Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c3
La tesi implica, evidentemente, l’assunto che l’intervento d’imperio sulla disciplina negoziale della scala mobile sia valutabile alla stregua di una misura di programmazione economica: cosa che, notoriamente, è stata contestata [294]
. Non sembra, peraltro, questo il nodo cruciale della problematica in esame. Dopo tutto, si potrebbe infatti pensare che l’attenzione della Corte si sia portata sul decreto n. 70/1984, come parte di una complessiva operazione di risanamento economico, concordata con alcuni settori del movimento sindacale, ma già avviata l’anno precedente con
{p. 307}l’assenso (allora) unanime delle organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori.
La legittimità di una considerazione (politicamente) unitaria dell’intera vicenda del «patto anti-inflazione» è già stata sottolineata. Si è pure visto come costituisca tutt’altro che una forzatura analitica la riconduzione dello stesso sotto il paradigma delle politiche dei redditi, che pure della pianificazione costituiscono uno snodo essenziale. Non sembra inutile, inoltre, ricordare, quanto al merito della manovra economica, che tendenze ad agire sugli andamenti delle dinamiche salariali sono risultate ampiamente diffuse, in numerosi contesti di relazioni industriali, nello scorcio iniziale degli anni ’80. Tali tendenze si sono frequentemente espresse, anche da parte di governi dichiaratamente pro-labour, in forme autoritative, d’intensità sicuramente maggiore di quella riconoscibile nel decreto relativo alla predeterminazione dei punti di contingenza [295]
. Solo raramente, si può aggiungere, interventi siffatti si sono associati a misure di accompagnamento, volte a garantirne l’equità complessiva in particolare nei confronti dei percettori di redditi bassi, più incisive di quelle apprestate in occasione dell’accordo del gennaio ’83 e, poi, anche del protocollo del febbraio ’84 [296]
.{p. 308}
L’esperienza italiana in materia di politica dei redditi può, dunque, legittimamente essere sottoposta a critiche di varia natura, ma non pare, nel suo insieme, essere stata priva di una certa dose di equilibrio [297]
. Si può, è vero, riconoscere in essa un’oscillazione, politicamente discutibile, fra «accordo» e «decreto»: essa resta, comunque, quanto alle conseguenze sulle concrete condizioni di vita dei lavoratori, incomparabilmente distante almeno dalle impostazioni seguite in quei paesi dove l’aggiustamento economico è stato interamente confidato al libero operare delle forze di mercato [298]
. Del resto, l’accusa rivolta in sede parlamentare all’intervento governativo di non contenere «nessuno degli elementi che possono costituire una credibile ipotesi di politica dei redditi» [299]
, per quanto indotta da comprensibili esigenze di contrapposizione politica, può anche parzialmente condividersi se indirizzata (come in effetti era) ai contenuti del decreto in senso stretto. Chi se ne è fatto portatore, infatti, ha mostrato di apprezzare in misura non marginale aspetti rilevanti del precedente protocollo d’intesa, criticando il decreto proprio per essersene discostato ed orientando in senso conforme alcuni degli emendamenti proposti [300]
.{p. 309}
Eppure, anche avendo presente nei suoi contorni reali il contesto di riferimento, occorre ammettere che non si è ancora detto nulla di decisivo quanto alla correttezza costituzionale di un intervento legislativo modificativo di una disciplina contrattuale liberamente posta. La ricordata oscillazione fra «accordo» e «decreto», infatti, forse inessenziale dal punto di vista economico, forse politicamente discutibile, non necessariamente comporta indifferenza di valutazioni giuridiche, per la possibilità di riconoscere comunque in quel passaggio la proiezione di una manovra unitaria. Al contrario, il ricorso all’intervento eteronomo può mantenere margini insanabili di contrasto col dettato costituzionale, sotto il profilo della violazione del principio di libertà sindacale.
