Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c3
A giudizio della Corte le modalità dell’azione sindacale nel contesto di un’esperienza di concertazione sociale esulerebbero dal modello, e dalla garanzia di libertà, previsti dalla norma costituzionale innanzi tutto perché quest’ultima sarebbe stata pensata in funzione della contrattazione collettiva di categoria, piuttosto che di quella di livello interconfederale; in secondo luogo perché, comunque, la contrattazione sindacale «appare destinata a svolgersi in un diretto ed esclusivo rapporto fra le rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro», anziché con un intervento del governo «quale soggetto che assume a sua volta una serie di impe
{p. 302}gni politici, spesso assai precisi e rilevanti»; in terzo (e decisivo) luogo perché, a fronte di un negoziato in cui i sindacati non appaiono «separati dagli organi statali di governo, bensì cooperanti con essi», la conseguenza da trarre sarebbe nel senso «che gli interessi pubblici ed i fini sociali coinvolti da tali trattative debbono poter venire perseguiti e soddisfatti dalla legge, quand’anche l’accordo fra il governo e le parti sociali non sia raggiungibile» [281]
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Quanto alla prima delle riferite argomentazioni, riesce difficile respingere la sensazione di trovarsi in presenza di un artificio dialettico, prospettato ad abundantiam, senza reale pretesa di convinzione. La ricostruzione della norma costituzionale offerta, per l’occasione, dalla Corte comporta, infatti, a tacer d’altro, una visibile forzatura, probabilmente già sul piano letterale, sicuramente su quello dell’interpretazione logica, insinuando un’insanabile contraddizione fra il 4° e il 1° comma dell’art. 39. L’ampia garanzia di libertà prevista da quest’ultimo non sembra, invero, legittimare alcun tipo di restrizione, né quanto ai livelli di contrattazione, né quanto all’ambito (aziendale, locale, settoriale, categoriale, interconfederale) di operatività della stessa [282]
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L’osservazione fondata sulla non coincidenza fra il modello di relazioni sindacali prefigurato nella norma costituzionale e l’assetto concretamente realizzato dai negoziati tripartiti è più consistente, coglie un aspetto dei fenomeni analizzati, ma, al tempo stesso, appare, nelle implicazioni fattene discendere, inessenziale e, anzi, decisamente fuorviarne in ordine alla risoluzione della {p. 303}concreta questione sottoposta all’attenzione della Corte. La negazione all’accordo del gennaio ’83 del carattere di prodotto di attività sindacale, in senso proprio e rigoroso, è legata alla constatazione che l’attuazione di esso dipendeva dall’emanazione di una serie di misure legislative e amministrative (in materia fiscale, parafiscale, di politica sociale e del lavoro); nonché al rilievo che i contenuti concordati riguardavano anche i pubblici dipendenti, il cui trattamento economico «non è immediatamente affidato alla contrattazione collettiva, nemmeno per effetto della cosiddetta legge-quadro sul pubblico impiego» [283]
: cosicché sarebbe giocoforza concludere nel senso della centralità, sempre e comunque, del ruolo della legge nell’ambito delle prassi di concertazione sociale e, conseguentemente, della legittimità della deroga legale, disposta col decreto-legge n. 70/1984, alla disciplina della scala mobile.
La tesi della Corte era già stata, sostanzialmente, anticipata in dottrina da chi aveva sostenuto che «il provvedimento d’autorità del governo... avrebbe dovuto esserci anche in seguito all’accordo concluso nel 1983», e che il dissenso di una componente sindacale, manifestatosi l’anno dopo, rispetto alle prospettate modifiche del patto, avrebbe soltanto costretto l’Esecutivo «a prendere una posizione... più rischiosa politicamente, ma più corretta giuridicamente» [284]
. Sarebbe troppo facile ribattere ricordando che, a proposito dell’intesa del 1983, è stata affermata anche l’opinione esattamente opposta, sottolineandosi «la scelta pressoché esclusiva dello strumento contrattuale... per affrontare le diverse materie prospettate», nonché il «ruolo importante, ma secondario (della legge), di sostegno e di rimozione degli ostacoli all’iniziativa contrattuale», tale da rendere evidente la distanza «dalle forme di neocorporativismo più nettamente statalistico, come l’Olanda degli anni ’60 e la Danimarca» [285]
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Fatto è che impostazioni del genere, tese ad individuare il peso relativo della legge e dell’autonomia collettiva nel quadro delle prassi concertative, restano inevitabilmente esposte ad ampi mar{p. 304}gini di arbitrarietà valutativa. Quella della Corte, in particolare, forse apprezzabile sul piano della mera descrizione fenomenica, ha evitato di affrontare la questione giuridicamente centrale, i cui termini risultano imposti dalla confluenza, certamente inusuale, in un medesimo documento formale di impegni politici e contenuti contrattuali.
