Marina Calloni (a cura di)
Pandemocrazia
DOI: 10.1401/9788815411297/c6
A raccomandare questa prospettiva critica sono proprio gli esiti paradossali della sovrapproduzione normativa che si è
{p. 132}registrata durante la pandemia e la «frenesia tassonomica» che l’ha accompagnata: sin dalla cosiddetta «Fase 1» il governo politico della crisi sanitaria in Italia è stato caratterizzato da una sovrapproduzione normativa a fronte di una proliferazione e sovrapposizione delle sue fonti e dei relativi strumenti [8]
, dagli ormai noti decreti del presidente del Consiglio dei ministri alle ordinanze comunali, passando attraverso i decreti-legge del governo, le circolari ministeriali e del Dipartimento di protezione civile [Drigo e Morelli 2020].
A fronte del ricorso della decretazione d’urgenza, in ambito giuridico e costituzionale è stato osservato come:
Molti dei decreti-legge adottati per fronteggiare le ricadute economico-sociali dell’emergenza presentino un contenuto estremamente disomogeneo, unificabile solo sotto il profilo teleologico. Ora, […] tale circostanza non è nuova con riferimento alla decretazione d’urgenza, ma nell’attuale contesto non è difficile preconizzare scenari nei quali non solo il vaglio parlamentare in sede di conversione diverrà sempre più superficiale, ma il concetto stesso di omogeneità del contenuto dei decreti-legge assumerà un significato ancor più labile, ad uso e consumo del Governo e, forse, della stessa Corte costituzionale [Francavigia 2020, 370].
Benché non siano certo mancati giudizi ancora più severi circa i presupposti e la forma giuridica adottata per sospendere diritti costituzionali e relegare in subordine il ruolo del Parlamento [Cammelli 2020, 400], nel corso di questo contributo si intende privilegiare l’analisi degli effetti generati a livello di politiche di sicurezza urbana dalla sovrapproduzione normativa occorsa durante l’emergenza sanitaria.

4. Le politiche di sicurezza in tempi di emergenza sanitaria

La pandemia da Covid-19 ha fortemente influenzato il modo in cui le istituzioni deputate alla tutela della pubblica sicurezza hanno potuto svolgere le proprie funzioni nel {p. 133}corso degli ultimi due anni. In termini generali, i cambiamenti intercorsi hanno riguardato, da una parte, le priorità che hanno orientato l’attività degli operatori di polizia nei territori di loro competenza e le modalità di svolgimento dei compiti di policing e, dall’altra parte, la necessità di ripensare il modello organizzativo di riferimento – in termini di catene gerarchiche, ruoli, mansioni, procedure, divisione del lavoro, ecc. – e di tradurlo in nuovi saperi e attività di tipo formativo. In altre parole, i corpi di polizia hanno dovuto fronteggiare le molteplici insidie generate dalla pandemia, dimostrando una capacità reattiva tale da trasformare questo evento drammatico in un’opportunità per ripensare e, in parte, ridefinire le modalità di assolvimento delle funzioni di pubblica sicurezza. Il compito a cui sono stati chiamati gli agenti e i dirigenti di queste istituzioni, dunque, è stato molto complesso, avendo imposto la necessità di fronteggiare simultaneamente richieste molto diverse: dalle domande – vecchie e nuove (queste ultime derivanti dalla diffusione dei contagi e dei rischi connessi alla pandemia, oltre che dai nuovi bisogni innescati dalle restrizioni alla mobilità, soprattutto nelle componenti più fragili della popolazione) – provenienti dalla cittadinanza [Sandrin e Simpson 2021], alle richieste del governo centrale e degli enti locali in relazione all’attività di controllo delle restrizioni alla mobilità personale introdotte da una pletora di provvedimenti normativi varati con un ritmo a dir poco frenetico; dalla necessità di garantire, anche nei momenti di maggiore diffusione del virus, servizi minimi di sicurezza e, più in generale, una presenza rassicurante sul territorio, alla tutela della salute degli operatori e delle loro famiglie. Una pluralità di esigenze, dunque, che ha imposto alle forze dell’ordine una risposta multidimensionale, di cui andiamo ora ad analizzare tre aspetti rilevanti: 1) gli adattamenti, sul piano