Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c2
L’influenza della politica
contrattuale sulle soluzioni organizzative è la più immediata e risponde a una tendenza
generalmente riscontrabile nell’esperienza sindacale, che fornisce prove costanti, pur
fra ricorrenti sfasature, della corrispondenza fra la prima e le seconde
[7]
. La necessità di una {p. 35}articolazione contrattuale
volta a rendere l’azione sindacale più adeguata alla complessa realtà industriale,
postula una revisione della struttura sindacale rigidamente accentrata propria della
tradizione italiana e riprodottasi per evidenti ragioni storiche nella ricostruzione
organizzativa del secondo dopoguerra
[8]
. Tale revisione si esprime in modi e tempi diversi a tutti i gradi
organizzativi del sindacato, ivi compresi i più elevati, investendo anzitutto gli stessi
compiti delle confederazioni e i rapporti fra strutture orizzontali e verticali. Alla
prima politica di articolazione, diretta a ridurre il ruolo contrattuale della
confederazione a favore dei sindacati di categoria, corrisponde — com’è noto — il lungo
processo cd. di «verticalizzazione», per cui questi vanno assumendo crescente autonomia
funzionale, organizzativa e finanziaria rispetto alla massima struttura orizzontale
[9]
.Così l’affermazione di livelli contrattuali inferiori a quello
¶{p. 36}nazionale impone il procedere della verticalizzazione oltre le
federazioni nazionali e l’analogo potenziamento delle organizzazioni provinciali nei
confronti di quelle nazionali, ridimensionando progressivamente le stesse funzioni degli
organismi orizzontali provinciali, che sono state nella nostra storia le strutture
cruciali del sindacato
[10]
.
Questa influenza del nuovo corso
contrattuale è più che mai chiara e assume motivi del tutto particolari di priorità in
ordine alla presenza sindacale in azienda. In ¶{p. 37}primo luogo per
ragioni storiche, in quanto fra tutti i livelli contrattuali quello aziendale è il più
radicalmente nuovo rispetto alla tradizionale politica dei sindacati italiani.
Secondariamente per ragioni funzionali, dato che la strategia rivendicativa della CISL
privilegia appunto l’impresa come luogo centrale per una azione sindacale e salariale
differenziata, più aderente alle esigenze di effettiva tutela dei lavoratori
[11]
.
Più indiretta ma non meno presente è
la connessione delle nuove proposte organizzative con l’ideologia di fondo, allora
elaborata dalla confederazione, sul ruolo del sindacato nei riguardi dell’impresa e
dell’assetto economico e sociale del paese. Alla strategia sindacale differenziata la
CISL attribuisce non solamente l’obiettivo di una più completa ed efficiente disciplina
collettiva del rapporto di lavoro, ma il fine di un mutamento qualitativo nella
posizione del lavoratore nell’impresa. La prospettiva, indicata già dalle prime
teorizzazioni e in cui confluiscono abbastanza ibridamente motivi diversi del pensiero
cristiano-sociale e della tradizione anglosassone, è «di trovare soluzione al problema
dell’impresa che concreti la valorizzazione umana del lavoro dipendente mediante la
¶{p. 38}partecipazione di esso alle responsabilità direzionali»
[12]
indicando «nuovi metodi e nuovi criteri di organizzazione delle imprese»
fondati su tale partecipazione
[13]
. A simile prospettiva si ispirano sia le proposte di istituire forme di
«consultazione mista» fra direzioni e rappresentanze sindacali, sia gli stessi criteri
fondamentali delle scelte salariali. Così è, in particolare, del legame instaurato fra
la dinamica retributiva e gli incrementi della produttività, che pur rispondente, in
polemica con la CGIL, a evidenti preoccupazioni antiinflazionistiche e di equilibrio del
sistema economico, viene teorizzato come segno di una nuova idea di salario che «da mero
prezzo» diventa «strumento capace di configurare sempre meglio il senso dell’apporto
diretto e indiretto dei lavoratori, presi singolarmente e come gruppo, al processo produttivo»
[14]
.¶{p. 39}
In questo contesto di politica
sindacale la presenza del sindacato sui luoghi di lavoro diventa non solo strumento
indispensabile per affermare una guida efficace all’azione contrattuale ma altresì
fattore fondamentale per garantire il successo degli esperimenti di partecipazione
operaia alla gestione aziendale
[15]
, ritenuti realizzabili unicamente in via di autotutela collettiva.
