I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c3
Nel sistema italiano di relazioni industriali la centralizzazione delle dinamiche rivendicative, quanto meno con riguardo all’entità dei trattamenti retributivi, conosce una storia ormai decennale.
¶{p. 292}
L’elemento caratterizzante di tale vicenda sembra da ravvisare nella circostanza che essa, nella fase iniziale di svolgimento e poi per un lungo tratto successivo, è stata assai più la risultante di processi economici in atto, che non di una consapevole scelta sindacale.
In effetti, già l’opzione a favore di un sistema di indicizzazione salariale di tipo «forte», consacrata nell’accordo interconfederale del ’75 sull’unificazione del valore del punto di contingenza, implicava un considerevole spostamento, nell’equilibrio dell’azione sindacale, in direzione di una sottolineatura del ruolo negoziale del centro confederale. Si è già visto, peraltro (retro, parag. 1), come le conseguenze di tale decisione siano state amplificate oltre misura dall’andamento imprevedibilmente accelerato del tasso d’inflazione degli anni seguenti, al punto da comportare, nella composizione interna della busta-paga (almeno delle categorie medio-basse), uno sbilanciamento sempre maggiore verso la parte di essa discendente direttamente dall’operare del meccanismo concordato a livello centrale.
A partire dai primi anni ’80, viceversa, l’intesa di massima raggiunta col governo Spadolini, a proposito del rispetto nelle richieste di incrementi salariali di tetti programmati di inflazione, segna un punto di svolta negli indirizzi delle politiche sindacali. La convinzione «della necessità di un accordo centralizzato per combattere l’inflazione», ruotante anche attorno all’adozione di «una politica concordata dei redditi»
[251]
appare, infatti, nel mutato contesto economico-sociale
[252]
, frutto di un orientamento di fondo, tutt’altro che casuale, o legato a circostanze esterne alla logica dell’azione collettiva.
È stato sostenuto, per la verità, che sin dal 1978 «il sindacato... sarebbe stato protagonista... di una politica dei redditi molto efficace»
[253]
. L’affermazione contiene qualche grano di verità e una buona dose di approssimazione, che rendono neces¶{p. 293}sario un minimo di approfondimento. Se si prescinde dal prendere in considerazione esperienze di politiche dei redditi
[254]
segnate da tratti, più o meno marcati, di autoritarismo
[255]
e ci si limita a fare riferimento a quelle di tipo consensuale, sarà inevitabile la constatazione che anche queste ultime, nei diversi contesti di relazioni industriali dove sono state (o sono tuttora) praticate, risultano ben lungi dall’assumere una forma univoca. Politiche centralizzate di regolazione dei salari, infatti, possono essere definite in rapporto diretto di scambio con prestazioni, di varia natura, cui si vincola il potere pubblico
[256]
. Altrove esse appaiono piuttosto come la conseguenza di una spontanea «sintonizzazione» dei gruppi di interesse rispetto agli obiettivi macroeconomici perseguiti dalle autorità di governo
[257]
. In altri casi ancora queste ultime, pur astenen¶{p. 294}dosi dall’intervenire direttamente nel gioco negoziale, ne condizionano gli esiti, attraverso l’apprestamento di «un quadro di convenienze di politica economica», finalizzato ad «agevolare la ricerca di un’intesa tra le parti»
[258]
.
