Giulia Guglielmini, Federico Batini (a cura di)
Orientarsi nell'orientamento
DOI: 10.1401/9788815411648/c8
Come suggerito dall’approccio del Life Design [Nota e Rossier 2015; Santilli et al. 2016], in linea con il costrutto presentato, le azioni di orientamento dovrebbero svolgersi lungo tutto l’arco della vita e sostenere le persone a individuare le risorse che considerano centrali, imparando a trovare le mediazioni necessarie in termini di come, con chi, quando e dove apprendere ciò che serve per la propria vita.
{p. 212}Diventa centrale la costruzione di un’identità al plurale dove ciascuno possa sperimentarsi in più ruoli e nelle differenti interpretazioni possibili che i rispettivi contesti sollecitano. Azioni di orientamento efficaci dovrebbero allora non limitarsi ai momenti di transizione tradizionalmente intesi, ma fare in modo che alcuni progressivi passaggi avvengano e vengano percepiti come tali.
Occorre perciò ragionare in termini di longlife learning affinché ciascuno abbia le opportunità di continuare ad apprendere, ovvero sia messo nelle «condizioni migliori» per accedere a nuove conoscenze, acquisire abilità e competenze attraverso un’azione orientante in grado di promuovere capacità di riadattamento dinamico e in definitiva di autorientamento [Chiappetta Cajola 2015, 23].
Perché il riconoscimento del progetto di vita sia sostenuto da un orientamento fondato su un capability approach, non dovrebbe mai assumere una forma standard, né trovare barriere negli stereotipi e nelle convinzioni sociali: la sfida è di far germogliare non solo elementi chiaramente coinvolti, ma anche quelli occasionali, marginali, inediti che possono far evolvere tutti i contesti scolastici in termini di benessere e riconoscimento.
Le azioni di orientamento, in ottica inclusiva, dovrebbero quindi promuovere la conoscenza di sé, sostenere la progettualità futura favorendo la riflessione sulle competenze necessarie per raggiungere i propri obiettivi, potenziare l’autoefficacia, l’ottimismo, la speranza, il coraggio e il career adaptability, consolidare la ricerca di un diritto allo studio e/o di un lavoro dignitoso. Di fatto molte ricerche [Creed, Muller e Patton 2003; Germeijs e Verschueren 2007; Neuenschwander e Garrett 2008] hanno messo in evidenza come i giovani che hanno livelli di career adaptability più alti presentino anche maggiori probabilità di successo nell’affrontare i compiti legati alla costruzione del proprio progetto di vita personale e professionale. Inoltre, esercitano un’importante influenza sulle scelte scolastiche e professionali anche l’autoefficacia [Bandura 2005; Lent, Brown e Hackett {p. 213}1996] e la presenza di sentimenti positivi [Ben-Zur 2003; Chang e Sanna 2003; Ey et al. 2005; Yarcheski et al. 2004] che entrano in contrasto con alcuni atteggiamenti pietistici e vittimistici che spesso, non consapevolmente, si promuovono.
Tutto questo è compito della scuola (e non da delegare ad altri attori) perché le dimensioni relative all’autodeterminazione, all’autonomia e alla possibilità di percepirsi nel futuro hanno bisogno di contesti sociali di apprendimento e socializzazione per diventare competenze.
La possibilità per l’alunno di vivere gli ambienti d’apprendimento in modo personalizzato e nel contempo fortemente intrecciato all’esperienza comunitaria, di svolgere i percorsi formativi che danno modo di scoprire le proprie capacità e i propri interessi incentivandoli, o al contrario annichilendoli, insieme alle condizioni per far esperienza di montaggio, smontaggio e applicazione delle conoscenze, sono alcuni degli elementi orientanti di cui si può fare «esercizio protetto» nella scuola e allo stesso tempo rappresentano gli aspetti fondamentali che sostanziano la differenza tra il vivere o il subire i contesti e le relazioni [Mura 2016, 193].
