Tiziano Treu
Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c3
Negli ultimi tempi, infine, cominciano ad apparire e ad essere attive le prime figure di delegati sindacali direttamente espresse in vario modo da gruppi omogenei di lavoratori [50]
.
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Il dinamismo manifestato dall’azione generale dei lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro si riflette in vario modo sulla posizione dei gruppi sindacali aziendali. Come si è visto, i più recenti di tali gruppi hanno origine, o riprendono vita, appunto negli ultimi due anni. Un nesso fra questo fatto e il più generale risveglio dell’attività contrattuale e di lotta sembra difficilmente contestabile ed è frequentemente instaurato dagli stessi intervistati. Più in generale, anche per i gruppi già esistenti (quasi mai peraltro di origine precedente al 1966-67) sono avvertibili a prima vista influssi positivi della nuova situazione in qualche aspetto esteriore della loro attività: ad esempio, una maggiore precisione e puntualità nel rinnovo delle cariche, nella nomina di propri rappresentanti in comitati paritetici, organi collegiali e simili. Ma gli aspetti più sostanziali di questo influsso, lungi dal correggere gli squilibri soprarilevati nel funzionamento delle sezioni sindacali, contribuiscono ad aggravarli in modo decisivo. Il fatto forse più macroscopico riguarda ancora l’attività e la consistenza dell’assemblea degli iscritti, che non registra in nessun caso sostanziali progressi rispetto ai bassi livelli tradizionalmente raggiunti. L’impegno sindacale dei soci, invece di tradursi in una più diffusa considerazione dei nuovi avvenimenti, in sede associativa, da confrontare semmai con gli altri lavoratori nel dibattito dell’assemblea generale, si esprime unicamente all’interno di quest’ultima, in maniera indifferenziata. Ciò {p. 131}mette in rilievo con evidenza accresciuta l’incapacità della SAS, come struttura associativa, di accentrare in sé una significativa azione organizzata nei riguardi degli iscritti al sindacato, che fornisca loro una sia pur minima identità nei confronti della generalità dei lavoratori. La incapacità di una simile azione e la gravità dello squilibrio fra le due istituzioni vanno poi consolidandosi con la influenza progressivamente assunta dalle assemblee generali in ordine alle più rilevanti decisioni di politica rivendicativa aziendale.
Già si è detto come l’atteggiamento nei riguardi di una simile influenza si ponga come uno dei problemi più delicati per la politica sindacale del periodo considerato, date le implicazioni radicali che esso presenta per la stessa concezione della rappresentanza sindacale. Nelle aziende in esame la tendenza delle organizzazioni territoriali interessate a riconoscere di fatto l’emergente ruolo decisionale dell’assemblea si manifesta con evidenza e con notevole rapidità. Fra la fine del 1968 e l’inizio del 1969 tale riconoscimento è ormai largamente generalizzato per le controversie aziendali di maggiore portata, ove la consultazione assembleare va diventando pregiudiziale alle proposte del sindacato e della CI, e queste vanno assumendo quei caratteri di rigidità estesi poi alla contrattazione nazionale dell’autunno 1969 [51]
. In tal modo le funzioni decisorie ritenute fino allora più significative e tali da poter rivitalizzare gli organi associativi aziendali {p. 132}risultano già in gran parte negate dalla prassi aziendale quando a livello programmatico generale si pensa ancora, dopo esitazioni ultradecennali, a trovare i modi migliori per riaffermarle.
Sostanzialmente non dissimile è il quadro se si considera l’attività dei gruppi dirigenti delle sezioni e il ruolo da essi svolto nello stesso contesto. Una conseguenza immediatamente avvertibile nella nuova situazione sindacale è stata di avviare o di accelerare il processo di avvicinamento fra gli organi direttivi delle diverse sezioni, specie FIM e FIOM, esistenti nelle singole aziende. Nella quasi totalità delle imprese considerate sono proprio gli eventi del 1968 e 1969, e in particolare le intense attività assembleari e di lotta unitaria, a determinare l’iniziale superamento della semplice «unità di azione» già da tempo sperimentata dalla categoria, e a dare corso alle prime riunioni congiunte dei direttivi sulle più importanti questioni aziendali. Anzi la pratica di simili riunioni va presto consolidandosi fino a superare in parecchie aziende le fasi acute del conflitto e ad estendersi anche a periodi piuttosto lunghi di relativa normalità [52]
. Ma se questo avvicinamento fra i vari rappresentanti sindacali {p. 133}serve a moltiplicare utilmente le occasioni di confronto fra le tesi delle diverse organizzazioni e segna un indubbio progresso nei rapporti interni fra queste, sia a livello aziendale, sia di riflesso a livello territoriale superiore, rivela evidenti limiti nei riguardi della complessa attività rivendicativa su cui i gruppi sindacali sono chiamati ad operare.
