Orientarsi nell'orientamento
DOI: 10.1401/9788815411648/c8
Come suggerito dall’approccio del
Life Design [Nota e Rossier 2015; Santilli et
al. 2016], in linea con il costrutto presentato, le azioni di
orientamento dovrebbero svolgersi lungo tutto l’arco della vita e sostenere le persone a
individuare le risorse che considerano centrali, imparando a trovare le mediazioni
necessarie in termini di come, con chi, quando e dove apprendere ciò che serve per la
propria vita.
¶{p. 212}Diventa centrale la costruzione di un’identità al
plurale dove ciascuno possa sperimentarsi in più ruoli e nelle differenti
interpretazioni possibili che i rispettivi contesti sollecitano. Azioni di orientamento
efficaci dovrebbero allora non limitarsi ai momenti di transizione tradizionalmente
intesi, ma fare in modo che alcuni progressivi passaggi avvengano e vengano percepiti
come tali.
Occorre perciò ragionare in termini di longlife learning affinché ciascuno abbia le opportunità di continuare ad apprendere, ovvero sia messo nelle «condizioni migliori» per accedere a nuove conoscenze, acquisire abilità e competenze attraverso un’azione orientante in grado di promuovere capacità di riadattamento dinamico e in definitiva di autorientamento [Chiappetta Cajola 2015, 23].
Perché il riconoscimento del
progetto di vita sia sostenuto da un orientamento fondato su un capability
approach, non dovrebbe mai assumere una forma standard, né trovare
barriere negli stereotipi e nelle convinzioni sociali: la sfida è di far germogliare non
solo elementi chiaramente coinvolti, ma anche quelli occasionali, marginali, inediti che
possono far evolvere tutti i contesti scolastici in termini di benessere e
riconoscimento.
Le azioni di orientamento, in ottica
inclusiva, dovrebbero quindi promuovere la conoscenza di sé, sostenere la progettualità
futura favorendo la riflessione sulle competenze necessarie per raggiungere i propri
obiettivi, potenziare l’autoefficacia, l’ottimismo, la speranza, il coraggio e il
career adaptability, consolidare la ricerca di un diritto allo
studio e/o di un lavoro dignitoso. Di fatto molte ricerche [Creed, Muller e Patton 2003;
Germeijs e Verschueren 2007; Neuenschwander e Garrett 2008] hanno messo in evidenza come
i giovani che hanno livelli di career adaptability più alti
presentino anche maggiori probabilità di successo nell’affrontare i compiti legati alla
costruzione del proprio progetto di vita personale e professionale. Inoltre, esercitano
un’importante influenza sulle scelte scolastiche e professionali anche l’autoefficacia
[Bandura 2005; Lent, Brown e Hackett ¶{p. 213}1996] e la presenza di
sentimenti positivi [Ben-Zur 2003; Chang e Sanna 2003; Ey et al.
2005; Yarcheski et al. 2004] che entrano in contrasto con alcuni
atteggiamenti pietistici e vittimistici che spesso, non consapevolmente, si promuovono.
Tutto questo è compito della scuola
(e non da delegare ad altri attori) perché le dimensioni relative
all’autodeterminazione, all’autonomia e alla possibilità di percepirsi nel futuro hanno
bisogno di contesti sociali di apprendimento e socializzazione per diventare competenze.
La possibilità per l’alunno di vivere gli ambienti d’apprendimento in modo personalizzato e nel contempo fortemente intrecciato all’esperienza comunitaria, di svolgere i percorsi formativi che danno modo di scoprire le proprie capacità e i propri interessi incentivandoli, o al contrario annichilendoli, insieme alle condizioni per far esperienza di montaggio, smontaggio e applicazione delle conoscenze, sono alcuni degli elementi orientanti di cui si può fare «esercizio protetto» nella scuola e allo stesso tempo rappresentano gli aspetti fondamentali che sostanziano la differenza tra il vivere o il subire i contesti e le relazioni [Mura 2016, 193].
