I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c3
Non si ignorano, naturalmente, le obiezioni che si potrebbero formulare alla proposta avanzata. È stato sostenuto, in particolare, che sarebbe «grande in Italia l’incertezza nella previsione del tasso d’inflazione», cosicché «i sindacati si dovrebbero cautelare commisurando gli aumenti richiesti del salario nominale sempre alla più alta delle previsioni disponibili»
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. La conseguenza, evidentemente, si esporrebbe a valutazioni in termini negativi dal punto di vista del contenimento dell’inflazione. Occorre precisare, però, che non si tratta affatto di una conseguenza inevitabile. I sindacati, infatti, potrebbero ben modulare le rivendicazioni salariali in conformità alla dinamica inflattiva realisticamente prevedibile, qualora potessero disporre, almeno nella fase iniziale di sperimentazione del funzionamento del nuovo sistema di negoziazione delle retribuzioni, di una clausola di garanzia, a tutela del valore reale dei salari e ad azionamento automatico, una volta che l’inflazione effettiva si fosse spinta al di là della soglia di quella programmata. Si tratterebbe, com’è evidente, di un capovolgimento nella logica dell’indicizzazione: quest’ultima, da elemento
¶{p. 337}caratterizzante del sistema salariale, verrebbe ridotta al rango di aspetto eventuale, «meccanismo potenziale di difesa»
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delle retribuzioni, destinato, in condizioni di sostanziale normalità del ciclo economico, a restare inattivo.
Un modello di protezione del valore reale delle retribuzioni, quale quello ipotizzato, non sarebbe, del resto, privo di precedenti. Al contrario, esso trova un preciso termine di raffronto nell’esperienza inglese dei Threshold agreements, introdotti in quel sistema salariale nei primi anni ’70 e concepiti, al tempo stesso, «come uno strumento per preservare i salari reali contro la rapida inflazione dei prezzi e come un metodo di riduzione del tasso d’inflazione»
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Dei Threshold agreements si è detto che costituivano «una forma condizionata di indicizzazione, qualcosa di simile a un’altra variante, la “clausola di riapertura”»
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. Il rilievo può considerarsi esatto, con l’essenziale precisazione, però, che, mentre in presenza di clausole di revisione l’entità dell’adeguamento salariale non è sicura e dipende dall’esito della rinegoziazione, nel modello dei Threshold agreements e, comunque, in quello qui prospettato, il mantenimento del potere d’acquisto inizialmente concordato delle retribuzioni è automaticamente assicurato.
Più recentemente, un’ipotesi affine a quella evocata sembra essere stata accolta nell’Accordo Economico-Sociale stipulato in Spagna nel 1984. Da noi ha formato oggetto di un’elaborata proposta di riforma della scala mobile
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. Proprio l’esempio dell’ac¶{p. 338}cordo spagnolo, si può aggiungere, può servire a ribattere un’altra delle prevedibili critiche, quella secondo cui l’affidamento integrale alla contrattazione periodica del compito di tutelare i salari reali implicherebbe il passaggio a un sistema di negoziazione annuale delle retribuzioni. Anche questa conseguenza, in realtà, (se non desiderata) appare evitabile. La cadenza della contrattazione, anzi, potrebbe restare fissata su base triennale, stabilendosi anticipatamente l’entità degli incrementi retributivi da corrispondere all’inizio di ciascun anno in corrispondenza ai tassi di inflazione previsti e, naturalmente, il funzionamento della clausola di garanzia tutte le volte che fosse necessario
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.