Il tentativo di ricondurre quest’ultima nella sfera di operatività dell’art. 41, 3° comma, Cost., riproposto dalla Corte costituzionale, era già stato compiuto, molti anni addietro, da un settore minoritario della dottrina [301]
e, come si è detto, ampiamente ed efficacemente contestato. Certamente non si possono trascurare, nel dibattito odierno, i mutamenti intervenuti, rispetto agli anni ’60, nel rapporto fra organizzazioni sindacali e Stato, l’accresciuto peso dei sindacati nella società civile, il loro crescente coinvolgimento in decisioni pubbliche su materie anche di interesse generale. Pur tuttavia, il recente ripensamento sulle condizioni giuridicamente necessarie della programmazione economica, anziché esprimere «una riflessione più consapevole e responsabile» [302]
sui mutati termini di quel rapporto, sembra manifestare, con palmare evidenza, la convinzione che, nella presente situazione socioeconomica, «la crisi possa essere procrastinata solo grazie ad un certo grado di controllo autoritario» [303]
.
Sul piano strettamente giuridico, dell’analisi dell’assetto costituzionale italiano, in effetti, non v’è nulla che non fosse stato già detto a proposito della sfera di libertà da garantire all’azione sin{p. 310}dacale nel quadro della programmazione economica. In particolare, era stata ampiamente sottolineata la scorrettezza del tentativo di omologazione fra l’attività sindacale e l’attività economica che può essere dalla legge indirizzata e coordinata a fini sociali [304]
; soprattutto si era posto in luce che, nel nostro ordinamento, «l’autonomia collettiva è riconosciuta in sé, in quanto realizzante in via diretta un primario valore sociale», concludendosi recisamente nel senso dell’«esclusione di ogni possibilità di vincolo delle attività sindacali, nel loro ambito di esplicazione, al perseguimento di finalità predeterminate dall’esterno e diverse da quelle loro proprie, ovvero all’osservanza di determinati criteri nel perseguimento delle stesse finalità proprie» [305]
.
La concezione consensuale della programmazione economica che consegue a siffatta impostazione, del resto, è sempre stata ritenuta l’unica rispettosa dell’equilibrio di poteri normativi definito dalla carta costituzionale. Non a caso a fronte delle affermazioni contenute nel Progetto di programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-1969, secondo cui «una programmazione democratica non può attuarsi con misure coercitive, ma si fonda sulla responsabile partecipazione delle forze sociali del Paese e delle loro rappresentanze sindacali ed economiche... nel rispetto della loro autonomia...» [306]
, si dovette ammettere, anche da chi avversava politicamente programmazione e politica dei redditi, che il modello proposto non contrastava col quadro costituzionale [307]
.
La maggioranza degli osservatori ha ritenuto che la prospettazione fatta propria dalla Corte sia stata motivata dall’obiettivo di riaffermare solennemente la centralità, nel vigente assetto costituzionale, del ruolo del Parlamento, in ipotesi minacciata dal peso crescente delle prassi concertative [308]
. É possibile che sia così; è {p. 311}possibile che sia questo il senso giuridico ultimo di quell’accenno ai rischi di alterazione che correrebbe la «vigente forma di governo» [309]
. Resta il fatto che l’opzione interpretativa, consapevolmente o meno, sembra aver finito col portare acqua alla tesi, in sé apodittica, secondo cui alle pratiche di concertazione sociale non sarebbero «estranee venature autoritarie» [310]
.
La conclusione potrebbe presentare risvolti paradossali. Per affermare la legittimità costituzionale di uno specifico esito delle prassi concertative, si è seriamente incrinata la credibilità sociale, in prospettiva, delle medesime. Se fosse vero, infatti, che, nel nostro sistema, «a tali prassi i sindacati accedono in posizione di libertà dimidiata» [311]
, la ripetizione, in futuro, di esperienze consimili non potrebbe non essere riguardata con estrema cautela da tutto il movimento sindacale.
