Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c2
Con questa soluzione, diretta a
garantire che il decentramento contrattuale, se ci deve essere, sia «metodico e
ragionevole, non scorretto e invadente»
[49]
si apre la strada
¶{p. 56}a una sfasatura fra unità
contrattuali e distribuzione dei relativi poteri decisionali all’interno del sindacato,
destinata a condizionare in futuro l’intero sistema contrattuale. A livello aziendale la
sfasatura è evidente nella assenza di poteri contrattuali della sezione sindacale, cui
fa riscontro l’esclusiva competenza del sindacato provinciale. Ma, a un grado superiore,
la stessa competenza di quest’ultimo a condurre la contrattazione aziendale esiste solo
in quanto gli sia riconosciuta dal sindacato nazionale e negli ambiti da questo previsti
[50]
. Una posizione, com’è noto, che viene sancita anche in via bilaterale nei
riguardi della controparte imprenditoriale, a partire dalle prime esperienze
generalizzate di contrattazione articolata avviate dai metalmeccanici negli anni
1962-63. Per cui in realtà il potere decisionale per tutti i livelli contrattuali,
compreso quello aziendale, risale sempre in ultima istanza al sindacato nazionale, da
cui viene ritrasferito ai gradi associativi inferiori, secondo un processo di
decentramento in senso proprio.
A ben vedere le caratteristiche
accennate della politica organizzativa e contrattuale della CISL influiscono
direttamente anche sull’aspetto più intrinseco e originale del suo messaggio, diretto a
valorizzare il momento associativo del sindacato. Per un verso, gli fanno assumere
aspetti di fatto pericolosamente ambigui, in quanto ne ¶{p. 57}mettono
in rilievo solo il profilo del vincolo istituzionale, che permette all’organizzazione di
controllare e collegare le zone periferiche, mentre trascurano del tutto il valore di
partecipazione volontaria dei soci alla formazione delle decisioni comuni e mortificano
piuttosto che favorire il confronto fra gli iscritti e la totalità dei lavoratori.
Ancora più in radice l’accentuazione
dell’aspetto burocratico gerarchico del rapporto associativo rischia di vanificare del
tutto il significato istituzionale dell’organizzazione di base del sindacato, secondo
quanto risulta già implicitamente dall’equivoco letterale delle sue definizioni sopra
riportate. In questa prospettiva rimane in ombra la stessa identificazione, pure
innegabile, della sezione con la generalità degli iscritti in azienda, per apparire
piuttosto in evidenza, come sua componente essenziale e unicamente rilevante, il gruppo direttivo
[51]
, che appunto costituisce il tramite naturale fra il sindacato territoriale e
gli iscritti dell’azienda, concepiti quali destinatari dell’azione di questo.
Una tale configurazione
dell’istituto, infine, non è certo adatta a dissipare la diffidenza che le proposte
confederali sollevano nell’ambiente sindacale del tempo. L’originario programma di
«partecipazione operaia» alla gestione dell’azienda sostenuto dal nuovo sindacalismo
confederale, appare di per sé scarsamente credibile e maggiormente ambiguo, se
confrontato con una concezione sindacale che nega ogni autonomia decisionale alla
propria base organizzata, sottraendo in definitiva la materia a un effettivo controllo
della stessa. Il lancio del nuovo organismo così concepito si espone obiettivamente ai
sospetti avanzati, specie dalla CGIL, di essere una operazione strumentale e corporativa
per avallare le iniziative separate della CISL nelle aziende, dividendo i lavoratori e
indebolendo la forza della CI, come unica struttura unitaria e rappresentativa
aziendale. In questo contesto la stessa idea più vasta del fondamento
¶{p. 58}associativo del sindacato rischia di apparire una mera
giustificazione o copertura razionale della medesima operazione, destinata in definitiva
solo a legittimare la posizione e le aspirazioni della CISL quale sindacato minoritario.
In ogni caso l’immagine offerta della sezione è la meno idonea a farla apparire agli
iscritti come loro espressione diretta e come strumento necessario per farli passare da
un «generico consenso» a una «partecipazione attiva alla vita del sindacato»
[52]
.
