Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c25
con riguardo alla riqualificazione dei servizi pubblici in materia di inclusione e accessibilità, [occorre]: 1) prevedere che presso ciascuna amministrazione possa essere individuata una figura dirigenziale preposta alla programmazione strategica della piena accessibilità, fisica e digitale, delle amministrazioni da parte delle persone con disabilità nell’ambito del piano integrato di attività e organizzazione previsto dall’articolo 6 del decreto-legge 9 giugno 2021 [...]; 2) prevedere la partecipazione dei rappresentanti delle associazioni delle persone con disabilità maggiormente rappresentative alla formazione della sezione del piano relativa alla programmazione strategica di cui al numero 1).
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A prescindere dal linguaggio «aziendalistico» che, a mio modo di vedere, mal si concilia con un’apprezzabile sensibilità in materia di disabilità, l’idea che ciascuna organizzazione sia chiamata a individuare una figura preposta alla riorganizzazione del servizio nell’ottica dell’accessibilità – in combinazione con quanto poc’anzi riportato alla lettera d) – e la previsione della partecipazione delle associazioni, anche se non è dato leggere un riferimento esplicito, lascia tuttavia ipotizzare, anche in questo caso, che tra le intenzioni del legislatore possa trovare spazio la creazione di un Punto Unico Informativo sulla disabilità, da intendersi quasi come un fisiologico esito dei processi oggetto della delega e che il legislatore invita ad attuare. Un invito che, forse è opportuno ricordare, ormai più di trent’anni fa, già la «legge quadro» n. 104/1992 aveva inserito nelle proprie previsioni, in particolare all’articolo 40 dedicato ai «compiti dei Comuni», sia al comma 1, dove si attribuisce a questi ultimi la competenza di attuare «gli interventi sociali e sanitari [...] dando priorità agli interventi di riqualificazione, di riordinamento e di potenziamento dei servizi esistenti», sia al comma 2, nel quale, più esplicitamente, si afferma che
gli statuti comunali [...] disciplinano le modalità di coordinamento degli interventi di cui al comma 1 con i servizi sociali, sanitari, educativi e di tempo libero operanti nell’ambito territoriale e l’organizzazione di un servizio di segreteria per i rapporti con gli utenti, da realizzarsi anche nelle forme del decentramento [...].
In questa breve disamina, ovviamente non può mancare un cenno alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, approvata nel 2006 e ratificata dal nostro Paese con la legge n. 18/2009. La Convenzione pone in grande risalto il tema dell’informazione e della sua accessibilità, appellandosi ripetutamente ai doveri degli Stati parte di attuarla. Sotto questo profilo, ad esempio, può essere richiamato quanto affermato nel Preambolo (specificatamente alla lettera v)) e, più in particolare, quanto esplicitato all’articolo 9 in materia di accessibilità e all’articolo 21, in materia di libertà di espressione e opinione e accesso all’informazione. Nel disegno della Convenzione, brutalizzando per esigenza di sintesi le parole del testo normativo, l’accesso all’informazione – direi, correttamente – è per lo più declinato nel senso della conoscenza degli eventi, quale uno degli imprescindibili presupposti che possano garantire una piena partecipazione sociale delle persone con disabilità. Tuttavia, senza neppure troppe forzature, non mi pare che tale declinazione precluda una lettura più estensiva che annoveri anche le tutele, i benefici e i servizi previsti dall’ordinamento a favore delle persone alle quali è (prevalentemente) rivolta la Convenzione. Anzi, semmai ne rafforza i profili, appunto in un’ottica di piena partecipazione.