Ancora più latamente, questa azione
sindacale in azienda si configura come tappa fondamentale nello svolgimento di un ruolo
globale del sindacato diretto a realizzare un processo di «reintegrazione» della classe
lavoratrice a tutti i livelli dell’organizzazione sociale, dalla «comunità aziendale»
alla «comunità statuale»
[16]
. Appunto per questa via le tesi organizzative in questione si pongono come
espressione esemplare del nuovo tipo di sindacalismo proposto dalla CISL, in alternativa
anche qui con il modello «massimalista» ¶{p. 40}della CGIL, accusato di
«estraniare i lavoratori e dall’azienda e dalla società».
A questi motivi di politica
sindacale per concentrare sui luoghi di lavoro uno sforzo organizzativo prioritario,
si aggiungono altre ragioni, altrettanto pressanti, di carattere chiaramente
contingente.
Alla tradizionale debolezza
sindacale sul piano d’azienda fa riscontro, pure per lunga tradizione, una persistente
vitalità della commissione interna, che continua ad esercitare la propria azione di
tutela dei lavoratori in forme largamente non regolate o in posizione ambigua, se non
altro per la sua struttura limitata all’azienda e per la mancanza di connessioni
istituzionali con le organizzazioni sindacali. Quando non sfugge al controllo di queste,
il che è allora tutt’altro che raro, l’istituto è egemonizzato in larga misura dal
sindacato maggioritario
[17]
, che lo privilegia anche teoricamente per il suo carattere elettivo
unitario, in quanto veicolo, reale o simbolico, della generalità della classe operaia
nella sua dimensione aziendale
[18]
. La pericolosità di questa situazione per l’affermarsi dell’azione della
CISL e la sua anomalia rispetto ai presupposti della sua concezione sindacale sono
intuibili; così come sono note le critiche avanzate fin dall’inizio dalla confederazione
contro il tipo di rappresentanza realizzata dalla CI
[19]
. Tali pericolosità e motivi di anomalia sono destinati
¶{p. 41}ad aggravarsi in seguito allo sviluppo proposto dalla stessa
confederazione, e obiettivamente necessario, di un sistema contrattuale articolato a
livello aziendale. L’intensificarsi dell’azione sindacale a questo livello, rischia di
tradursi in un potenziamento sempre più difficilmente controllabile dell’istituto
unitario, che, avvantaggiato dalla sua presenza consolidata nei luoghi di lavoro, può
assumerne di fatto la direzione. Di qui la preoccupazione che proprio «nel momento in
cui nei fatti il centro gravitazionale delle politiche e delle decisioni imprenditoriali
diventa l’azienda» il vuoto del potere sindacale non venga «colmato dalla esaltazione ed
estensione delle funzioni della CI»
[20]
. Per evitare una {p. 42}simile conseguenza la via obbligata
è appunto di ridare al sindacato nell’azienda «quella rappresentatività che nei fatti la
CI rendeva aleatoria, precaria, insufficiente quando non equivoca», cioè di creare un
«nuovo tipo di struttura associativa a livello aziendale» che renda attuabile la pretesa
del sindacato di essere anche qui l’esclusivo agente contrattuale
[21]
. Solo in tal modo appare possibile ridurre la CI in una posizione conforme
al suo ambito istituzionale, limitato alla dimensione aziendale e agli interessi
collettivi quivi espressi, cioè, secondo la CISL (ma di fatto anche secondo la CGIL),
assoggettarla all’egemonia del sindacato, espressione degli interessi più generali della
classe lavoratrice.