E il peso di una simile impostazione
dell’istituto è tanto più grave in quanto essa condiziona a lungo le tesi della CISL,
costituendone il vizio di origine più duraturo, persistente anche quando gli altri
equivoci di fondo della politica contrattuale partecipazionistica si sono andati, almeno
in parte, chiarendo.
Gli accenni fin qui svolti hanno
voluto analizzare la portata ideale del modello organizzativo e contrattuale proposto
dalla confederazione, individuandone le caratteristiche e i limiti interni. Contro le
conclusioni raggiunte non varrebbe pertanto obiettare che non tengono conto dei
molteplici obiettivi condizionamenti esterni che in quegli anni si frapponevano
all’impostazione di un programma di rilancio della presenza e dell’azione sindacale in
azienda. È fuori dubbio, e non si vuol certo negarlo, che un qualunque adeguamento
organizzativo del sindacato in questo senso doveva necessariamente trovare il suo punto
di partenza e d’appoggio principale sul piano operativo nelle strutture territoriali del
sindacato, all’inizio addirittura in quelle nazionali, che erano le uniche ad avere una
consistenza organizzativa e finanziaria sufficiente a promuoverlo. Così pure era
necessario mantenere uno stretto collegamento politico fra il sindacato esterno e i
nuovi organismi aziendali, come garanzia nei confronti di loro possibili deviazioni
aziendalistiche, e riaffermare la necessità dello stesso collegamento fra il livello
contrat¶{p. 59}tuale nazionale e gli eventuali altri gradi di
contrattazione periferica. Tanto più se si considera la generale debolezza del movimento
sindacale, dovuta alla pesante situazione politica ed economica e alle discriminazioni
padronali nelle fabbriche.
La gravità di simili ostacoli
esterni non poteva non pesare sull’attuabilità concreta della politica organizzativa in
questione e anzi poteva farla ritenere storicamente prematura, più che ideologicamente
innovatrice (come infatti osservava all’inizio polemicamente la CGIL)
[53]
. Ma essa non vale a nascondere nella stessa politica la presenza di altri e
più gravi condizionamenti ideologici, in base ai quali la priorità di fatto delle
strutture organizzative e contrattuali territoriali su quelle aziendali si tramuta in
priorità programmatico-politica e l’influenza delle prime sulle seconde va oltre le mere
esigenze di coordinamento per sostituire ogni loro iniziativa autonoma. Con il che le
contraddizioni della situazione storica non sono più viste nella prospettiva di un
superamento, bensì avallate sul piano teorico.
Un’ultima serie di rilievi su questa
originaria impostazione dell’istituto in esame deriva da un rapido confronto con le
posizioni assunte al riguardo dalla CGIL nello stesso periodo. L’atteggiamento di fondo
di tale confederazione appare caratterizzato fin dall’inizio da una sostanziale
svalutazione del problema, corrispondente a una tendenza generale, comunemente rilevata
dagli osservatori della politica della CGIL verso tutte le questioni organizzative
[54]
. La svalutazione è immediatamente avvertibile fino al 1955-56, anni in cui
la CGIL matura un ripensamento della propria iniziale avversione ad ogni politica
contrattuale articolata, per acquisirla progressivamente all’interno della sua strategia
sindacale. In questo periodo iniziale la preoccupazione della confederazione è meramente
difensiva e di rifiuto ¶{p. 60}delle tesi della CISL, delle quali si
limita a rilevare la contradditorietà con i propri postulati sindacali di fondo e le
ambiguità, conseguenti soprattutto al contesto partecipazionistico in cui esse si
pongono e al pericolo di involuzioni corporative pregiudizievoli per l’indirizzo
politico unitario della classe lavoratrice. L’attenzione pratica e teorica è invece
incentrata sulla difesa delle prerogative della CI, ritenuta di fatto, anche se mai
teoricamente, strumento esclusivo della rappresentazione collettiva a livello d’azienda
[55]
.