Nello schema di negoziazione delineato resterebbe, comunque, ancora insoddisfatta quella che è stata individuata — si capisce, dall’angolo visuale delle organizzazioni sindacali — come la terza, ineludibile, esigenza di una politica salariale: il mantenimento di un grado accettabile di controllo sulle retribuzioni di fatto. Al riguardo, si deve però tener conto che il soddisfacimento di tale esigenza non dipende dall’esistenza, o meno, di meccanismi di indicizzazione, ma, piuttosto, dalla concezione generale che anima l’azione sindacale. Si vuol dire che l’innegabile perdita di controllo sindacale sui salari di fatto verificatasi negli ultimi anni, tanto più grave perché largamente imputabile ad elargizioni unilaterali fondate, a differenza del passato, su «criteri in qualche modo accettati»
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dai lavoratori, è dipesa dal carattere esasperato impresso alla politica di centralizzazione negoziale. La clausola di blocco della contrattazione salariale aziendale contenuta nell’ac¶{p. 339}cordo del gennaio ’83, in altre parole, non costituiva una conseguenza necessaria della scelta in favore di una politica dei redditi: essa, semmai, è stata il frutto di una conoscenza approssimativa delle esperienze reali in materia (o forse, verrebbe fatto di pensare, di zelo da neofiti). É stato, infatti, ampiamente dimostrato che, laddove la politica dei redditi è pratica abituale, lo slittamento salariale, gestito dalla contrattazione aziendale, è accettato non come una devianza, ma come un tratto fisiologico del sistema di relazioni industriali
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. La sottovalutazione di questo elemento essenziale ha condotto, e potrebbe ancora condurre in assenza di una puntuale iniziativa rivendicativa a livello decentrato, a concepire la politica salariale, «in un periodo di intensi processi di trasformazione e di segmentazione professionale del mercato del lavoro, come una camicia di forza il cui prezzo è la perdita di contatto con le realtà più dinamiche, con gli strati di lavoratori più legati all’innovazione»
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Il riferimento alla contrattazione aziendale, d’altro canto, può aiutare a comprendere perché il modello di negoziazione delle retribuzioni proposto non necessariamente debba essere applicato anche al pubblico impiego. Si è visto come l’assenza di margini (ulteriori a quelli definiti a livello nazionale) in sede di contrattazione salariale decentrata
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, unitamente alle cadenze imprevedibili degli accordi collettivi nazionali, sia fra le ragioni del mantenimento nel settore di una consistente dinamica retributiva collegata all’anzianità di servizio. Queste stesse ragioni potrebbero anche indurre ad optare per la conservazione di un sistema di indicizzazione di tipo tradizionale (quale quello accolto nel d.p.r. n. 13/1986), salvo ricontrattare periodicamente il grado di copertura dall’inflazione che si ritiene di dover assicurare automaticamente agli stipendi degli impiegati pubblici
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. Difformità nei meccani¶{p. 340}smi di adeguamento delle retribuzioni fra settore pubblico e privato, del resto, sono sempre esistiti nel nostro ordinamento sino al 1979 (anche se di segno rovesciato, rispetto a quello ipotizzato). Ferma restando la possibilità, ed anzi l’opportunità, che l’uniformazione di tali meccanismi si affermi come un tratto di fondo dell’ordinamento, non dovrebbe essere considerata stravolgente l’eventualità, magari da saggiare in via temporanea e sperimentale, di deroghe alla regola ottimale.
