Giulia Guglielmini, Federico Batini (a cura di)
Orientarsi nell'orientamento
DOI: 10.1401/9788815411648/c2
Partendo da recenti riflessioni concettuali che possiamo ascrivere al lavoro del Life Design International Research Group [6]
[Nota e Rossier 2015; Savickas et al. 2009], che considerano anche le riflessioni sulla casualità pianificata
[Krumboltz 1996; Mitchell et al. 1999], e gli stimoli della Teoria del caos vocazionale di Pryor e Bright [2016], con l’attenzione al cambiamento, alla natura imprevedibile del futuro, all’imprecisione associata a qualsivoglia anticipazione e rappresentazione, si giunge all’idea di orientamento inclusivo e sostenibile [Nota et al. 2020], che fa da lancio a ulteriori evoluzioni: l’orientamento diventa attento ai bambini, alle bambine, agli e alle adolescenti, ai e alle giovani, a tutti e a tutte coloro che ne hanno bisogno e che ne fanno richiesta, ai loro processi cognitivi e non implicati nelle operazioni di scelta e progettazione di scenari formativi e lavorativi futuri, densi di valori rigenerati, di schemi concettuali complessi che aiutano a immaginare futuri alternativi, inclusivi, sostenibili, equi, alla loro crescita eco-sociopolitica-professionale, con processi educativi e preventivi di lungo respiro.
Con il carattere sempre più trasformativo dell’Orientamento 5.0, potremmo dire, parafrasando McCash, Hooley e Robertson [2021], che esso «non è né una disciplina a sé stante né una sottosezione di un’altra disciplina. Piuttosto, è un campo transdisciplinare all’interno del quale si intersecano diverse tradizioni, argomenti, teorie, epistemologie e ontologie» [ibidem, 5]. Qui, a differenza di quanto si sta facendo, è necessario pensare a lungo termine e collegarsi a «movimenti» economico-finanziari e sociali non interessati al mantenimento dello status quo e a seguire unicamente le previsioni a breve e brevissimo termine pensando a ciò che probabilmente accadrà tra 3 o 5 anni. A suggerirlo, tra gli altri, sono anche numerosi e prestigiosi Premi Nobel per l’Economia, da Amartya Sen a Daniel Kahneman e Vernon Smith, da Muhammad Yunus a Abhijit Banerjee, Asther Duflo e Michael Kremer, in ragione del loro approccio sperimentale al fronteggiamento della povertà e, da noi, anche da Bruni che, sulla scia di Stefano Zamagni, è arrivato persino ad affermare, senza mezzi termini, che «la scienza economica vive l’esperienza di non avere più strumenti per leggere adeguatamente un mondo che cambia troppo rapidamente rispetto alle capacità di capirlo, e magari di {p. 66}prevedere i comportamenti economici delle persone e delle istituzioni» [Bruni 2012, 6].
Sicuramente, come gli scenari VUCA e BANI [7]
stanno suggerendo, le previsioni e i «consigli» non bastano più: alcuni spunti innovativi, da questo punto di vista, sono contenuti in quelle visioni dell’orientamento che da un po’ di tempo invitano a trattare le nostre questioni alla luce della teoria della complessità, da un lato, e a ispirarsi maggiormente, dall’altro, a quei futures studies che da tempo si interrogano a proposito di come approcciarsi a ciò che verrà.