Quanto a questi ultimi, non sembra di obliterare la specifica caratterizzazione trilaterale del negoziato riconducendo almeno le clausole relative alla flessibilità e riduzione dell’orario di lavoro, al coordinamento fra livelli contrattuali, alla durata dei contratti di categoria e, soprattutto, alla programmazione della dinamica salariale, ivi compresa la nuova disciplina della scala mobile, entro lo schema dell’accordo interconfederale. Già all’indomani della stipulazione dell’intesa, del resto, si è avvertito come questa fosse «la parte dell’accordo più tradizionale, in relazione alla quale il protocollo sembra destinato a inserirsi direttamente nell’attuale sistema contrattuale per incorporarsi nelle sue norme di produzione... o, quanto meno, vincolarne le fonti» [286]
. Non diverse sono state le valutazioni della più accreditata dottrina spagnola a fronte del recente Accordo Economico-Sociale, che presenta tratti notevolissimi di somiglianza, sia di struttura, sia anche di contenuti, con l’intesa italiana del gennaio ’83. Anche in questo caso, pur senza negare il carattere trilaterale del patto, non vi sono state difficoltà a riconoscere natura giuridica di accordo interconfederale a pane delle clausole di esso [287]
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Se la ricostruzione proposta ha fondamento, ne consegue l’impossibilità di giustificare l’intervento autoritativo del governo sulla disciplina della scala mobile nei termini prima ricordati. Il ricorso al decreto, piuttosto che essere esito (giuridicamente) inevitabile di una procedura concertativa, è risultato, nella circostanza specifica, imposto dalla mancanza di consenso sindacale unanime attorno alla prospettata modifica della contingenza. Se quest’ultimo fosse stato raggiunto, non vi sarebbe stata difficoltà alcuna ad innovare la disciplina dell’indicizzazione salariale mediante accordo interconfederale, come si era fatto l’anno prima; il dissenso manifestato da una componente sindacale firmataria dell’accordo {p. 305}dell’’83 ha, invece, reso necessario l’emanazione del decreto, per evitare la conseguenza, politicamente indesiderabile, che gli effetti della nuova intesa restassero circoscritti ai soli aderenti ai sindacati consenzienti [288]
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Vero questo, la questione viene evidentemente ricondotta al punto di partenza. Vanno richiamate, in particolare, le ragioni di perplessità, precedentemente esposte (retro, parag. 3.1.), sulla correttezza costituzionale dell’intervento per decreto sulla disciplina della scala mobile, dovendosi ribadire pesanti riserve a proposito della concezione dei rapporti fra legge e autonomia sindacale che sembra emergere dalla configurazione di governo e parlamento come «una sorta di sede d’appello, cui ognuna delle parti sociali potrà ricorrere per modificare clausole sfavorevoli, col risultato di rendere precario e provvisorio ogni impegno e obbligo contrattualmente stipulato» [289]
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Senonché, le osservazioni sinora svolte sarebbero inevitabilmente destinate a restare travolte qualora si potesse accedere alla prospettazione di fondo della Corte, secondo cui, in buona sostanza, si trascenderebbe «l’ambito nel quale si colloca — per costituzione — la libertà di organizzazione sindacale e la corrispondente autonomia negoziale» a fronte di interventi legislativi volti a realizzare «finalità di carattere pubblico» [290]
, come tali legittimati dal terzo comma dell’art. 41 Cost., che, appunto, affida alla legge la funzione di indirizzare e coordinare l’attività economica pubblica e privata a fini di programmazione.{p. 306}
Anche in questo caso non sono mancati alla Corte suggerimenti, nel senso indicato, di fonte dottrinale. Si è già ricordato come a proposito degli interventi vincolistici del 1976-77 fosse stata ripresa la tematica dei rapporti fra azione sindacale e pianificazione, ampiamente dibattuta negli anni ’60, per ribaltare le conclusioni allora largamente prevalenti e sostenere la piena legittimità di una politica dei redditi autoritativa in quanto «condizione essenziale della programmazione economica, che, come tale, non può non essere legittimata dall’art. 41, 3° comma» [291]
. Riguardo alla vicenda più recente, d’altro canto, anche in considerazione del fatto che i decreti contestati sono stati emanati comunque a seguito di trattative fra il governo e le organizzazioni sindacali e del consenso espresso da alcune di esse, si è osservato che, nella circostanza, neppure sarebbero stati violati «i canoni e la logica della negoziazione legislativa, tenuto conto dei limiti di ordine costituzionale e quindi della necessaria considerazione e ponderazione delle esigenze di interesse generale... che necessariamente debbono circoscrivere la stessa negoziazione, perché possa rimanere un fenomeno compatibile con il contesto legale della costituzione» [292]
: il che costituisce, appunto, la sostanza della convinzione della Corte, laddove si afferma che, operando diversamente, ne sarebbe, addirittura, «alterata la vigente forma di governo » [293]
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La tesi implica, evidentemente, l’assunto che l’intervento d’imperio sulla disciplina negoziale della scala mobile sia valutabile alla stregua di una misura di programmazione economica: cosa che, notoriamente, è stata contestata [294]
. Non sembra, peraltro, questo il nodo cruciale della problematica in esame. Dopo tutto, si potrebbe infatti pensare che l’attenzione della Corte si sia portata sul decreto n. 70/1984, come parte di una complessiva operazione di risanamento economico, concordata con alcuni settori del movimento sindacale, ma già avviata l’anno precedente con
{p. 307}l’assenso (allora) unanime delle organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori.