Note
[7] Il rilievo svolto nel testo non contraddice, ma completa da un punto di vista diverso, quanto si accennava al n. 3 dell’introduzione. Se il momento organizzativo del sindacato (come di ogni gruppo organizzato) può ben ritenersi funzionale alla sua attività esterna, di lotta e di contrattazione, resta pur tuttavia, vero che esso è, per altro verso, preliminare e condizionante rispetto a tale attività esterna. Per cui, ad esempio, come si verificherà in seguito, le scelte organizzative adottate dal sindacato, e in particolare, la distribuzione dei poteri attuata fra i vari livelli della sua complessa articolazione, finiscono per influire in maniera determinante sul concreto atteggiarsi della struttura e dei contenuti contrattuali.
[8] Analisi esemplari di questa ben nota caratteristica del nostro sistema contrattuale, e in specie delle origini della tradizionale assenza organizzativa sindacale a livello di azienda, sono ancora quelle di Giugni, Prefazione a Perlman, Ideologia e pratica dell’azione sindacale, Firenze, 1956; e Esperienze corporative e post-corporative nei rapporti collettivi di lavoro in Italia, in «Il Mulino», 1956, n. 51-52, pp. 17 sgg. Vedi anche De Maria, Le basi storiche della struttura sindacale italiana, riprodotto in «Politica sindacale», 1958, pp. 252 sgg.
[9] Questa politica di decentramento organizzativo e contrattuale è stata al centro del dibattito interno alle organizzazioni sindacali fin dal periodo immediatamente seguente alla guerra e ha costituito, per diversi anni, com’era inevitabile, uno dei terreni di più evidente contrasto fra le diverse concezioni sindacali, specie delle due maggiori confederazioni. Essa incontrò all’inizio tenaci resistenze soprattutto all’interno della CGIL, ove più forte era sentita la esigenza di uno stretto coordinamento e di direzione politica, anche delle strategie contrattuali, da parte delle organizzazioni orizzontali, tradizionalmente privilegiate da questo sindacato in quanto espressione degli interessi generali della classe lavoratrice. Un riavvicinamento di posizioni fra le due confederazioni su questi temi si avvia solo nella seconda metà degli anni ’50 e può dirsi concluso nelle sue grandi linee solo all’inizio del decennio 1960. Lo sviluppo di tale processo storico all’interno della CGIL è oggetto di una ricerca organica nello studio citato di Cella, Manghi, Pasini, La concezione sindacale della CGIL, Roma, s.d. (ma 1969), specialmente pp. 79 sgg., 107 sgg., ove si possono trovare ampi ragguagli critici. Quanto alla CISL, in mancanza di una simile analisi critica, si possono utilmente vedere i documenti ordinati nel volume Per una storia della CISL (1950- 1962), a cura dell’ufficio studi CISL, Roma, 1962, pp. 65 sgg., 102 sgg., nonché ulteriori indicazioni, anche bibliografiche, nel mio scritto L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 80 sgg., 160 sgg. Più in generale, fra gli studi più completi sul decentramento contrattuale nell’esperienza sindacale italiana postbellica, si possono ricordare Merli Brandini, Evoluzione del sistema contrattuale italiano nel dopoguerra, in «Economia e lavoro», 1967, pp. 67 sgg. (ove una chiara analisi del ruolo prevalente esercitato, soprattutto fino alla metà degli anni ’50, dalle confederazioni nella conduzione dell’intera politica contrattuale, in specie salariale); Momigliano, Sindacali, progresso tecnico, programmazione economica, Torino, 1966, specialmente pp. 46 sgg.; Archibugi, Le tendenze di fondo della contrattazione collettiva, in «Politica sindacale», 1958, pp. 13 sgg., e, da ultimo, l’appendice di Romagnoli, Appunti per una storia del movimento sindacale: gli anni 1960-1970, a Horowitz, Il movimento sindacale in Italia, Bologna, 19702, pp. 557 sgg.