Del resto, la stessa nozione di «accomodamento ragionevole», uno dei veri e propri capisaldi della Convenzione, inteso come{p. 567}
le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati [...] per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali
proprio alla luce della ratio della Convenzione, non può essere interpretata soltanto in senso letterale e restrittivo, perché se da un lato lascerebbe superficialmente pensare a un mero (per quanto necessario) intervento di modificazione materiale dell’esistente, da un altro lato, con tutta evidenza, costituisce un irrinunciabile invito a un cambio di prospettiva interpretativa dei fenomeni sociali, dal quale dovrebbero discendere nuove modalità di azione in materia di welfare, aventi per oggetto tanto le modificazioni dei luoghi fisici, quanto le loro destinazioni d’uso.
Per non tacere di quanto esplicitato all’articolo 31, avente per oggetto le statistiche e la raccolta dei dati. Tale raccolta, infatti, non ha solamente finalità speculative, ma rappresenta anche il presupposto per «formulare e attuare politiche allo scopo di dare attuazione alla [...] Convenzione». Un aspetto che viene ulteriormente sottolineato al comma 2 dell’articolo in esame, laddove si afferma che
le informazioni raccolte [...] devono essere disaggregate in maniera appropriata, e devono essere utilizzate per valutare l’adempimento degli obblighi contratti dagli Stati Parti alla [...] Convenzione e per identificare e rimuovere le barriere che le persone con disabilità affrontano nell’esercizio dei propri diritti.
Anche in questo caso, sebbene da un lato non vi sia un esplicito riferimento alla necessità di creare un PUI, quest’ultimo, da un altro lato, sembra essere l’esito più ragionevole delle previsioni di cui all’articolo 31, ovvero il luogo dove far confluire dati e informazioni provenienti da fonti differenti. Un aspetto su cui tornerò nell’ultima parte di questo contributo.

3. L’incontro con la disabilità e la «prima comunicazione»

Secondo il più recente rapporto ISTAT in materia, in Italia vi sono oltre tre milioni di persone con limitazioni gravi e tali da impedire lo svolgimento delle abituali attività quotidiane [ISTAT 2019a]. Stante questa affermazione che, tra l’altro, non tiene conto di tutte le persone che presentano limitazioni «meno gravi», è lecito supporre che vi siano altrettante persone che se ne prendono cura, come del resto, in un altro documento, afferma lo stesso Istituto Nazionale di Statistica [ISTAT 2019c]. A grandi linee, possiamo dunque affermare che la disabilità coinvolge direttamente almeno il 10% della popolazione italiana, una stima che considero per difetto.{p. 568}
Senza alcun dubbio, si tratta di un fenomeno decisamente rilevante, anche sotto l’asettico profilo numerico. Tuttavia, per quanto si tratti appunto di un fenomeno tutt’altro che infrequente, essendo una delle possibili condizioni che caratterizzano la nostra esistenza, l’incontro con la disabilità è sempre (e, direi, comprensibilmente) un evento destabilizzante e che inevitabilmente coglie impreparati i protagonisti, sia quando l’incontro avviene fin dalla nascita, sia quando, nel corso della vita e per cause diverse (malattia, incidente, senilità) il nostro corpo e/o la nostra psiche subiscono una o più modificazioni che limitano (o, comunque, rendono meno agevole) le possibilità di agire, ovvero, per richiamare le parole fatte proprie dalla Convenzione ONU, impediscono la «piena partecipazione alla vita sociale».
A prescindere dai percorsi individuali che possono sfociare nel rifiuto o nell’accettazione di una condizione «inattesa» – percorsi la cui analisi esula dalle riflessioni che ambiscono a ritagliarsi un profilo di verosimiglianza in questa sede – l’incontro con la disabilità coincide in ogni caso con un immediato cambio di prospettiva esistenziale. Le persone direttamente coinvolte si trovano cioè, dall’oggi al domani, a dover riprogettare da zero la propria esistenza, con la comprensibile difficoltà di dover trovare nell’immediato una serie di risposte ai quesiti posti dalla nuova condizione individuale (e familiare).