Ora, la (presunta) politica dei redditi praticata dalle organizzazioni sindacali durante gli anni della «solidarietà nazionale», o, per meglio dire, quell’insieme di indirizzi generali e di concreti comportamenti negoziali
[259]
, complessivamente rivolto alla definizione di «un quadro di sostanziale realizzazione di un’autoregolazione del salario»
[260]
, difficilmente potrebbe essere accostato ad alcuno dei modelli indicati. L’interpretazione dell’azione sindacale del periodo è, notoriamente, controversa. Non sono mancati, ad esempio, tentativi di leggervi la volontà preminente di dare corso ad un complesso giro di dare e avere con il potere pubblico, laddove «i benefici attesi in cambio della moderazione rivendicativa» sarebbero consistiti «in una serie di importanti leggi e provvedimenti, apertamente o tacitamente contrattati con il governo»
[261]
. Il richiamo allo schema del «contratto sociale», esplicito in questo approccio analitico, può non essere del tutto fuori luogo. È possibile, cioè, che la linea sindacale dell’epoca si presti ad essere ricostruita anche in questi termini. Come per tutti i fenomeni sociali di qualche complessità, infatti, l’utilizzo unilaterale di una chiave di lettura, piuttosto di un’altra, potrebbe risultare inappagante. Tutto sommato, peraltro, continua a sembrare più persuasiva la tesi secondo la quale le scelte di contenimento salariale caldeggiate dalle confederazioni nel triennio 1977-’79 non fossero vincolate, almeno in misura prevalente, a specifiche finalità riformatrici. L’obiettivo essenziale, in altri termini, ¶{p. 295}sarebbe stato quello di assecondare, anche con un comportamento sindacale «responsabile», l’azione dei partiti operai, puntando in particolare a «favorire senza troppe scosse l’inserimento del PCI nell’area di governo»
[262]
.
Da questo punto di vista, non v’è dubbio che l’accordo tripartito del gennaio 1983 si collochi su un piano qualitativamente diverso. In esso, infatti, la centralizzazione della dinamica salariale non appare più come una variabile dipendente dall’andamento, difforme rispetto alle attese, del ciclo economico, ma, semmai, come un tentativo cosciente di influire sullo svolgimento di quest’ultimo. Né può essere considerata strumentale al perseguimento di un obbiettivo politico esterno.
Le ragioni alla base dell’accordo, viceversa, sono da ritenere tutte interne al sistema sindacale: dall’esigenza di rinegoziare il meccanismo di indicizzazione delle retribuzioni a quella di sbloccare le trattative per il rinnovo dei contratti nazionali di categoria, scaduti ormai da tempo; dall’obbiettivo di avviare un riequilibrio fra componente automatica e componente periodicamente contrattata dei salari all’assunzione della stabilità dei prezzi come una sorta di «bene pubblico»
[263]
, con rilevanti implicazioni anche sulle condizioni di vita dei lavoratori, come tale da preservare (o da rivendicare, quando risulti carente) pure con comportamenti collettivi coerenti.
Sotto altro aspetto, l’accordo del gennaio ’83 si stacca dall’esperienza di moderazione salariale della seconda metà degli anni ’70 anche con riguardo alle implicazioni sul piano della struttura delle relazioni industriali e dei rapporti fra diversi livelli dell’organizzazione sindacale. Sia perché l’intesa sulla centralizzazione della dinamica rivendicativa è resa questa volta possibile ¶{p. 296}dall’offerta di vantaggi immediati alle organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori da parte del terzo pubblico, nonché dall’assunzione di precisi, e contestuali, impegni di quest’ultimo in materia di politica economica e sociale
[264]
; sia perché essa non si limita alla formulazione di generiche dichiarazioni d’intenzioni o di mere direttive per l’azione contrattuale dei sindacati di categoria e aziendali
[265]
, concretandosi, piuttosto, nell’attribuzione al centro confederale della sostanza del potere negoziale sulle questioni retributive. L’accordo, infatti, non detta soltanto la nuova disciplina della scala mobile, nel che non vi sarebbe stato nulla di nuovo, trattandosi di istituto tipicamente regolamentato, nel nostro sistema, a livello interconfederale; ma indica anche l’entità massima degli aumenti retributivi negoziabili dai singoli sindacati nazionali di categoria, completando, infine, il disegno di accentramento negoziale con la previsione di divieto della contrattazione salariale aziendale per un periodo di diciotto mesi dalla stipula di ogni contratto collettivo nazionale.