Note
[281] Tutte le citazioni sono da Corte cost., n. 34/1985, cit., p. 36.
[282] La tesi della Corte, oltre tutto, dovrebbe coerentemente essere estesa anche alla contrattazione aziendale. In ogni caso non servirebbe a risolvere la questione di legittimità costituzionale dell’intervento legislativo modificativo della disciplina della contingenza, giacché quest’ultima, implicitamente o esplicitamente, risulta recepita nei singoli contratti nazionali di lavoro. Di passata, si può ricordare anzi come questo sia stato uno degli argomenti più validi addotti per contestare l’efficacia (nel 1982 e, più recentemente, nell’85) della disdetta confindustriale dell’accordo sulla scala mobile: in argomento cfr. Alleva e Ghezzi, Dopo la disdetta: quale legge per la scala mobile, in «Pol. ed Econ.», 1985, n. 7-8, p. 8. Per mera completezza espositiva va, comunque, ricordato che l’assunto della Corte ha trovato riscontro in dottrina: cfr. Raveraira, Legge e contratto collettivo, cit., spec. p. 124 ss., la quale su questa (invero fragile) base costruisce la sua monografia, concludendo, sempre in ragione della medesima unica argomentazione, per la legittimità costituzionale della legge n. 219/1984 (cfr., sul punto, p. 148 s.).
[283] Corte cost., n. 34/1985, cit., p. 36.
[284] Le citazioni sono da Rusciano, Contratto collettivo, cit., p. 160.
[285] Così Treu, Le nuove relazioni industriali, in Aa.Vv, Il patto contro l’inflazione, cit., p. 13 s.; ma già, nello stesso ordine di idee, Id., La scommessa del neocontrattualismo, in «Pol. dir.», 1983, p. 443 s.
[286] Ghera, La via italiana alla politica dei redditi, in «Mondoperaio», 1983, n. 1-2, p. 22.
[287] Cfr. Rodriguez-Piñero, op.cit.
[288] Per rilievi di segno analogo cfr. Mariucci, La contrattazione collettiva, cit., p. 341 e nota 81. Occorre aggiungere che l’opinione che ritiene inevitabile l’intervento della legge nella disciplina della contingenza appare sconsigliabile e, anzi, francamente pericolosa anche sul piano di politica del diritto e delle relazioni industriali, implicando logicamente la sottrazione alla disponibilità negoziale delle parti collettive di un elemento essenziale della dinamica salariale. In questo senso si può anche ricordare come l’ipotesi di un intervento legislativo di recezione della disciplina sindacale della scala mobile fosse stata prospettata anche in occasione dell’intesa del 22 gennaio 1983 — stanti i limiti dell’efficacia di diritto comune comunque inerenti a un accordo interconfederale — e poi, opportunamente, lasciata cadere.
[289] Così la Relazione di minoranza alla legge di conversione del decreto n. 70/1984, presentata alla Camera dei deputati dall’on. Bassanini, in «Le Leggi», 1984, p. 725.
[290] Entrambe le citazioni sono da Corte cost., n. 34/1985, cit., p. 36.
[291] Mengoni, Un nuovo modello, cit., p. 119.
[292] De Marco, La negoziazione legislativa»: aspetti attuali, in «Quaderni del pluralismo», 1984, n. 3, p. 46.
[293] Corte cost., n. 34/1985, cit., p. 36.
[294] Cfr., ad esempio, Mariucci, op. ult. cit., p. 342, nota 82, secondo cui quell’intervento «semmai corrisponde alle esigenze della politica anti-inflattiva, cioè a motivi di “ordine pubblico economico”, piuttosto che a fini “programmatori” in senso stretto».