Proprio per questo appare auspicabile che l’intera problematica venga rivisitata, in un’ottica meno legata al contingente e più attenta al domani delle relazioni industriali. In questo senso il recupero di principi già consolidati, piuttosto che come un mero ritorno al passato, deve essere inteso come espressione del meditato convincimento che se, nella situazione attuale, «patti sono inevitabili e necessari tra sindacato e potere pubblico» in ordine al governo delle dinamiche retributive, «resta incoerente con il quadro di riferimento costituzionale e politicamente pericolosa la pretesa di tradurli in formule legislativamente cristallizzate» [312]
, anche dal punto di vista dell’effettività e stabilità nel tempo delle intese eventualmente raggiunte.
Rimane ancora da chiarire, onde evitare equivoci, che la riproposizione di una concezione rigorosamente consensuale delle politiche dei redditi non implica affatto adesione all’opinione con cui, in passato, si è tentato di accreditare una sorta di riserva normativa alla contrattazione collettiva nella regolamentazione dei rapporti di lavoro [313]
. Con particolare riferimento alla disciplina
{p. 312}della retribuzione si è già ampiamente argomentato la legittimità, anzi la sicura aderenza al dettato costituzionale, di un intervento legislativo sui minimi (si v. retro, cap. 1 e anche infra, parag. 5.2.). Si deve ora aggiungere che il ricorso alla legge dovrebbe probabilmente essere considerato legittimo anche con riguardo ad altre zone del trattamento retributivo, qualora essa intervenga in assenza di discipline collettive, tanto più se la normativa legale dovesse risultare circoscritta nel tempo e non assistita da clausole di inderogabilità assoluta. Nel caso di mancata intesa fra le parti, per spiegarsi con un esempio concreto, l’intervento del legislatore sulla disciplina della scala mobile sarebbe risultato più accettabile all’inizio del 1983, sempreché, beninteso, si fosse ritenuta la piena operatività della disdetta data dalla Confindustria al relativo accordo interconfederale [314]
.
Note
[294] Cfr., ad esempio, Mariucci, op. ult. cit., p. 342, nota 82, secondo cui quell’intervento «semmai corrisponde alle esigenze della politica anti-inflattiva, cioè a motivi di “ordine pubblico economico”, piuttosto che a fini “programmatori” in senso stretto».
[295] In Francia, ad esempio, non soltanto si è disposto per circa quattro mesi, nel 1982, un blocco generalizzato dei salari, con contestuale sospensione della legge 11 febbraio 1950 sulla libertà di contrattazione collettiva, ma si è anche prevista, all’uscita dal blocco, un’applicazione rigida, nel settore pubblico, del divieto legale di indicizzazioni, preesistente ma, in precedenza, ampiamente disatteso: cfr. Ortoli e Bescond, op. cit., p. 23; Goetschy, Il problema neocorporativo in Francia. Alcuni sviluppi recenti, in Aa.Vv., Salario, inflazione e relazioni industriali in Europa, cit., p. 128 ss. Più in generale va ricordato come soprattutto le indicizzazioni salariali siano state messe in questione negli ultimi anni in numerosi paesi (Belgio, Danimarca, Olanda, Grecia) con misure legislative che ne hanno variamente modificato o addirittura sospeso i meccanismi di funzionamento: per una panoramica dei diversi interventi cfr. Clarke, op cit., p. 108 ss.; Dal Co, I sistemi di indicizzazione dei salari e le loro modificazioni in alcuni paesi europei, in «Ires Materiali», 1983, n. 1, p. 27 s.; Id., I sistemi di relazioni industriali e la crisi economica, in «Dem. e dir.», 1983, n. 6, p. 9 s.
[296] In questo senso va segnalata probabilmente soltanto la particolare efficacia della manovra di controllo sui prezzi attuata dal governo francese, unitamente all’estensione delle misure di contenimento anche ai redditi da lavoro autonomo (commercianti e professionisti) e all’esclusione dalle stesse dei lavoratori a salario minimo, il cui importo è stato anzi ripetutamente aumentato: in argomento cfr. Patriarca, op.cit.