La riconduzione dell’esperienza di contenimento salariale, avviata all’inizio del 1983, sotto il paradigma delle politiche (concertate) dei redditi non pare seriamente revocabile in dubbio. Nessun argomento in contrario potrebbe trarsi dalla limitatezza della contestuale manovra di controllo sui prezzi. L’opinione secondo la quale il calmieramento di questi ultimi costituirebbe elemento
¶{p. 297}centrale di una politica dei redditi
[266]
è tanto diffusa, quanto largamente infondata. Persino con riferimento alla vicenda austriaca, infatti, le analisi più attente hanno dovuto constatare, a proposito della Sottocommissione tripartita preposta al controllo dei prezzi, che l’azione di questa «è parziale, continuamente calante» e di «efficacia... pressoché nulla», concludendo nel senso che, anche in quel contesto di relazioni industriali, essenziale continua ad essere «la stabilità e l’efficienza della regolamentazione dei salari»
[267]
. In altri casi si è osservato che l’effettività di interventi di controllo sui prezzi tendenzialmente generali è dipesa dalla brevità del periodo di applicazione degli stessi
[268]
. Limitatamente alla nostra esperienza, poi, è nota la rilevanza che vi ha avuto la cosiddetta «inflazione da politica economica», l’incremento del tasso inflattivo, cioè, alimentato da decisioni pubbliche sul livello delle tariffe e dei prezzi amministrati
[269]
: cosicché l’aver circoscritto, nell’accordo tripartito, gli intenti di controllo a questi ultimi non sembra circostanza facilmente minimizzabile.
Note
[251] Le citazioni sono da Regini, I tentativi italiani di «patto sociale» a cavallo degli anni ’80, in «Il Mulino», 1984, p. 295.
[252] Sui tratti essenziali del quale e sui vincoli che ne derivano per l’azione sindacale, non solo nel nostro paese, si v. per tutti Baglioni, La questione sindacale in Europa: difficoltà crescenti ed esigenze di innovazione strategica, in Aa.Vv., L’Europa sindacale nel 1981, Bologna, Il Mulino, 1982, p. 11 ss.
[253] Merli Brandini, Intervento, alla tavola rotonda Politica salariale, politiche dei redditi e modelli di contrattazione sindacale, in «Quad. rass. sind.», 1984, n. 107, p. 5.
[254] La letteratura in argomento è sterminata. D’obbligo, comunque, è almeno il riferimento all’amplissima ricerca comparata di Flanagan, Soskice e Ulman, Unionism, economie stabilization, and incomes policies: european experience, Washington, The brookings institution, 1983.
[255] Nell’ordinamento danese, ad esempio, è consolidata la prassi di intervento del governo nelle relazioni industriali mediante l’imposizione di norme vincolanti anche in materia salariale. Notissima è, poi, la vicenda olandese, dove l’attuazione della politica dei redditi, avviata sin dall’immediato secondo dopoguerra, è sempre stata caratterizzata da una forte inclinazione dirigistica, soltanto allentata dalle tensioni conflittuali manifestatesi verso la fine degli anni ‘60. Per ragguagli più ampi in proposito si v. Roccella, La composizione dei conflitti di lavoro, Roma, Edizioni Lavoro, 1984, p. 69 ss.
[256] Tradizionale, al riguardo, è il riferimento al c.d. «social contract» inglese del periodo 1974-79; non va trascurato, peraltro, come l’esperienza britannica abbia anche conosciuto, precedentemente, forme più o meno autoritative di intervento pubblico nella determinazione della dinamica salariale, accostabili a quelle dei paesi ricordati prima: si v., in generale, Flanagan, Soskice, Ulman, op. cit., p. 363 ss., spec. 418 ss; Regini, Le condizioni dello scambio politico. Nascita e declino della concertazione in Italia e Gran Bretagna, in «Stato e Mercato», 1983, p. 353, spec. 373 ss. Più recentemente al modello indicato può ascriversi l’Accordo Economico-Sociale stipulato in Spagna, su base tripartita, nel 1984: in proposito cfr. Rodriguez-Piñero, L’impatto dell’Accordo Economico-Sociale sulle relazioni industriali, in corso di stampa in «Riv. it. dir. lav.», n. 1/1986.