Nella seconda metà degli anni ’50,
la modifica dell’atteggiamento della CGIL in materia di politica contrattuale comporta
una maggiore attenzione alla presenza del sindacato sui luoghi di lavoro e alla
necessità di rilanciarla in forme organizzative nuove e più consistenti, appunto le
sezioni sindacali, la cui costituzione viene inclusa fra gli obiettivi principali della confederazione
[56]
. Nonostante ciò il mutamento di indirizzo confederale sembra ancora
incentrato prevalentemente sui problemi posti dalla articolazione della attività
contrattuale e dai contenuti di questa, piuttosto che sulla sua nuova strumentazione
organizzativa in azienda. Una simile valutazione si desume già dalle indicazioni del
tutto sommarie offerte sulla struttura e sui rapporti istituzionali con le altre istanze
del sindacato, che restano a lungo indefiniti
[57]
. Ma, soprattutto, essa risulta dall’evidente disinteresse ed esitazione
della CGIL, anche quando le indicazioni suddette si vanno chiarendo,
¶{p. 61}a prendere posizione precisa sulla posizione funzionale
dell’istituto, specie nei confronti della CI. Pur affermando anch’essa progressivamente
l’opportunità di circoscrivere i compiti di questa nell’ambito previsto dal suo accordo
istitutivo e, in particolare, di ridimensionarne l’intervento in materia contrattuale
[58]
, si continua a valorizzarne il rilievo del tutto prioritario nell’azione di
tutela collettiva in azienda e a riconoscerla come l’istituto cardine su cui puntare
anche per aumentare il potere contrattuale dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Tutt’al
più si cerca di attenuare il valore politico di tali affermazioni, giustificandole in
base a motivi prevalentemente contingenti, quali la persistente situazione di pluralismo
sindacale e la debolezza del sindacato di fronte alla controparte imprenditoriale, che
consigliano di non abbandonare, pur nella novità della politica contrattuale, l’uso di
strumenti provati dalla tradizione
[59]
. In corrispondenza con simili tesi, il problema della funzione della
sezione, di cui pure alcuni osservatori colgono l’importanza cruciale
[60]
, viene risolto in modo alquanto frettoloso, attribuendole genericamente
competenze su tutta l’attività sindacale in azienda, compresa l’elaborazione delle
{p. 62}politiche contrattuali, ma evitando in modo inequivocabile di
riconoscerle poteri decisori in materia
[61]
. Il che riduce drasticamente la novità effettiva della scelta organizzativa
operata dalla CGIL a favore dell’istituto, il quale, pur se accolto con nuove
motivazioni, resta una variante, appena più strutturata, dei vecchi comitati sindacali
di fabbrica
[62]
.
Note
[49] Così, con evidente preoccupazione, il commento di «Ragguaglio metallurgico», 1954, n. 7, p. 1 alla decisione del consiglio confederale istitutiva delle SAS.
[50] I dibattiti di quegli anni sulla distribuzione dei poteri in materia di contrattazione hanno come obiettivo storicamente più urgente di riaffermare in genere il ruolo contrattuale primario del sindacato di categoria nei riguardi alle strutture orizzontali, che allora lo detengono di fatto (vedi note 9-10), e a livello decentrato, la esclusiva competenza di questo rispetto alle CI e alle SAS. Il problema della ripartizione di competenze fra sindacati provinciali e strutture nazionali nell’ambito della contrattazione c.d. articolata diventa attuale solo coll’inizio degli anni ’60 con ravviarsi effettivo di questa. Ma la concezione della struttura contrattuale cui si accenna nel testo risulta implicitamente fin dalle tesi originarie della CISL, ove la differenziazione contrattuale appare sempre come il risultato di un decentramento di livelli, chiaramente programmato e diretto dall’alto. In tal senso sono, com’è noto, già i primi tentativi di realizzazione dell’idea nei riguardi della controparte: vedi, ad esempio, le posizioni espresse ufficialmente dalla confederazione nel 1961 alla Confindustria e allo stesso Ministro del lavoro, pubblicate in «Politica sindacale», 1961, pp. 240 sgg.; e altre indicazioni nei paragrafi seguenti.
[51] Un simile modo di travisare il senso dell’istituto è infatti alquanto diffuso nell’opinione comune, come rileva, denunciandone i pericoli, Fantoni, in «Conquiste del lavoro», 1 marzo 1958, n. 7, p. 5.
