carattere completamente volontario e non era finalizzata all’acquisizione di crediti o altre forme di premialità.
Questo numero iniziale è andato tuttavia scemando nella progressiva rottura dei confini educativi.
Alcuni ragazzi italiani o figli di migranti nati e cresciuti in Italia ad esempio non si riconoscevano in uno spazio condiviso con ragazzi appena arrivati e in un contesto in cui il fine non era l’emergere del singolo ma la produzione di un gruppo con obiettivi comuni. Allo stesso tempo alcuni dei ragazzi NAI facevano fatica a costruire una relazionalità e una progettualità che andasse oltre l’isola etnica nella quale erano stati ricacciati.
Nel progetto inoltre non c’erano idee preconfezionate sull’andamento del lavoro e sui prodotti da produrre e non si richiedeva altro che partecipazione fissa, rispetto per il gruppo e impegno. Porre i discenti nella posizione di produttori dei significati su cui avrebbero lavorato ha costituito certamente una forte criticità alla partecipazione di studenti disabituati a mettersi in gioco. Come afferma bell hooks, difatti, l’educazione depositaria mette in una posizione comoda tanto i docenti che non devono mettere in crisi l’autorità educativa a cui sono abituati quanto i discenti che non devono mettersi scomodi per co-creare lo spazio educativo [40]
.
La difficoltà a riconoscere immediatamente i risultati del processo in atto, un processo faticoso che abbisogna di tempi lunghi, ha infine scoraggiato molti discenti abituati nell’impostazione bancaria dell’educazione a vedere immediatamente i frutti del loro investimento.
Negli incontri si utilizzava il gruppo di parola, uno spazio di espressione in cui gli studenti parlavano dei temi vicini alla loro esperienza quotidiana, dalla scuola, alla relazione con i docenti, alle loro stesse esistenze.{p. 179}
Gli studenti non capivano cosa stessero imparando, cosa stavano producendo eppure continuavano a venire. Francesco, uno dei ragazzi promotori del progetto lo dice espressamente davanti alla telecamera per il mini documentario, a cura di Francesco Cibati, svolto sull’intera esperienza educativa: «secondo me Giuseppe ha fatto partire qualcosa di più grande di lui. Neanche lui sapeva dove stessimo andando. Lo vedevo al nostro livello» [41]
.
Una volta deciso assieme il tema portante del lavoro, un documentario sul cantiere di Monfalcone, gli studenti cominciavano a essere loro promotori del progetto. Erano loro che hanno organizzato le interviste, che hanno cercato materiale d’archivio, che hanno girato, montato e presentato il documentario.
I ragazzi, in più di un’occasione, si sono dati da fare nonostante fossero malati, hanno lavorato fino a tarda notte, spesso e volentieri si sono incontrati da soli per strutturare al meglio il progetto.
Quando le ore del progetto scolastico erano terminate il gruppo di lavoro ha deciso di continuare a lavorare incontrandosi fuori dallo spazio scolastico. Ci siamo incontrati nella biblioteca di un club frequentato perlopiù da anziani monfalconesi: anziani che sono diventati parte attiva del progetto dando una mano con gli spazi e prestandosi a interviste per la realizzazione del documentario sul cantiere.
Il blog è dunque diventato un documentario, io da prof. sono diventato Giuseppe. E in questo spazio di co-produzione del significato i partecipanti che erano chiusi nei loro modelli di vita sono pian piano diventati un gruppo di lavoro, sono nate amicizie e amori nel gruppo, i più competenti a livello tecnico o linguistico si sono messi a disposizione di coloro che facevano più fatica.
È in questa frontiera educativa che si è realizzato il progetto. Una frontiera di cui si è vista l’efficacia in uno degli ultimi giorni di lavoro svolti. Con la scuola si era con
{p. 180}venuto di effettuare una proiezione del documentario sul cantiere di Monfalcone; una proiezione rivolta alle classi dei partecipanti che avevano seguito il progetto fino alla fine. Nei giorni precedenti, durante uno degli ultimi laboratori, c’era stato un dibattito tra i partecipanti sull’opportunità di mostrare il video a scuola. Erano intimoriti dalle reazioni dei compagni di classe. Ivanka, una ragazza di origini bulgare ha detto: «questo progetto mi piace e io qui sto bene. Ma finirà. Invece con i miei compagni di classe devo starci per cinque anni» [42]
. Nelle ore precedenti alla visione del documentario, con l’équipe di ricerca immaginavamo un’organizzazione della sala in modo da proteggere i partecipanti dallo sguardo dei loro compagni di classe durante la proiezione. Quando i partecipanti al progetto sono arrivati nell’aula magna per la proiezione, tuttavia, hanno deciso autonomamente dove sedersi: sulla pedana centrale, di fronte ai loro compagni di classe, con lo schermo alle spalle. E hanno presentato da soli davanti ai loro compagni di classe il lavoro svolto. Alla fine della proiezione del documentario sono stati sommersi dagli applausi.
Note
[32] Circolare ministeriale, 19 dicembre 2022.
[33] F. Turner, The Frontier in American History, New York, Henry Holt, 1921.
[34] Dewey e Childs, La frontiera educativa, cit., p. 8.
[35] Per una revisione dell’educazione come frontiera si veda Grimaldi, La ricerca-azione scuola come frontiera, cit.
[36] Freire, La pedagogia degli oppressi, cit.
[37] Dolci, Palpitare di nessi, cit.
[38] Nelle persone di Francesco Cibati e Valentina Milan.
[39] Nello specifico nelle persone di Roberta Altin che coordinava il gruppo di lavoro, di Maria Cristina Cesaro e di Paolo Sorzio.
[40] bell hooks, Insegnare a trasgredire, cit.
[41] Tratto dal documentario diretto da Francesco Cibati a sostegno dell’esperienza educativa del progetto FAMI IMPACT FVG Monfy blog, https://vimeo.com/rawsight/monfyblog (password: Monfyblog).
[42] Note di campo, 25 maggio 2022.