In questa ottica le nostre pratiche non possono rimanere legate al passato e orientate a «rispondere» soprattutto al presente, a ciò che le persone e le agenzie del lavoro e della formazione si trovavano di fatto a dover e voler «offrire». Guardando troppo spesso «indietro», ai passati, ai precedenti, alle «reputazioni» delle persone e dei contesti, il futuro viene trattato come se fosse uno, un fatto, un nome, una realtà determinata, prevedibile e immodificabile, dimenticando quanto molti avevano suggerito ovvero che «The future is not a noun, it’s a verb. And we’re never going to stop futuring» [8]
, a rimarcare l’opportunità di considerarlo in modo attivo, agendo anche in funzione di ciò che vorremmo accadesse. Il pensiero futurizzante e l’orientamento che qui si auspicano vanno intesi essenzialmente come dispositivi trasformativi e generativi «richiedenti una forma mentis aperta al plurale e al possibile attraverso cui costruire nuovi {p. 67}paesaggi di convivenza, quadri concettuali collettivamente desiderabili capaci di formulare nuove risposte alle emergenze sociali del presente» [Bertazzoni e Robiati 2021, 2]. Ci si inserisce all’interno della prospettiva del famoso Futures Cone [Voros 2003; 2017; vedi fig. 1] che ci sembra particolarmente indicata per invitare, anche gli adolescenti, a considerare l’orientamento al futuro al plurale evitando di soffermarsi in modo miope a interessarsi unicamente a quello più vicino, «raccomandato» e garantito dai mercati della formazione e del lavoro. Qui, invece di limitarsi a considerare quali scuole o professioni scegliere e accettare, si invita anche a pensare ai problemi che «ci intrigano» maggiormente, a quelli che decidiamo diventino anche nostri veri e propri wicked problem [9]
, sfide che si ritiene opportuno accettare e intraprendere, consapevoli della necessità, al riguardo, di coltivare alleanze per fronteggiare le wild card e per puntare {p. 68}all’individuazione e a un uso fruttuoso e condiviso di quei jolly che i futuri in ogni caso continueranno a riservarci.
Fig. 1. Rappresentazione del Futures Cone di Voros.
Fig. 2. Tempi, determinanti, fasi e step per un Orientamento 5.0.
Così l’orientamento assume finalità preventive e anticipative e si impegna a coinvolgere soprattutto i giovani, a «immaginare» l’inimmaginabile, a pensare utopie realistiche… «perché essi in definitiva sono l’avvenire stesso […] e saranno in grado di mostrarci altre vie da battere, altre scelte da prendere» [Fondazione Peccei 1992, 205].
Per queste ragioni l’Orientamento 5.0 non indica quali discipline studiare, quali corsi riuscire ad intercettare pensando al prossimo anno accademico, o presso quale ateneo di eccellenza è maggiormente vantaggioso iscriversi, o, ancora, quali competenze professionali conviene mettere a disposizione dei mercati. L’Orientamento 5.0 ricorre a un altro vocabolario e propone altre modalità di intervento preferendo impegnarsi a insegnare a occuparsi di problemi e difficoltà condivise, a processare le informazioni, a difendersi dalle pubblicità ingannevoli e dalle bufale, a pensare non solo ai futuri molto probabili, ma anche a quelli possibili e desiderabili da e per tutti e tutte. Considerare tutto questo e puntare addirittura ai futuri desiderabili non è ovviamente semplice, né facile: ci vuole tempo, pazienza, supporti e collaborazioni, ma anche tante risorse, energie e competenze… Tra queste, purtroppo, ve ne sono alcune {p. 69}che sarebbero particolarmente importanti e che dovrebbero essere oggetto di specifici laboratori di orientamento che, in altre sedi, sono stati già presentati e raccomandati in ambito anche di formazione di coloro che desiderano occuparsi professionalmente delle scelte e delle progettazioni professionali [Soresi 2022; Soresi et al. 2009].
Ricordiamo quelle necessarie a comprendere e fronteggiare gli stereotipi, a narrarsi e parlare in pubblico, a porre le «domande giuste» per comprendere eventi, comportamenti situazioni e, anche, per immaginare, smontare e rivedere scenari e progetti, a sintetizzare i messaggi, ad ascoltare in modo attivo, a gestire il tempo; a trasferire le conoscenze in contesti diversi, a negoziare, a manifestare empatia, umiltà, a collaborare, a fare da coach, ma anche a come farsi e fare coraggio, come praticare l’attivismo, come manifestare la propria indignazione, come assumere rischi, come tendere al cambiamento e all’innovazione; come esprimere la propria agency, passione, ottimismo, cosmopolitismo, come minare le ortodossie, e come sostenere la giustizia sociale e ambientale [Nota et al. 2020].