Da quanto sin qui detto, dovrebbe essere emerso con chiarezza quale sia lo schema di interazione fra le fonti che si ritiene più adatto a favorire il necessario processo di trasformazione delle politiche salariali. Rispetto ad esso, la legge dovrebbe giuocare un ruolo di sostegno, di promozione in senso lato degli obbiettivi della contrattazione, evitando la tentazione di surrogarsi ad essa. Un ruolo da assolvere sia con interventi in positivo, attraverso la definizione di una normativa sui minimi (ma anche della disciplina cornice del Fondo di solidarietà); sia rimuovendo rigidità che hanno fatto il loro tempo. Andrebbe decisa l’abrogazione, ad esempio, del divieto di conglobamento della contingenza nella retribuzione previsto dalla legge n. 91/1977, opportuna una volta che la contingenza, come voce isolata della busta-paga, abbia cessato di esistere
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; come pure della disciplina della scala mobile contenuta nel d.p.r. 28 agosto 1960, n. 1073, che rappresenta (tuttora?) un ostacolo alla libertà delle scelte sindacali in ordine alle modalità di adeguamento dei salari
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.¶{p. 341}
Va sottolineato, a conclusione, che il modello di negoziazione salariale ipotizzato sembra in grado di offrire la possibilità che l’autonomia e la libertà di tali scelte, nel contesto accettato di una politica dei redditi, si esplichino ampiamente a tutti i livelli di contrattazione, in coerenza, s’intende, con la caratterizzazione propria di ciascuno di essi. Il nesso fra strutture salariali e struttura della contrattazione costituisce un dato di tutta evidenza. Nello schema proposto esso implicherebbe l’attribuzione al livello confederale, oltre a funzioni di coordinamento generale delle rivendicazioni, del potere di concertare con il governo l’andamento delle grandi variabili economiche, ivi compresa la misura del salario minimo
[386]
; alla contrattazione di categoria competerebbe la definizione dei differenziali professionali, con la flessibilità derivante dalla possibilità di manovra sull’intero importo degli incrementi salariali previsti per il periodo di vigenza dell’accordo; al livello aziendale, infine, andrebbe delegata la negoziazione delle conseguenze, anche d’ordine retributivo, degli aumenti di produttività.
Non sembra che, orientando nei termini indicati la propria azione contrattuale, i sindacati italiani correrebbero davvero il rischio di scivolare verso una deriva «salarialista».
L’obiezione è tradizionale ed ha motivato da sempre le difese più nette del meccanismo di scala mobile
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. Ad essa, oggi più di ieri, si può opporre la convinzione che mancherebbe di realismo la volontà di negoziare efficacemente i diversi aspetti della condizione lavorativa e, più in generale, essenziali variabili macroeconomiche (i livelli dell’occupazione in primo luogo), quando si è compromessa «la forza che viene dall’essere anche agenti salariali»
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.
Si deve ancora precisare che le indicazioni tracciate non hanno minimamente la pretesa di individuare un inesistente optimum delle politiche retributive, ma semmai il paradigma che sembra più funzionale in circostanze date (e che tali, verosimilmente, ri
¶{p. 342}marranno per una fase non breve). In generale, viceversa, resta sempre vero che «un sistema salariale che soddisfi tutte le domande di fairness che vengono riposte sopra di esso è pressoché irragiungibile»
[389]
. Proprio per questo lo sforzo dovrebbe essere costantemente orientato a coniugare, con inclinazione pragmatica al mutamento, l’equità storicamente possibile con l’unità più ampia del mondo del lavoro.
Note
[373] Monti, La scala mobile: che cosa si guadagna con la contrattazione, cit., p. 99.
[375] Goodman e Thomson, Cost of living indexation agreements in post-war british collective bargaining, in «Brit. journ. ind. rel.», 1973, p. 206. In argomento cfr., in generale, Hughs, Cost of living, Threshold bargaining and incomes policy, in «Industrial relations», 1973-74, n. 4, p. 23 ss.; da noi Thiery e Cacciola, op. cit., p. 47 ss; qualche riferimento, per la verità senza adeguato approfondimento, anche in Zangari, Retribuzione e trattamento retributivo: spunti di diritto comparato, in «Mass. giur. lav.», 1985, p. 276.
[376] Goodman e Thomson, op. cit., p. 181.
[377] Ci si riferisce all’ipotesi formulata da Visco di cui si v., oltre all’articolo citato in nota 368, Una proposta nuova per la scala mobile, in «la Repubblica», 18 giugno 1985. Il progetto di Visco, peraltro, richiama esplicitamente suggerimenti già avanzati da Claudio Napoleoni e Giorgio Rodano sulle colonne di «Paese Sera» e poi della «Rivista trimestrale»: cfr., infatti, di Rodano l’Intervento, citato in nota 373. Rispetto all’ipotesi di Visco, che prevede l’eventuale adeguamento automatico a fine anno, magari accompagnato dal pagamento di interessi per compensare la perdita di potere d’acquisto interstiziale, la proposta delineata nel testo si differenzia perché ritiene più opportuno collegare immediatamente l’(eventuale) adeguamento automatico allo sfondamento del «tetto» d’inflazione programmata.