Un orientamento efficace per
studenti che si trovano a vivere in situazioni e/o condizioni di fragilità rappresenta
di fatto un’occasione per ripensare le pratiche di accompagnamento ordinarie,
un’opportunità per ciascuno di percepirsi dentro un’identità più mobile che stabile, che
permetta di diventare quello che si è e si può, di entrare in relazione con gli altri,
di realizzare i propri desideri, di trovare il proprio posto nel mondo, oltre le
categorie della mancanza, del deficit, del «non fa per me» o del «non sono in grado di».
In questa direzione
le competenze della scuola e dei servizi devono contenere flessibilità, capacità di integrazione, organizzazione di scansioni di tempi per un processo che permetta la realizzazione di un progetto di vita. Il «sostegno» deve essere evolutivo, e passare gradualmente da un rapporto duale ai sostegni di prossimità. La scuola ed i servizi, se accolgono gli «ultimi», incrementano competenze di e per tutti [Canevaro e Malaguti 2014, 99].¶{p. 214}
3. Orientare attraverso il PEI e per tutta la vita
Quanto finora sostenuto (anche
mediante l’ampia letteratura di settore), trova applicazione nel nuovo modello di PEI
(decreto 182/2020); in particolare in quello per la scuola secondaria di secondo grado
dove nel Quadro informativo (sezione 1) è possibile riportare aspetti derivanti dalla
descrizione di sé che lo studente/la studentessa ha fornito mediante interviste o
colloqui. Si tratta di una occasione che viene data a ragazzi/e «nel rispetto del
principio di autodeterminazione», come si legge nello stesso decreto (art. 3, comma 4),
e da cui vorremmo partire per sviluppare le nostre riflessioni.
In primo luogo è forte il rimando
alla prospettiva dei diritti, evidenziata dalla Convenzione sui diritti delle persone
con disabilità [ONU 2006]. Difatti, tra i suoi principi generali (riportati all’art. 3)
troviamo «il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la
libertà di compiere le proprie scelte, e l’indipendenza delle persone». Un principio,
quest’ultimo, che ricalca il celebre motto dell’UPIAS
[1]
– utilizzato più recentemente da diverse associazioni di persone con
disabilità (e loro familiari) – «Niente su di noi senza di noi» secondo cui le persone
con disabilità (studenti, nel nostro caso) devono poter esprimere i propri desideri e le
proprie scelte, autorappresentandosi.
Sul principio
dell’autodeterminazione si innesta il più articolato discorso relativo al progetto di
vita, come non mancano di evidenziare i lavori più recenti di chi da tempo si interroga
circa le modalità più efficaci per la realizzazione di un percorso evolutivo per
alunni/e con disabilità [tra questi Canevaro 2006; 2019; Cottini 2021; Giaconi
et al. 2020; Ianes e Demo 2021; Lepri 2021].
Il progetto di vita, che (come
accennato in apertura del nostro lavoro) era previsto già nelle Linee guida
per l’inte
¶
grazione scolastica degli alunni con
disabilità del 2009, trova finalmente spazio nei nuovi modelli di PEI in
quanto – per mezzo dei decreti legislativi 66/2017 e 96/2019 – diventa parte integrante
del progetto individuale (legge 328/2000, art. 14). Ma cosa s’intende con progetto di
vita? Cosa è il progetto individuale? Come, ancora, è possibile inserirli nel PEI?
Proveremo a rispondere a questi quesiti all’interno del presente paragrafo anche
analizzando le sezioni del PEI che, ai fini del nostro discorso, riteniamo essere più
rilevanti. Prima, però desideriamo ragionare sul principio dell’autodeterminazione e
comprendere il motivo per cui è così significativo nella costruzione dell’identità
personale. In un famoso testo del 2016 Lucio
Cottini, argomentando sull’importanza che i/le giovani con disabilità intellettiva
sperimentino percorsi
[2]
per sviluppare la propria autodeterminazione, sostiene che questa sia un
costrutto multidimensionale. Riprendendo la definizione di Wehmeyer [1999], afferma che
l’autonomia, l’autoregolazione, l’empowerment e l’autorealizzazione
costituiscono il comportamento autodeterminato, il quale è quindi caratterizzato dalla
capacità di scegliere, da quella di prendere decisioni, dalla capacità di
problem solving, da quella di autogestione, dalla capacità di
definire e raggiungere obiettivi, così come dalla capacità di autosostegno e dalla
percezione di controllo e consapevolezza di sé. Tutti aspetti su cui è possibile
lavorare a scuola e per raggiungere i quali crediamo che lo stesso PEI possa fungere da
strumento privilegiato. Vediamo in che modo, attraverso la riflessione sulle sezioni 1,
3, 8, 9, 11 e 12 del Piano Educativo Individualizzato.