3. Laboratori di Orientamento 5.0

L’Orientamento 5.0, quello che vorremmo vedere più spesso praticato, richiede di fatto alle scuole, dalle primarie all’università, l’importante compito di stimolare, proporre e supportare la realizzazione di laboratori di orientamento. Esso ci suggerisce, innanzitutto, di evitare di rifarsi a indicazioni e standard non validati scientificamente, e di puntare alla massima personalizzazione possibile considerando le determinanti ambientali, culturali e personali dei singoli studenti e studentesse al fine di scegliere modalità effettivamente complesse di lettura dei loro presenti e delle preoccupazioni proprie e delle comunità di riferimento. L’analisi delle preoccupazioni e dei problemi rappresenta quello che in altre sedi abbiamo considerato il primo passo, l’avvio di qualsiasi proposta interessata effettivamente a dare significati lungimiranti alle aspirazioni, alle intenzioni e ai propositi di
{p. 70}natura anche scolastica e professionale. I laboratori 5.0, in tal modo, dovranno curarsi soprattutto di come facilitare l’anticipazione di futuri possibili e desiderabili allenando i partecipanti a ricorrere al pensiero anticipatorio e controfattuale, al pensiero prospettico [Gardiner e Goedhuys 2020], all’immaginazione e alla produzione di scenari futuri desiderabili, e di come stimolare «mappe e progetti» orientati alla qualità per tutti e tutte e per i nostri contesti di vita sociali e ambientali presenti e futuri. In questi laboratori a tal fine si può partire sollevando domande «diverse»: «Secondo voi, quando inizia il futuro? Inizia per tutti alla stessa ora?»; «Secondo voi fra un po’, ci sarà un “buon lavoro” per tutti?; Voi lo troverete?; Vi interesserà veramente?; Vi consentirà di guadagnare a sufficienza per condurre una vita dignitosa?; Sarà utile?; Vi darà prestigio?; Vale ancora la pena studiare tanto e andare all’università?; E che ne sarà dei vostri amici, dei vostri familiari tra 10, 15, 20 o 30 anni?; E della vostra e della loro salute e felicità? Avremo ancora tanti immigrati? Guerre?»; «Ci saranno ancora discriminazioni, diseguaglianze, emigrazioni di masse?», «Popolazioni che muoiono di fame e pestilenze?»; «Riusciremo finalmente a contenere la crisi climatica o i nostri ambienti naturali di vita collasseranno più o meno definitivamente?»; «Le macchine, i robot, l’intelligenza artificiale saranno a nostro servizio o ci limiteranno spazi e libertà?»; «E per tutti questi interrogativi il nostro programma di orientamento scolastico e professionale come potrà essere organizzato? Cosa dovrà prevedere?».
Note
[6] Il gruppo, su iniziativa di Mark Savickas, grazie a una serie di incontri di lavoro svoltisi tra il 2006 e il 2008, giunse alla stesura di un position paper che, tradotto in diverse lingue, risultò essere, nel 2009, il lavoro maggiormente citato e consultato nelle riviste internazionali di career counseling.
[7] L’acronimo è stato usato per la prima volta nel 1987 per riferirsi alle teorie di leadership di Warren Bennis e Burt Nanus. Successivamente, come noto, è stato adottato anche dallo United States Army War College per descrivere la realtà globale dopo il crollo dell’Urss e la fine della Guerra Fredda. Più recentemente l’antropologo e futurista americano Jamais Cascio ha suggerito di sostituire l’espressione VUCA con BANI facendo esplicito riferimento all’incremento di alcuni preoccupanti impatti derivanti anche dalla recente pandemia: Brittleness (fragilità), Anxiety (ansia), Non-linearity (non linearità) e Incomprehensibility (incomprensibilità) che renderebbero ancor più vulnerabili persone e contesti e «deboli» le loro previsioni di crescita.
[8] In effetti si tratta di una frase difficilmente attribuibile a un unico autore: affermazioni simili si trovano in Bruce Sterling, Oscar Wilde, R. Buckminster Fuller, Paul Thek e in molti altri.
[9] Ci sono, come noto, problemi e problemi; quelli di cui si occupano le scienze interessate al benessere delle persone e dei loro ambienti sociali e naturali di vita sono spesso classificabili come semplici, complessi o malvagi. Sia quelli semplici che quelli complessi sono «risolvibili» essendo di fatto affrontabili con strategie risolutive idonee. I wicked problems come li hanno definiti Rittel e Webber [1973], quelli bastardi e ribelli, come in altre sedi Soresi [2022] ha preferito chiamarli, sono invece generalmente mal formulati, non ammettono un’unica soluzione e richiedono visioni e strategie multiple come sono di norma gran parte delle questioni che interessano la sostenibilità, la pace, la salute, il lavoro e l’educazione. Il tentativo di affrontare problemi malvagi usando metodi lineari tradizionali porta all’analisi parziale, nella migliore delle ipotesi, e all’inganno che il problema è stato risolto [deMattos, Miller e Park 2012].