[297] Una conferma in proposito può utilmente trarsi da una rilettura delle opinioni espresse da due autorevoli economisti alla vigilia del referendum abrogativo della legge n. 219/1984 (Ruffolo, Perché voterò no, in «la Repubblica», 7 giugno 1985; Salvati, Prevalga la saggezza, ivi, 8 giugno 1985). L’orientamento di Salvati, favorevole all’abrogazione della legge, appare motivato, assai più che da ragioni economiche, dall’opportunità di respingere una concezione impositiva, non consensuale, della politica dei redditi.
[298] Sono i casi notori della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, su cui cfr., in generale, Carrieri e Perulli, Il sindacato di fronte al problema del rapporto fra risorse e lavoro, in «Problemi del socialismo», 1983, n. 26, p. 148. Sulle vicende inglesi si v. anche Pay freezes. A new trend in bargaining, in «Ind. rel. rev. and rep.», 1981, n. 256, p. 2. Sull’esperienza americana del concession bargaining si v. ora l’ampia analisi di Bordogna, La «concession bargaining» e alcune recenti tendenze delle relazioni industriali negli Stati Uniti, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1985, p. 277 ss.
[299] Così la Relazione di minoranza, cit., p. 712.
[300] L’allegato 1b al protocollo d’intesa fra governo, Cisl, Uil e Confindustria prevedeva, infatti, «la possibilità di trasferire dall’area dei prezzi sorvegliati a quella dei prezzi amministrati, quei prodotti il cui prezzo fosse aumentato oltre il limite previsto»; il blocco per un anno dell’indicizzazione dei canoni di locazione delle abitazioni; infine, quanto ai prezzi liberi, il condizionamento della fiscalizzazione degli oneri sociali nel settore commerciale al rispetto del tasso programmato d’inflazione.
[301] Per tutti si v. soprattutto Esposito, Lo Stato e i sindacati nella costituzione italiana, in La costituzione italiana. Saggi, Padova, CEDAM, 1954, p. 172 s. e anche Ardau, L’azione sindacale e la programmazione economica, in Atti del convegno di diritto del lavoro, cit., p. 133 ss.
[302] Mengoni, op. loc. ult. cit.
[303] Bordogna e Provasi, Politica, economia e rappresentanza degli interessi, Bologna, 11 Mulino, 1984, p. 59, con acute riflessioni sulle tendenze all’accentuazione dei meccanismi autoritari, «anche oltre i limiti tracciati dalla tradizione democratica», oggi presenti in diversi contesti di relazioni industriali.
[304] Cfr., per tutti. Predico, Pianificazione e costituzione, Milano, Giuffré, 1963, p. 148 ss., 163 s.
[305] Dell’Olio, Attività sindacale e programmazione economica, in «Dir. lav.», 1970, I, p. 481.
[306] Il passo è ampiamente riportato da Natoli, A proposito di programmazione e di libertà sindacale, in «Riv. giur. lav.», 1965, I, p. 6.
[307] Cfr. Natoli, op. cit., p. 7.
[308] Cfr. Mazzetta, Il neocontrattualismo alla prova, in «Foro it.», 1985, I, c. 979; Brusco, Autonomia negoziale del sindacato e prassi concertative centralizzate davanti alla Corte costituzionale, ivi, c. 1929; e anche Pera, La Corte costituzionale sul blocco temporaneo della contingenza, in «Giust. civ.», 1985, I, p. 626.
[309] Il carattere allarmistico di opinioni del genere e la loro completa infondatezza sono lucidamente dimostrati da De Luca Tamajo, L’evoluzione dei contenuti, cit., p 51 ss.
[310] Rusciano, Contratto collettivo, cit., p. 161; ma, sul punto, sembra concordare anche Mariucci, op. ult. cit., p. 350, nota 96.
[311] Mariucci, op. loc. ult. cit.
[312] Le citazioni sono da Tosi, La retribuzione nel diritto del lavoro dell’emergenza, cit., p. 536.
[313] Cfr. gli autori citati retro in nota 174.
[314] In argomento cfr. Alleva e Ghezzi, op. cit., nonché le opinioni, variamente orientate, espresse da Giugni, Pera, Persiani, Scognamiglio, Treu, Ventura alla tavola rotonda su La disdetta della scala mobile, cit.