organizzativo, introdotti dai dirigenti degli uffici al fine di prevenire e/o limitare la diffusione dei contagi all’interno dei corpi di polizia; 2) le scelte effettuate sul piano logistico e operativo per assicurare il rispetto dei d.p.c.m. che hanno costantemente modificato le restrizioni {p. 134}imposte alla mobilità delle persone, le regole relative alla chiusura temporanea di una serie di attività economiche e di pubblici servizi, le modalità di accesso ai pubblici esercizi considerati di prima necessità (farmacie, negozi di alimentari, supermercati, aziende e uffici, ecc.), gli obblighi relativi all’utilizzo dei dispositivi di limitazione del contagio (mascherine, gel disinfettante), oltre alle regole di comportamento atte a prevenirne la diffusione (distanziamento interpersonale); 3) i cambiamenti nella percezione del proprio ruolo e nella definizione dei propri compiti istituzionali da parte dei dirigenti delle istituzioni di pubblica sicurezza, con particolare attenzione a una riscoperta di funzioni più propriamente sociali svolte dalle forze dell’ordine in termini di «polizia di prossimità».
Per ragioni di spazio, ci concentreremo soprattutto su quest’ultimo punto, cercando di mostrare se, e in che misura, la situazione eccezionale che le istituzioni pubbliche operanti nel campo della pubblica sicurezza si sono trovate ad affrontare abbia significativamente modificato la loro agenda di priorità, la percezione del proprio ruolo e dei propri compiti istituzionali, accanto alle linee di indirizzo che dovrebbero orientare le prassi seguite da chi opera sul campo.

5. Urbanizzazione, espansione, burocratizzazione ed evenemenzializzazione della sicurezza

Prima di illustrare in forma sintetica l’impatto che la pandemia ha avuto sulle politiche e sulle prassi connesse alla sicurezza urbana, può essere utile richiamare alcuni processi che nel corso dei tre decenni precedenti hanno caratterizzato l’affermarsi del tema della sicurezza come snodo cruciale per l’azione di governo e l’esercizio del potere politico.
Un primo aspetto ha riguardato la contrazione del peso relativo della dimensione sociale della sicurezza – che aveva invece caratterizzato i cosiddetti trente glorieuses – a tutto vantaggio della sua dimensione civile [Castel 2004]. Anche l’Italia, infatti, a partire dagli anni Novanta, è stata interes{p. 135}sata da questo cambiamento, sostenuto dal susseguirsi di campagne di allarme sociale sulla microcriminalità diffusa e sul degrado delle città che si sono presto diffuse in tutto il Paese [Battistelli 2019; Maneri 2013].
A seguito di ciò, complesse questioni relative alle forme di convivenza urbana e alle priorità che dovrebbero orientare l’azione di governo dei territori sono state colonizzate da un discorso «sicuritario», imperniato sull’identificazione di una minaccia specifica – che di volta in volta si è incarnata in comportamenti e soggetti devianti e/o criminali – accusata di mettere a repentaglio un bene pubblico fondamentale per la cui tutela è stata richiesta a gran voce dall’opinione pubblica – e promossa dalla politica – l’attivazione di varie forme di prevenzione situazionale [Palidda 2016]: da una maggiore visibilità delle forze di polizia nello spazio urbano, culminata, a partire dal 2009, con l’impiego dell’esercito nell’operazione «strade sicure», alla presenza capillare di sistemi di videosorveglianza che in anni recenti hanno fatto un salto di qualità grazie all’impiego di tecnologie che sfruttano IA e machine learning.
Parallelamente, hanno avuto luogo due importanti cambiamenti nella qualificazione del bene da tutelare: in primo luogo, la sicurezza da pubblica – e, in quanto tale, prerogativa delle istituzioni centrali e dominio esclusivo delle forze di polizia nazionali – si è «urbanizzata», divenendo una preoccupazione onnipresente nella vita politica locale [Ceretti e Cornelli 2013]; in secondo luogo, grazie alla distinzione tra insicurezza reale e insicurezza percepita [Roché 1993], i dibattiti pubblici che l’hanno riguardata si sono sviluppati per lo più indipendentemente dai riscontri oggettivi (statistiche ufficiali) sull’andamento della criminalità.