La sezione 1 (Quadro informativo)
raccoglie la descrizione dell’alunno/a e della situazione familiare. È uno spazio libero
che va compilato da parte dei genitori dell’allievo/a con disabilità o da chi ne
esercita la responsabilità genitoriale. Il ruolo cruciale che svolge qui la scuola è
quello di far comprendere a chi lo compilerà l’importanza di raccontarsi
¶{p. 216}in maniera sincera, narrando lo studente/la studentessa e non
la sua disabilità. L’attenzione va focalizzata sulle sue caratteristiche, sui suoi punti
di forza e sui comportamenti problema (spiegando anche cosa generalmente li scatena),
così come sulle relazioni all’interno della famiglia (con eventuali fratelli/sorelle, ad
esempio, con i nonni oltre che con i genitori) e su eventuali hobby e/o sport praticati.
Cornacchia, Pipitone e Simoneschi [2021, 18] specificano che «oltre al racconto dei
genitori, si possono aggiungere indicazioni narrative di specialisti, esperti, operatori
che conoscono bene lo studente o la studentessa e possono fornire informazioni utili
riferite a interazioni in altri contesti». È a partire da questa sezione, quindi, che si
gioca la corresponsabilità educativa tra scuola, famiglia e territorio; questione
precipua per la crescita e l’evoluzione verso una vita adulta degli alunni/delle alunne
con disabilità e che andrebbe attuata sin dai primi contesti educativi rivolti
all’infanzia [Bianquin e Bulgarelli 2022; Cesaro 2015].
Inoltre, come anticipato in apertura
di paragrafo, per la scuola secondaria di secondo grado al GLO (Gruppo di lavoro per
l’inclusione) «è assicurata la partecipazione attiva degli studenti e delle studentesse»
(decreto 182/2020). Tuttavia, questo non significa che gli studenti/le studentesse
devono essere obbligati/e a farlo, ma – nel rispetto del loro diritto ad
autodeterminarsi – devono essere informati/e della possibilità che hanno (e anche
preparati/e, qualora desiderino partecipare)
[3]
. Allo stesso modo, qualora fisicamente non possano prendere parte al GLO
è possibile ideare e prevedere altre forme di partecipazione come ad esempio un breve scritto autobiografico, una narrazione libera (scritta o a voce audio-video registrata), un racconto/resoconto basato sulle risposte a interviste e colloqui fatti con insegnanti,¶{p. 217}altre figure educative o in coppia/gruppo con dei compagni, un PPT con immagini e pensieri scritti, ecc. [Cramerotti 2021, 25].
Note
[1] Union of the Physically Impaired against Segregation. Si tratta di un’associazione di persone con disabilità motoria sorta nel Regno Unito nel 1975 e alla quale, in parte, si deve lo sviluppo del modello sociale dei Disability Studies.
[2] Nel volume Cottini suggerisce anche alcune modalità e strategie di intervento da impiegare con ragazzi/e con disabilità intellettiva e relazionale affinché possa svilupparsi l’autodeterminazione.
[3] In proposito, ad esempio, se si tratta del primo GLO della secondaria, la scuola potrebbe organizzare degli incontri con i/le ragazzi/e e le famiglie in cui si illustra agli/alle studenti/studentesse cosa si andrà a fare esattamente nel GLO e come loro potrebbero prenderne parte. Ancora, Cramerotti [2021] propone di fare delle simulazioni (role playing, ad esempio), coinvolgendo anche il gruppo dei pari.