[10] La revisione delle funzioni degli organismi orizzontali provinciali, conseguente all’accentramento nei sindacati provinciali di categoria di sempre più vaste competenze per la contrattazione aziendale, si rivelò in prospettiva anche più radicale di quella intervenuta rispetto alle funzioni della massima struttura confederale. Si giunse infatti a mettere, talora drasticamente, in discussione lo stesso ruolo di tali organismi e la loro capacità di adeguarsi alla nuova realtà sindacale, con un processo critico che trovò anche qui il suo pieno sviluppo, anzitutto nella CISL e poi nella CGIL, durante gli anni ’60. Si vedano fin d’ora, ad esempio, il dibattito al Congresso CGIL del 1965 (in I Congressi della CGIL, VI, Roma, 1966: Relazione di Novella, p. 50; intervento di Scheda, p. 222; mozione n. 4, pp. 633 sgg.), e, nella CISL, le relazioni alla Assemblea organizzativa del 1958, Nello sviluppo del sindacato l’avvenire dei lavoratori, pp. 65 sgg., e al Consiglio generale del 1965, Linee di politica organizzativa della CISL, cit., pp. 87 sgg. Altre citazioni in seguito.
[11] Il legame fra le nuove forme proposte di organizzazione sindacale aziendale e la politica contrattuale differenziata risulta espressamente da tutte le tesi confederali sopra richiamate. Così, in particolare, al momento dell’avvio ufficiale dell’istituto, nel Consiglio generale del luglio 1954, le SAS sono presentate da Storti come gli istituti essenziali «per applicare il dinamismo contrattuale articolato» e «per l’applicazione del programma sulle relazioni umane nelle fabbriche» (cfr. «Conquiste del lavoro», 7 agosto 1954, n. 31, p. 1); e, analogamente, le dichiarazioni dello stesso Storti a uno dei primi convegni per la diffusione di questi organismi, in «Conquiste del lavoro», 17 dicembre 1955, p. 4; nonché, in termini del tutto simili, la relazione Lucchese al convegno dei rappresentanti delle SAS e delle CI di Bologna (26-27 novembre 1955), in «Ragguaglio metallurgico», 1955, n. 12, p. 1. Vedi anche, fra i tanti, l’articolo Gli ostacoli allo sviluppo della contrattazione aziendale e le possibilità del loro superamento, in «Bollettino di studi e statistiche», 1957, pp. 145 sgg., ove fra gli ostacoli allo sviluppo della contrattazione aziendale si annoverano (oltre allo scarso potere contrattuale, alla preferenza imprenditoriale per le CI ecc.) soprattutto «il ritardo e la trascuratezza che si è posta nell’assicurare la vitalità delle SAS, nel farne uno strumento di qualificata espressione dei lavoratori all’interno dell’azienda e di raccordo con la guida operativa del sindacato provinciale». La medesima connessione si ritrova, ancora, nei noti scritti di Pastore, in I sindacati in Italia, Bari, 1955, pp. 144 sgg., 173 sgg., nel contesto di una più generale sistemazione delle funzioni e dei metodi del «nuovo sindacalismo», e di De Cesaris, L’esperienza e i problemi di un movimento sindacale democratico, in «Il Mulino», 1955, p. 667, ove si sottolinea il compito della CISL di «riproporre, secondo un nuovo modo di essere, la presenza del gruppo dei lavoratori all’interno dell’impresa, in funzione di una nuova struttura del rapporto di lavoro, fondato a sua volta su una nuova struttura del salario».
[12] Le relazioni umane e sociali nelle aziende, cit., p. 28.