Anzitutto si riscontra sovente il limite, di cui si diceva, derivante dal carattere pur sempre saltuario di tali incontri e dal fatto che essi intercorrono fra organismi istituzionalmente differenziati e destinati a rimanere tali, legati ciascuno a direttive interne non sempre coincidenti, e per altro verso caratterizzati da gradi di sviluppo tutt’altro che omogenei [53]
. Già queste circostanze condizionano in vario modo l’azione perseguibile in comune dai gruppi aziendali, ostacolandone talora macroscopicamente l’efficacia (ove, ad esempio, i divari di consistenza delle diverse sezioni siano particolarmente accentuati); lasciando margini ad iniziative separate degli stessi gruppi, anche solo sul piano propagandistico e organizzativo, fonte ancora di attriti non infrequenti [54]
; impedendo infine di andare oltre generali verifiche delle reciproche posizioni e di elaborare linee di azione sufficientemente omogenee da poter essere presentate e difese in assemblea quali proposte comuni delle sezioni. La difficoltà di incidenza di simili iniziative {p. 134}unitarie dei gruppi in questione nei riguardi della generale azione rivendicativa in azienda, è tanto maggiore in quanto il dibattito di fronte ad assemblee non sindacali, talora tutt’altro che docili alle impostazioni ufficiali, presuppone posizioni ben più rigorosamente confrontate di quanto potesse richiedere il modo tradizionale di conduzione delle trattative in sede sindacale o di CI. Ma, soprattutto, la pratica delle riunioni congiunte non serve a supplire alla debolezza istituzionale dei direttivi aziendali, che pur sono l’espressione più attiva delle sezioni, nei riguardi sia delle nuove forme organizzative, sia di istituti consolidati quali la CI o i rispettivi sindacati provinciali.

7. Attività e agenti contrattuali in azienda.

Le manifestazioni di tale debolezza, già in parte implicite nella scarsa vitalità associativa dei gruppi aziendali, risultano chiaramente considerando la parte da questi svolta nelle più importanti funzioni sindacali in azienda. Così è anzitutto per l’attività contrattuale nelle sue varie fasi e per la connessa azione di lotta. Nessun ruolo sostanziale è svolto dalle sezioni né dai loro direttivi nella conduzione delle trattative con la controparte e nella conclusione degli accordi, che restano affidate, secondo il modello tradizionale, ai rappresentanti dei sindacati provinciali nella maggioranza dei casi, specie nelle controversie di maggiore rilievo, e alla CI ancora in misura cospicua, oltre che, in ogni caso, per le questioni più circoscritte o riguardanti l’applicazione dei contratti già stipulati. Anche quando i membri del direttivo partecipano alle trattative, ciò non avviene nella posizione di rappresentanti della sezione e con un titolo privilegiato, ma a titolo personale, come parte di una più ampia delegazione di lavoratori dell’azienda o, più raramente, in qualità di delegati del sindacato provinciale [55]
. In nessuna delle aziende considerate si registrano
{p. 135}del resto seri tentativi di modificare tale posizione delle sezioni, né nei rapporti interni, cioè riguardo alle organizzazioni territoriali e agli stessi lavoratori, né nei confronti della controparte [56]
. Il rilievo primario di una simile situazione non sta evidentemente nel mancato ottenimento da {p. 136}parte dei gruppi aziendali della qualità formale di agenti contrattuali, che di per sé può presentare un significato ridotto e non costituire neppure un obiettivo essenziale di rivendicazione. Essa è piuttosto un segno indicativo dell’incapacità dell’istituto di porsi non solo come interlocutore dell’azienda, ma anche come tramite istituzionale fra questa e la generalità dei lavoratori, nonché fra gli stessi e le organizzazioni sindacali esterne.