Come si può agevolmente comprendere, in particolare nel periodo iniziale, tale riprogettazione è tutt’altro che priva di criticità che, senza abusare di facile retorica, possiamo definire talvolta insostenibili o che comunque mettono a dura prova sia l’equilibrio psichico delle persone coinvolte, sia le loro dinamiche familiari e le loro relazioni sociali. Come è stato rilevato, infatti, «il loro impatto sulla struttura della famiglia è profondo, ed è dimostrata una elevata incidenza di depressione e stati di ansia [...] e di divorzi» [Serra et al. 2020].
Sotto quest’ultimo profilo, a mia conoscenza non esistono indagini organiche in grado di quantificare il fenomeno. In particolare, per quanto concerne le separazioni legate alla nascita di un figlio o una figlia con disabilità. Tuttavia, seppur a fronte di una evidente fragilità scientifica, sia le cronache, sia, ancor più, le testimonianze che ho avuto modo di raccogliere personalmente in quasi due decenni di lavoro «sul campo», raccontano vicende tutt’altro che episodiche e che coinvolgono soprattutto i neogenitori maschi che, appunto, al sopraggiungere di un figlio con disabilità, decidono di dare una svolta al proprio rapporto di coppia (e anche, direi, genitoriale).
Tralasciando ulteriori riflessioni sul fatto che siano prevalentemente i padri ad allontanarsi – un tema, quest’ultimo, di chiaro interesse per uno studioso dei fenomeni sociali, ma che rischia di spostarci dal focus di {p. 569}questo contributo – maggiore solidità in merito a quanto vado affermando può tuttavia essere riscontrata, ancora una volta, nei due rapporti ISTAT che ho già richiamato più sopra, con particolare riferimento alla figura del caregiver. Su questo specifico aspetto, infatti, l’ISTAT ci ricorda che nel nostro Paese si tratta per lo più di figure femminili e, più precisamente, di donne-madri sole o che, nella migliore delle ipotesi (migliore?), si occupano in maniera pressoché esclusiva di un figlio anche in presenza di un compagno o di un marito [ISTAT 2019a]. Una situazione che determina preoccupanti profili di impoverimento in capo alle donne caregiver (e ai loro figli), non soltanto in termini economici, ma anche in termini di carenza o pressoché totale assenza di relazioni sociali [ISTAT 2019c].
Con tutta evidenza, dunque, già lo snodo iniziale dell’incontro con la disabilità, non ha «solamente» un impatto significativo sul vissuto psicologico dei protagonisti, ma non di rado definisce fatalmente numerose traiettorie esistenziali caratterizzate da elevati rischi di isolamento individuale e familiare.
In questo frangente iniziale, assume un ruolo particolarmente significativo, per non dire fondante, la cosiddetta «prima comunicazione», vale a dire il momento in cui alla persona interessata e/o ai suoi familiari vengono trasmesse le prime informazioni su quanto è accaduto (laddove è possibile formulare una diagnosi) e su quali potrebbero essere (il condizionale è d’obbligo) gli esiti dell’evento.
Come è facile intuire, infatti, si tratta di un passaggio estremamente delicato, nel quale convergono simultaneamente sensibilità, aspettative, vissuti e capitali individuali differenti (per dirla con Bourdieu) e la cui conduzione (non soltanto con riferimento ai contenuti, ovvero al «cosa», ma anche in merito alle modalità, ovvero al «come») ha inevitabilmente delle ricadute sul posizionamento delle persone interessate, sia nei confronti dell’evento, sia in un’ottica di futura collaborazione medico-paziente, sia, infine, in una prospettiva più ampia che, come anticipato, non di rado sfocia in scelte esistenziali irreversibili che compromettono le relazioni tanto all’interno quanto all’esterno della famiglia.