[52] Questo sarebbe stato, secondo l’espressione di Baglioni, L’istituto della commissione interna e la questione della rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, cit., p. 181, uno dei motivi dominanti del lancio dell’istituto da parte della CISL negli anni ’50.
[53] Un simile giudizio di inopportunità storica nei confronti della costituzione di istituti sindacali aziendali, nella precaria situazione sindacale italiana, è già nella relazione di Lama sui problemi dell’organizzazione, al II Congresso confederale del 1949 (I congressi della CGIL, III, cit., p. 285).
[54] Così, in particolare, Cella, Manghi, Pasini. La concezione sindacale della CGIL, cit., specialmente capp. IV-V.
[55] Vedi, in generale, la relazione Lama citata a nota 53; al congresso confederale del 1952, le relazioni di Bitossi sulla politica salariale e contrattuale e di Novella sulla politica organizzativa (in I congressi della CGIL, IV, cit., rispettivamente pp. 63 sgg. e 103 sgg.; e ancora gli articoli di Montagnana, Unità della CI per la difesa delle libertà nelle aziende, in «Rassegna sindacale», 1955, n. 1, pp. 9 sgg.; e di Giardini, Sulla nostra azione a livello aziendale, ibidem, 1956, n. 5, pp. 157 sgg. (nonostante l’autore sottolinei l’importanza del nuovo strumento di rappresentanza sindacale in azienda).
[56] Tale riconoscimento, anticipato già al convegno confederale di organizzazione del 1954, è sancito ufficialmente e con maggior chiarezza al IV Congresso nazionale del 1956 (vedi, in particolare, la relazione di Possi e la risoluzione finale sui problemi organizzativi, in I congressi della CGIL, V, Roma, s.d., rispettivamente pp. 347 sgg. e 481).
[57] Nei documenti e nei commenti ufficiali del tempo, non si va di solito al di là di formule generiche, che qualificano l’istituto come «istanza di base del sindacato» in azienda, come sua «forma organizzativa più decentrata», di cui dovrebbero far parte tutti gli iscritti al sindacato (anche se questa menzione degli iscritti è appena accennata), ecc.: vedi, in generale, i testi citati nelle note precedenti e seguenti.
[58] Vedi, ad esempio, già Boni, Sul riconoscimento giuridico delle Commissioni interne, in «Rassegna sindacale», 1956, n. 9, pp. 285 sgg., precisando che attraverso le CI il sindacato realizza «soltanto gli aspetti aziendali della propria azione e le specifiche questioni di fabbrica» e che attraverso le sezioni deve invece svolgere «i compiti più generali di orientamento e di azione» che gli sono propri; ancor più chiaramente, le proposte della Commissione nazionale di organizzazione al comitato direttivo del 20 novembre 1956, ibidem, n. 20-21, p. 576, ove i compiti della CI sono identificati con quelli previsti dal suo accordo istitutivo; l’articolo di Trespidi, Le sezioni sindacali, strumento primo di una politica aziendale, ibidem, 1957, n. 2-3, pp. 61 sgg. Ma la portata di queste affermazioni va limitata alla stregua di quanto rilevato di seguito.
[59] Cfr., con queste motivazioni, e in diretta polemica con la CISL, soprattutto, Boni, La CGIL e la CISL di fronte all’azione sindacale, in «Rassegna sindacale», 1957, n. 8-9, pp. 220 sgg.; ma anche, sulle stesse posizioni di fondo, le proposte della Commissione nazionale di organizzazione citate alla nota precedente; nonché gli articoli di Giardini, citato a nota 55; e di Tatò, I regolamenti interni d’azienda, in «Rassegna sindacale», 1956, n. 7, pp. 219 sgg.
[60] Cfr., in particolare, Trespidi, Le sezioni sindacali, strumento primo di una politica aziendale, cit.
[61] La conclusione risulta da tutti i testi menzionati nelle note precedenti.
[62] Vedi, in questo senso, i rilievi critici di Trespidi, Le sezioni sindacali, cit.; e ora, anche se con minor decisione, la ricostruzione storica di Cella, Manghi, Pasini, La concezione sindacale della CGIL, cit., pp. 110 sgg.