[13] Ibidem, p. 26. Le derivazioni storico-culturali di tale prospettiva e gli equivoci dell’ideologia ad essa sottesa sono ormai sufficientemente noti: si vedano, per tutti, i rapidi cenni di Giugni, Introduzione a Romagnoli, Contrattazione e partecipazione, Bologna, 1968 (opera che costituisce un’attenta verifica critica di una delle poche esperienze aziendali in cui si è tentata l’applicazione concreta di simili tesi). Giugni sottolinea giustamente l’eterogeneità di tale ideologia rispetto ai fini istituzionali del movimento sindacale, ma la spiega storicamente «alla luce della drammatica situazione vissuta dal sindacalismo in quel decennio» e della necessità di trovare anche in esperimenti di consultazione mista «spiragli per sortire da una condizione di isolamento» (p. 13). Sul punto vedi ora anche Pirzio Ammassari, Ricerca sugli studi di relazioni industriali in Italia, I parte, La CISL, Roma, 1970 (ciclostilato), pp. 8 sgg., che ritiene coesistere nelle tesi della CISL del tempo motivazioni politico-ideologiche di fondo e atteggiamenti meramente tattici. Va detto peraltro che, anche a ritener valida questa seconda componente, essa sembra aver pesato in modo alquanto rilevante sull’intera strategia della confederazione per lungo tempo, condizionandola di fatto largamente, nonostante da alcuni settori della stessa CISL si avvertissero sempre più chiaramente le possibili deviazioni di una politica produttivistica e i pericoli di una sua troppo acritica accettazione da parte del sindacato.
[14] Così Pastore (I sindacati in Italia, cit., p. 173), esplicitando anche i nessi di tale idea del salario con gli altri elementi sopra indicati della concezione sindacale della CISL. «Se il salario deve esprimere l’apporto dei lavoratori al processo produttivo, nessuno può negare ai lavoratori il titolo a concorrere a disporre le migliori condizioni di utilizzo di tale apporto» (p. 173). E ancora: attraverso un simile interesse «immediato e inconfutabile» della classe lavoratrice italiana «a determinare anche le migliori condizioni del suo apporto al processo produttivo» essa «finisce inevitabilmente abilitata a concrete assunzioni di responsabilità sul piano aziendale ed extraaziendale, mediante i sempre nuovi strumenti di rappresentanza del lavoro organizzato» (p. 146).
[15] «Poiché senza alcun dubbio la società moderna e ancor più le sue linee di sviluppo dimostrano che il sindacato è lo strumento rappresentativo della volontà dei lavoratori per tutti gli aspetti delle relazioni di lavoro, l’imprenditore non può sottrarsi al riconoscimento di questa realtà e deve convenire a trattare con il sindacato la istituzione di questi strumenti idonei alla realizzazione di una migliore cooperazione aziendale e di buone relazioni umane»: La politica salariale della CISL: le relazioni umane nell’industria, in «Bollettino di studi e statistiche», 1955, p. 12 (e analogamente gli autori citati a nota 11). In questa cooperazione «il conflitto tra il tradizionale “lealismo” sindacale del lavoratore e il “lealismo” di questi nei riguardi dell’impresa» deve progressivamente cessare e far posto a «una positiva convivenza» (Le relazioni umane e sociali nelle aziende, cit., p. 67).
[16] Così ancora lo scritto di Pastore, cit., sintetizzando in questo tema della «reintegrazione», un’idea centrale dell’interclassismo cattolico e applicandola nel momento essenziale dell’azione sindacale. Cfr. anche De Cesaris, Per un sindacalismo democratico, in «Cronache sociali», 1949, n. 7, pp. 18 sgg. Per una iniziale valutazione di queste tesi nel più vasto contesto dell’ideologia della CISL, vedi ora il saggio della Pirzio Ammassari, Ricerca sugli studi di relazioni industriali in Italia, cit., pp. 4 sgg.
[17] Ciò resta vero nonostante il marcato declino registrato dalla CGIL, proprio a cominciare da questi anni, nelle elezioni di CI (e del resto nello stesso numero di iscritti). Vedine una considerazione critica, ad esempio, nello scritto di Neufeld, Appunti sul funzionamento delle commissioni interne, in «Il diritto del lavoro», 1956, I, specialmente pp. 349 sgg.; e in Horowitz, Il movimento sindacale italiano, cit., pp. 481 sgg., 488 sgg.