Note
[50] Le prime apparizioni, con riconoscimento contrattuale, dei delegati nel periodo considerato si riscontrano alla Candy, sia pure in misura alquanto limitata (l’accordo, del 10 dicembre 1968, ne prevede uno per ognuna delle sei linee di montaggio), e, più ampiamente alla Rex di Pordenone e alla Zoppas di Treviso (in numero rispettivamente di 100 e 76). In questi casi essi sono eletti direttamente dai lavoratori del gruppo (linea) in modo unitario, senza liste, ma, a detta degli intervistati, con pieno appoggio e controllo dei sindacati (specie della FIM e della FIOM). La presenza di tali nuove figure, che pur si serve ancora in larga misura della CI come tramite nei riguardi della direzione, ha una immediata influenza, qui come altrove, nel porre in dubbio l’utilità dell’istituto e nel sospenderne il rinnovo, secondo un orientamento progressivamente diffusosi all’interno della federazione e della stessa FIOM (vedi anche oltre n. 1 del cap. IV). Per altre notizie sui delegati nelle ultime due aziende vedi il resoconto di Valdevit,. nel «Quaderno di Rassegna sindacale», n. 24, dedicato ai delegati di. reparto, cit., pp. 91 sgg. Prima della fine del 1969 i delegati di linea sono istituiti con accordo in termini sostanzialmente simili anche all’Alfa Romeo (in tutta la provincia di Milano si registra nell’anno solo un altro accordo del genere). Nelle rimanenti aziende considerate la istituzione di queste figure è posteriore all’autunno 1969.
[51] L’uso dell’assemblea con simili caratteristiche decisorie, almeno sulle alternative essenziali delle piattaforme rivendicative, risulta attuato in questo periodo da 20 aziende (su 24 che presentano una avviata pratica assembleare). Analogamente comune, anzi di uso più largo e prioritario, è la scelta in assemblea dei tempi e delle forme di lotta sindacale, nonché dei relativi strumenti per la sua concreta attuazione. Anche una simile prassi è destinata ad estendersi e a consolidarsi ulteriormente fino a diventare il modo normale di conduzione dello sciopero durante i rinnovi contrattuali dell’autunno 1969. Va infine ricordato che in alcune grandi aziende esaminate (8) si riscontra in questo periodo un rinnovato uso di varie forme di referendum o di indagini fra i lavoratori sulle stesse materie oggetto di vertenze aziendali (presenti o future). Si tratta di iniziative predisposte e controllate a seconda dei casi, dalla commissione interna, da gruppi occasionali intersindacali (vedi oltre n. 9) o anche talora dai gruppi direttivi delle sezioni, che si pongono finalità di consultazione selettiva dei lavoratori e sono strettamente connesse alla pratica dell’assemblea, in cui i risultati di tali indagini devono essere discussi e vagliati (pena il rimanere generici e facilmente strumentalizzabili).
[52] Nel periodo in esame tale pratica di incontri unitari, specie con la FIOM, risulta ormai acquisita e diffusa in 27 delle 33 unità produttive oggetto dell’indagine. Restano esclusi quasi solo i casi in cui manca una presenza organizzata della FIOM sufficientemente consistente da permettere in modo proficuo simili incontri a livello d’azienda. In almeno metà di queste ipotesi gli incontri non si limitano a verifiche saltuarie delle rispettive tesi in occasione o nel corso delle trattative aziendali, ma acquisiscono carattere di pratica regolare dei due gruppi direttivi. Addirittura in 7-8 aziende le riunioni unitarie tendono a sostituire quasi completamente quelle del singolo gruppo sindacale (dando luogo per certi periodi a nuovi gruppi informali intersindacali, talora con la presenza di attivisti non iscritti, di cui si dirà oltre al n. 9). La prassi di riunioni comuni si estende a partire dalla fine del 1968 anche ai gruppi direttivi e agli operatori dei sindacati provinciali in questione. Episodica fino al maggio-giugno 1969 sui temi delle azioni contrattuali articolate (non più di 2-3 riunioni in media), essa diventa intensissima durante la preparazione e lo svolgimento della contrattazione nazionale.
[53] Per i profili accennati è più che mai palese la situazione di svantaggio che caratterizza tali iniziative dei gruppi sindacali rispetto a quelle della commissione interna, facilitata per la sua stessa natura dall’assenza di tutti questi limiti e in grado di perseguire azioni unitarie ben altrimenti costanti e anche materialmente più incidenti.