[378] In Spagna la durata dei contratti collettivi è stata prevista in due anni, stabilendosi che l’eventuale adeguamento automatico, che scatterebbe a fine anno, verrebbe concesso con efficacia retroattiva al 1° gennaio dell’anno precedente e concorrerebbe a formare la base di calcolo degli incrementi salariali dell’anno successivo.
[379] Italia, Intervento alla tavola rotonda Politica salariale, politiche dei redditi e modelli di contrattazione sindacale, cit., p. 22; per spunti consimili cfr. Valvo, Piai auto Spa: quantità, struttura ed evoluzione delle retribuzioni di fatto, in «Ires Materiali», 1984, 3, p. 14. Il fenomeno, ad ogni modo, sembra trovare riscontro anche altrove: cfr. Laurent, 1984 l’année zéro des politiques d’individualisation des salaires, in «Intersocial», 1984, n. 98, p. 25 ss.
[380] Cfr. Pappalardo, op. cit., p. 30 con riferimento all’Austria; Rehn, L’esperienza della contrattazione centralizzata in Svezia, in Aa.Vv., Salano, inflazione e relazioni industriali in Europa, cit., p. 150, 153.
[381] Lissa, Biagioli, Rainone, Toccagni, La struttura delle retribuzioni di fatto nell’industria metalmeccanica lombarda: una ricerca empirica, in «Quad. rass. sind.», 1984, n. 107, p. 42.
[382] A valutazioni diverse si potrà, però, pervenire quando sarà possibile trarre un bilancio della gestione del fondo di incentivazione, previsto dall’art. 14 del d.p.r.n. 13/1986.
[383] La possibilità di riservare ai dipendenti pubblici un meccanismo di indicizzazione automatica più « forte » di quello applicato al settore privato, del resto, è già stata prospettata in tempi abbastanza recenti: si v. Scarpat, La politica delle retribuzioni nel pubblico impiego, Milano, Giuffré, 1983, p. 109 ss.
[384] La rimozione del divieto, per la verità, appariva condizione necessaria anche per l’accoglimento della proposta di riforma avanzata dalle confederazioni sindacali, giacché in essa, sia pure solo ai fini del funzionamento del nuovo sistema di scala mobile, si prevedeva di «procedere al conglobamento dell’indennità di contingenza nei minimi tabellari»; e deve ritenersi, ora, probabilmente attuata dall’art. 1, co. 2°, della legge n. 38/1986, che dispone l’abrogazione delle «disposizioni in contrasto con la disciplina prevista nel comma 1», pure se un esplicito riferimento sarebbe meglio valso a troncare ogni dubbio in proposito.
[385] Uno spunto in tal senso, opportunamente collegato alla prospettiva di introduzione di un salario minimo legale, in Pera, Dopo il referendum sul taglio della scala mobile, in «Giust. civ.», 1985, II, p. 257. Può dubitarsi, peraltro, dell’attuale vigenza anche della regolamentazione dettata del d.p.r. n. 1073/1960, per l’evidente incompatibilità fra i suoi contenuti e quelli della legge n. 38/1986. Pure in questo caso, ad ogni modo, una norma abrogativa espressa non sarebbe stata priva di utilità.
[386] Quest’ultima infatti, oltre ad essere garantita dall’indicizzazione automatica, potrebbe anche, di tempo in tempo, essere oggetto di rinegoziazione fra governo e parti sociali: si v. retro, cap. I, parag. 7.
[387] Sul punto cfr., per tutti, Lettieri, Intervento alla tavola rotonda Politica salariale, politica dei redditi e modelli di contrattazione sindacale, cit., p. 15.
[388] Tosi, La retribuzione, cit., p. 536.
[389] La citazione (di Hicks, The crisis in Keynesian economics, Oxford, 1974, p. 65) è ripresa da Cella, Struttura del salario, cit., p. 12.