[18] Queste posizioni della CGIL sono da ultimo sottoposte a un’efficace analisi critica da Cella, Manghi, Pasini, La concezione sindacale della CGIL, cit., pp. 114 sgg.; vedi, altresì, Paglioni, L’istituto della commissione interna e la questione della rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, cit., pp. 182 sgg., e anche, per più generali valutazioni, Momigliano, Sindacati, progresso tecnico, programmazione economica, cit., pp. 105 sgg.
[19] Cfr., ad esempio, le tesi espresse in Il sindacalo e l’organizzazione di fabbrica, cit., cap. 10, che restano per lunghi anni esemplari per la concezione dell’istituto propria della CISL.
[20] Così, la relazione al Consiglio generale del gennaio 1963, Linee di politica organizzativa della CISL, cit., p. 31. Il pericolo di una simile eventualità era reso tanto più plausibile dalla circostanza che, in quegli stessi anni, ai crescenti consensi ottenuti dalla CISL nelle elezioni di CI faceva riscontro una sostanziale stagnazione o addirittura un declino delle iscrizioni al Sindacato (vedi oltre n 8). L’affermazione delle CI sembrava così presentarsi di per sé come «uno dei parametri di crisi più significativi» del potere sindacale, confermando le tesi confederali più pessimistiche sul carattere sindacalmente equivoco della Commissione interna. (Ibidem, p. 31, e, analogamente, la relazione al III Congresso confederale del 1959, pp. 132 sgg., in Per una storia della CISL, cit., p. 90). L’eco della stessa preoccupazione è largamente presente nella stampa periodica del tempo: cfr., ad esempio, fra i tanti, il primo commento all’istituzione delle SAS, in «Ragguaglio metallurgico», 1954, n. 9 e la relazione della Segreteria al II Congresso nazionale della FIM, ibidem, n. 11, p. 2; l’editoriale di «Bollettino di studi e statistiche», 1955, n. 11, p. 2 (406); e di «Politica sindacale», 1958, n. 3, pp. 241 sgg. (Commissioni interne e potere del sindacato); nonché la relazione della segreteria al II congresso confederale (1955), Il futuro organizzativo e contrattuale del movimento sindacale, in «Bollettino di studi e statistiche», 1955, n. 6, pp. 11 (203) sgg. Già nel dibattito intervenuto a questo congresso appare peraltro evidente la presenza di posizioni differenziate sui rapporti fra CI e SAS, conseguenza di una incertezza teorica di fondo che sarà per lungo tempo rilevabile all’interno della confederazione (vedi oltre n. 6). Cfr., ad esempio, le nette riserve espresse da alcuni (Donat Cattin) nei riguardi di una eccessiva svalutazione della CI, e delle proposte, pure avanzate, di una sua progressiva abolizione, contro cui si ribadisce la necessità di «difendere il rafforzamento della CI e di collegare la nostra rappresentanza proprio attraverso la sezione sindacale di fabbrica» (Atti del II congresso, Roma, 1955, pp. 88 sgg.). A questi interventi l’on. Pastore replica assicurando che non si è «mai attribuita alla sezione aziendale la funzione di limitare i diritti e i compiti delle Commissioni interne», in quanto al contrario la SAS deve «divenire lo strumento che sorregga e protegga, in un momento tremendamente delicato, la Commissione interna sia dalle insidie del mondo padronale che del sindacato comunista» (ibidem, p. 149, ove è ancora evidente l’impostazione difensiva sopra discussa nel testo). Riserve su una interpretazione eccessivamente restrittiva del ruolo della CI appaiono pure in diversi interventi di attivisti a un dibattito aperto da «Ragguaglio Metallurgico», 1957, n. 3, p. 2 e n. 5.
[21] Le citazioni sono dalla relazione al consiglio generale, del 1963, Linee di politica organizzativa della CISL, cit., rispettivamente pp. 17 e 65.