Nel corso del tempo, inoltre, non pochi problemi sociali (immigrazione, degrado delle periferie, traffico, solo per citarne alcuni) sono stati ridefiniti e affrontati con riferimento al frame della sicurezza, innescando un processo di securitization dell’amministrazione pubblica [Buzan, Waever e Wilde 1998], al quale hanno fatto seguito una parziale spoliticizzazione e una burocratizzazione dell’agenda di governo. Secondo Borraz e Le Galès, infatti, la costruzione {p. 136}discorsiva della città come luogo esposto a una molteplicità di rischi, che la governance urbana dovrebbe gestire per garantire un bene pubblico politicamente neutro [Zedner 2009], può essere interpretata come uno sforzo per depoliticizzare i problemi pubblici, per suggerire soluzioni tecniche a questioni spesso complesse e conflittuali e per promuovere un approccio «moderno» alla risoluzione dei problemi urbani [Borraz e Le Galès 2010, 26].
Queste trasformazioni sono avvenute parallelamente a una ridefinizione delle prerogative, degli ambiti di intervento, delle forme di cooperazione e di divisione del lavoro, oltre che delle linee di conflitto tra poteri pubblici operanti a livello centrale e locale. A questo proposito, vanno sottolineati due aspetti: da un lato, l’affermarsi di un discorso pubblico dominante che estende la cornice sicuritaria a molti aspetti del governo della città e la conseguente attribuzione di un ruolo sempre più importante al governo locale hanno favorito un parziale trasferimento di poteri decisionali dalle autorità nazionali a quelle locali [Menichelli 2015]; dall’altro lato, sono state attivate, nel corso degli ultimi due decenni, nuove forme di cooperazione tra istituzioni centrali e locali: dai «Patti locali per la sicurezza», stipulati tra il Ministero dell’Interno e le amministrazioni municipali con l’obiettivo di dare sostanza al coinvolgimento delle comunità locali nella generazione di politiche urbane attraverso forme partecipate di produzione del bene pubblico [Quassoli e Colombo 2016], all’accresciuta visibilità e rilevanza dei Comitati provinciali per la sicurezza e l’ordine pubblico in quanto ambito interistituzionale di confronto e coordinamento tra tutte le istituzioni che, rispetto a un determinato territorio, hanno competenze e responsabilità nel campo della sicurezza.
Un ultimo aspetto, di particolare interesse in relazione al carattere eccezionale della pandemia ma che finora ha investito solo alcune grandi aree metropolitane (Milano e Roma), riguarda i grandi eventi e le misure approntate in relazione alle minacce che fino al 2020 provenivano soprattutto dalle reti terroristiche internazionali. Se consideriamo quanto è accaduto in occasione di Expo 2015, possiamo
{p. 137}identificare due ulteriori cambiamenti: un primo, che ha riguardato la necessità di rafforzare il coordinamento e la divisione del lavoro tra tutti gli attori in campo – forze di polizia e istituzioni di governo locali e nazionali, procure della Repubblica, protezione civile, strutture sanitarie, ecc. – grazie alla «cabina di regia» garantita dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza assieme al tavolo tecnico a esso collegato e coordinato dal questore, responsabile della sicurezza a livello provinciale; un secondo, che ha comportato l’adesione a nuovi modelli di gestione del rischio con particolare riferimento alla diffusione di una cultura del rischio condivisa entro le organizzazioni coinvolte [Rose 2000] e al passaggio da un approccio preventivo, tipico delle forze dell’ordine, a uno precauzionale, caratteristico dell’ambito militare [Battistelli 2016].
Note
[8] A inizio aprile 2020 si potevano contare 228 provvedimenti del governo e dei vari ministeri, 339 ordinanze regionali e 40.000 comunali [Celotto 2020].