Un orientamento efficace per studenti che si trovano a vivere in situazioni e/o condizioni di fragilità rappresenta di fatto un’occasione per ripensare le pratiche di accompagnamento ordinarie, un’opportunità per ciascuno di percepirsi dentro un’identità più mobile che stabile, che permetta di diventare quello che si è e si può, di entrare in relazione con gli altri, di realizzare i propri desideri, di trovare il proprio posto nel mondo, oltre le categorie della mancanza, del deficit, del «non fa per me» o del «non sono in grado di».
In questa direzione
le competenze della scuola e dei servizi devono contenere flessibilità, capacità di integrazione, organizzazione di scansioni di tempi per un processo che permetta la realizzazione di un progetto di vita. Il «sostegno» deve essere evolutivo, e passare gradualmente da un rapporto duale ai sostegni di prossimità. La scuola ed i servizi, se accolgono gli «ultimi», incrementano competenze di e per tutti [Canevaro e Malaguti 2014, 99].{p. 214}

3. Orientare attraverso il PEI e per tutta la vita

Quanto finora sostenuto (anche mediante l’ampia letteratura di settore), trova applicazione nel nuovo modello di PEI (decreto 182/2020); in particolare in quello per la scuola secondaria di secondo grado dove nel Quadro informativo (sezione 1) è possibile riportare aspetti derivanti dalla descrizione di sé che lo studente/la studentessa ha fornito mediante interviste o colloqui. Si tratta di una occasione che viene data a ragazzi/e «nel rispetto del principio di autodeterminazione», come si legge nello stesso decreto (art. 3, comma 4), e da cui vorremmo partire per sviluppare le nostre riflessioni.
In primo luogo è forte il rimando alla prospettiva dei diritti, evidenziata dalla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità [ONU 2006]. Difatti, tra i suoi principi generali (riportati all’art. 3) troviamo «il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e l’indipendenza delle persone». Un principio, quest’ultimo, che ricalca il celebre motto dell’UPIAS [1]
– utilizzato più recentemente da diverse associazioni di persone con disabilità (e loro familiari) – «Niente su di noi senza di noi» secondo cui le persone con disabilità (studenti, nel nostro caso) devono poter esprimere i propri desideri e le proprie scelte, autorappresentandosi.
Sul principio dell’autodeterminazione si innesta il più articolato discorso relativo al progetto di vita, come non mancano di evidenziare i lavori più recenti di chi da tempo si interroga circa le modalità più efficaci per la realizzazione di un percorso evolutivo per alunni/e con disabilità [tra questi Canevaro 2006; 2019; Cottini 2021; Giaconi et al. 2020; Ianes e Demo 2021; Lepri 2021].
Il progetto di vita, che (come accennato in apertura del nostro lavoro) era previsto già nelle Linee guida per l’inte
grazione scolastica degli alunni con disabilità
del 2009, trova finalmente spazio nei nuovi modelli di PEI in quanto – per mezzo dei decreti legislativi 66/2017 e 96/2019 – diventa parte integrante del progetto individuale (legge 328/2000, art. 14). Ma cosa s’intende con progetto di vita? Cosa è il progetto individuale? Come, ancora, è possibile inserirli nel PEI? Proveremo a rispondere a questi quesiti all’interno del presente paragrafo anche analizzando le sezioni del PEI che, ai fini del nostro discorso, riteniamo essere più rilevanti. Prima, però desideriamo ragionare sul principio dell’autodeterminazione e comprendere il motivo per cui è così significativo nella costruzione dell’identità personale.