[54] In maniera separata sono svolte in generale tutte le attività delle sezioni attinenti alla loro vita interna e alla crescita dell’organizzazione come tale. Ma è evidente come tali attività non siano prive di riflessi anche decisivi sui comportamenti e sulle politiche esterne del sindacato. Si pensi, in particolare, al proselitismo e al tesseramento, alle iniziative di reclutamento dei quadri e degli attivisti, all’attività di informazione dei lavoratori tramite gli eventuali giornali di fabbrica (che in nessun caso sono ancora unificati) e gli stessi volantini (per cui la preparazione comune è già diffusa nella maggioranza delle aziende in esame, ma anche qui non senza eccezioni). Pure in questo caso gli inconvenienti conseguenti a una simile situazione non si riscontrano se non in misura marginale e indirettamente per l’azione della commissione interna.
[55] La soluzione, relativamente nuova, di far partecipare delegazioni di lavoratori alle trattative aziendali risulta diffusa, durante il periodo dell’indagine, in una percentuale consistente delle aziende considerate (10 su 33). All’interno di tali delegazioni la presenza dei membri dei gruppi direttivi della SAS risulta prevalente sotto l’aspetto quantitativo, solo in 3-4 casi. Forse in una unica azienda (Alfa Romeo) può ritenersi che la posizione di tali gruppi acquisti, sia pure indirettamente, un rilievo particolare, per il fatto che essi presenziano alle trattative non solo in modo regolare, ma anche beneficiando di permessi convenuti con l’azienda (vedi nota 37). Ciò non implica peraltro ancora un loro riconoscimento come contraenti; e nella stessa documentazione formale dell’accordo i componenti del gruppo appaiono qualificati (e firmano) come delegati del sindacato provinciale (secondo il modello normativo già storicamente esaminato: vedi n. 6 del cap. II). Una vera e propria presenza delle SAS come agenti contrattuali sembra riscontrarsi, nelle provincie considerate, in un solo caso. Si tratta di un accordo, firmato da questi organismi nel 1969 con un’azienda milanese, non compresa nel campione qui considerato (vedi la nota La contrattazione aziendale nella metalmeccanica milanese: 1967-69, in «Note e informazioni del CRES», cit., p. 23). Il riconoscimento della SAS come soggetto contraente risulta del tutto eccezionale anche in altre zone e categorie: secondo i dati raccolti da Bianchi, Sindacati e impresa, cit., p. 38, si verificherebbe in soli 12 casi su 1167 contratti aziendali considerati nel 1968. Da notare infine come la posizione della CI pur in lento declino, dimostri anche su questo piano formale di essere tuttora largamente radicata. Secondo la nota del CRES sopra citata, relativa a Milano, per il 1967 essa è agente contrattuale nel 37,5% dei casi, per il 1968 nel 21,2%, per il 1969 nel 21,0%.
[56] Le giustificazioni addotte dagli intervistati per la mancanza di concrete iniziative in questo senso sono alquanto diversificate e spesso contrastanti (anche se prevedibili). Nella maggioranza delle ipotesi si rileva la resistenza pregiudiziale sempre opposta al riguardo dalle aziende (e ancora più dalle loro associazioni) e la difficoltà anche solo di iniziare una mobilitazione dei lavoratori su un simile obiettivo di principio. In un numero non trascurabile di casi, oltre a tale motivo si menzionano lo scarso appoggio e convinzione rivelati in proposito dagli stessi sindacati provinciali; o addirittura (ma da pochi soggetti) si accenna a una vera e propria resistenza da parte di questi. Da molti infine si tende a svalutare o a nullificare la portata del problema, specie ove si possa attuare un sostanziale controllo della SAS sulla CI. Cosicché l’obiettivo da raggiungere sarebbe solo quello di una maggiore autonomia degli organismi aziendali (quali che siano) rispetto al sindacato territoriale e una più larga partecipazione dei lavoratori alle loro decisioni. Ma di solito chi avanza questa opinione finisce poi per riconoscere una effettiva differenza fra i due istituti (SAS e CI) e il diverso significato, proprio sul piano della partecipazione, della loro configurazione strutturale.