Sotto questo profilo, riporto un lungo stralcio di un documento disponibile in rete che, più di altri, mi pare offrire un quadro molto chiaro delle questioni in gioco. Con le parole degli autori,
le difficoltà di comunicazione fra professionisti e famiglie possono emergere su due piani diversi: nel rapporto tra «gravità» (dato clinico oggettivo) e «importanza (parametro soggettivo, che varia in relazione al sistema familiare), e tra «diagnosi» (definizione certa, e primo traguardo per il professionista) e «prognosi» (spesso incerta). I genitori sono generalmente più interessati al «film» del proprio figlio, cioè all’evoluzione clinica, piuttosto che ad una sua «foto istantanea». Purtroppo però, di converso, i professionisti sanitari dispongono di pochi dati prognostici, {p. 570}spesso indefiniti e/o non conclusivi. Sono tali condizioni di incertezza e sospensione a pesare di più, e ad incidere più profondamente sulla serenità e stabilità di queste famiglie. [...]. Una buona capacità di comunicazione è riconosciuta come abilità cardine, necessaria ai professionisti sanitari per la qualità delle cure che forniscono. Questa abilità è continuamente sottoposta a valutazione da parte dei pazienti, che la considerano sempre prioritaria tra le doti del medico. Eppure, ad oggi, in Italia non è previsto per la professione medica un percorso di formazione specifico durante il corso di studi universitario rivolto all’acquisizione di capacità comunicative, né, successivamente, per il neonatologo durante la Scuola di Specializzazione in Pediatria [...].
Nel caso di un quadro malformativo che si evidenzia alla nascita, la comunicazione è particolarmente impegnativa, soprattutto in assenza di una diagnosi prenatale [...]. I genitori, infatti, in un contesto di estrema intensità e vulnerabilità, vanno informati in modo adeguato e tempestivo, e coinvolti nel percorso assistenziale. Il neonatologo si troverà a fronteggiare domande incalzanti, quali: Cosa e perché è successo? Chi ne ha responsabilità? Possono emergere altri problemi? Si possono curare? Come sarà da grande? [...] e tante altre ne emergeranno nel volgere di breve tempo. La comunicazione con i genitori nelle prime ore dopo la nascita è, quindi, ardua e spesso decisiva, e richiede immediatezza, sensibilità, esperienza e competenze adeguate. Le informazioni che sono trasmesse, il linguaggio verbale e non verbale utilizzato, il luogo e il contesto in cui ciò avviene, avranno un impatto profondo sulla famiglia per molti anni. Una cattiva comunicazione ha, infatti, un effetto a lungo termine sia sulla capacità di accettazione della diagnosi e di adattamento alla nuova situazione, che sulle relazioni che si stabiliscono tra genitori e figli. Anche la salute e lo sviluppo psicologico del bambino, dunque, ne sono influenzati a distanza [Serra et al. 2020].
I passaggi che meritano di essere ripresi in particolare sono due. Il primo è il ruolo «in prospettiva» della comunicazione. Perché se, per un verso, si sottolinea la centralità del «come» in relazione alle sensibilità e alle aspettative dei protagonisti che la ricevono, per un altro verso, merita attenzione ricordare che una buona capacità di comunicazione è, a detta dei professionisti sanitari che hanno firmato il documento di cui sopra, anche fondamentale per la qualità delle cure e, più in generale, per l’accompagnamento negli anni a seguire da parte delle figure sanitarie e non solo. Proprio in relazione a quanto appena detto, infatti, non è fuori luogo ricordare che uno dei tanti aspetti critici che connotano la prima comunicazione è che solitamente quest’ultima si risolve in un unico colloquio, in genere in sede di dimissioni ospedaliere e, tra l’altro, di breve durata; quando meglio sarebbe se assumesse le sembianze di un percorso che, oltre alla presenza delle figure mediche già incontrate in ospedale, prevedesse al contempo il contributo di altre figure specialistiche, in primo luogo psicologi e psicopedagogisti. Del resto, in linea con quanto la «vecchia» legge 104 aveva già previsto, anche in questo ambito. Basti pensare all’articolo 5, laddove al comma 1 si afferma che:
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