In un famoso testo del 2016 Lucio Cottini, argomentando sull’importanza che i/le giovani con disabilità intellettiva sperimentino percorsi [2]
per sviluppare la propria autodeterminazione, sostiene che questa sia un costrutto multidimensionale. Riprendendo la definizione di Wehmeyer [1999], afferma che l’autonomia, l’autoregolazione, l’empowerment e l’autorealizzazione costituiscono il comportamento autodeterminato, il quale è quindi caratterizzato dalla capacità di scegliere, da quella di prendere decisioni, dalla capacità di problem solving, da quella di autogestione, dalla capacità di definire e raggiungere obiettivi, così come dalla capacità di autosostegno e dalla percezione di controllo e consapevolezza di sé. Tutti aspetti su cui è possibile lavorare a scuola e per raggiungere i quali crediamo che lo stesso PEI possa fungere da strumento privilegiato. Vediamo in che modo, attraverso la riflessione sulle sezioni 1, 3, 8, 9, 11 e 12 del Piano Educativo Individualizzato.
La sezione 1 (Quadro informativo) raccoglie la descrizione dell’alunno/a e della situazione familiare. È uno spazio libero che va compilato da parte dei genitori dell’allievo/a con disabilità o da chi ne esercita la responsabilità genitoriale. Il ruolo cruciale che svolge qui la scuola è quello di far comprendere a chi lo compilerà l’importanza di raccontarsi {p. 216}in maniera sincera, narrando lo studente/la studentessa e non la sua disabilità. L’attenzione va focalizzata sulle sue caratteristiche, sui suoi punti di forza e sui comportamenti problema (spiegando anche cosa generalmente li scatena), così come sulle relazioni all’interno della famiglia (con eventuali fratelli/sorelle, ad esempio, con i nonni oltre che con i genitori) e su eventuali hobby e/o sport praticati. Cornacchia, Pipitone e Simoneschi [2021, 18] specificano che «oltre al racconto dei genitori, si possono aggiungere indicazioni narrative di specialisti, esperti, operatori che conoscono bene lo studente o la studentessa e possono fornire informazioni utili riferite a interazioni in altri contesti». È a partire da questa sezione, quindi, che si gioca la corresponsabilità educativa tra scuola, famiglia e territorio; questione precipua per la crescita e l’evoluzione verso una vita adulta degli alunni/delle alunne con disabilità e che andrebbe attuata sin dai primi contesti educativi rivolti all’infanzia [Bianquin e Bulgarelli 2022; Cesaro 2015].
Inoltre, come anticipato in apertura di paragrafo, per la scuola secondaria di secondo grado al GLO (Gruppo di lavoro per l’inclusione) «è assicurata la partecipazione attiva degli studenti e delle studentesse» (decreto 182/2020). Tuttavia, questo non significa che gli studenti/le studentesse devono essere obbligati/e a farlo, ma – nel rispetto del loro diritto ad autodeterminarsi – devono essere informati/e della possibilità che hanno (e anche preparati/e, qualora desiderino partecipare) [3]
. Allo stesso modo, qualora fisicamente non possano prendere parte al GLO
è possibile ideare e prevedere altre forme di partecipazione come ad esempio un breve scritto autobiografico, una narrazione libera (scritta o a voce audio-video registrata), un racconto/resoconto basato sulle risposte a interviste e colloqui fatti con insegnanti,
{p. 217}altre figure educative o in coppia/gruppo con dei compagni, un PPT con immagini e pensieri scritti, ecc. [Cramerotti 2021, 25].
Note
[1] Union of the Physically Impaired against Segregation. Si tratta di un’associazione di persone con disabilità motoria sorta nel Regno Unito nel 1975 e alla quale, in parte, si deve lo sviluppo del modello sociale dei Disability Studies.
[2] Nel volume Cottini suggerisce anche alcune modalità e strategie di intervento da impiegare con ragazzi/e con disabilità intellettiva e relazionale affinché possa svilupparsi l’autodeterminazione.
[3] In proposito, ad esempio, se si tratta del primo GLO della secondaria, la scuola potrebbe organizzare degli incontri con i/le ragazzi/e e le famiglie in cui si illustra agli/alle studenti/studentesse cosa si andrà a fare esattamente nel GLO e come loro potrebbero prenderne parte. Ancora, Cramerotti [2021] propone di fare delle simulazioni (role playing, ad esempio), coinvolgendo anche il gruppo dei pari.