[257] v. Pappalardo, Il governo del salario nelle democrazie industriali, Milano, Franco Angeli, 1985, p. 26 con riferimento all’esperienza austriaca, rispetto alla quale l’autore approfondisce opportunamente, in contrasto con l’opinione diffusa, anche il carattere, diverso ma connesso a quello accennato nel testo, largamente informale e rigorosamente extra-legale delle strutture concertative. In senso analogo si v. anche Giugni, Concertazione sociale e sistema politico in Italia, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1985, p. 55.
[258] Alf e Carrieri, Politiche dei redditi e contrattazione in Europa, in «Ires Materiali», supplemento al n. 2/1984, p. 6, con riferimento al caso svedese. Per analisi più dettagliate cfr. Flanagan, Soskice, Ulman, op cit., p. 301 ss.; Martin, La contrattazione in Svezia: politica dei redditi e coesione organizzativa, in «Stato e Mercato», 1981, p. 301 ss.
[259] I cui passaggi fondamentali sono a tutti noti: dall’accordo sul costo del lavoro del gennaio 1977 all’impegno, contenuto nell’annessa Dichiarazione, di evitare «richieste generalizzate di aumenti salariali» attraverso la contrattazione aziendale, alle direttive di moderazione rivendicativa impresse alla contrattazione successiva con la c.d. «linea dell’EUR».
[260] Così ancora Merli Brandini, Intervento, cit., p. 5.
[262] Cella, L’azione sindacale nella crisi italiana, in La crisi italiana, I, (a cura di Graziano e Tarrow), Torino, Einaudi, 1981, p. 287. L’opinione, naturalmente, appare più immediatamente riferibile alla (maggioranza della) CGIL; non va dimenticato, peraltro, come all’epoca anche la CISL fosse apertamente schierata a sostegno dell’ipotesi di partecipazione del PCI al governo. Una conferma dell’interpretazione, del resto, può ricavarsi a contrario, sol che si tenga presente che, non appena tramontata quella prospettiva politica, i sindacati si affrettarono a negoziare col nuovo governo un accordo di indicizzazione salariale per il pubblico impiego assai più vicino alle preoccupazioni egualitarie dei primi anni settanta che non a quelle di «austerità» degli anni immediatamente precedenti.
[263] Secondo la significativa terminologia usata da Tarantelli, Le politiche di rientro dall’inflazione, cit., p. 182.
[264] Limitandosi ai tratti essenziali dell’accordo, vanno ricordati, sotto il primo aspetto, le misure di proroga della fiscalizzazione degli oneri sociali (a favore degli imprenditori), di restituzione del fiscal drag e maggiorazione degli assegni familiari (a favore dei lavoratori); sotto il secondo aspetto l’impegno a contenere l’incremento medio ponderato annuo di tariffe, prezzi amministrati e prezzi sorvegliati nei limiti del tasso programmato di inflazione nonché a varare una serie di provvedimenti di riforma del mercato del lavoro. L’insieme di tali misure sembra alquanto sottovalutato da Regini (I tentativi, cit., p. 297). Al contrario, pur nella consapevolezza dell’inevitabile margine di approssimazione implicito in ogni tentativo di inquadramento in modelli precostituiti, pare ragionevolmente sostenibile che l’esperienza più recente, assai più di quella consumata negli anni della «solidarietà nazionale», sia accostabile allo schema del «contratto sociale». Se si riflette sui termini dello scambio avviato all’inizio del 1977 con l’accordo interconfederale sul costo del lavoro (nessun beneficio da parte del governo, del resto assente al tavolo negoziale, unitamente a una serie unilaterale di concessioni, di carattere sia salariale che normativo, dei sindacati alle imprese), almeno qualche indicazione, nel senso accennato, si potrà ricavare.
[265] Del tipo di quelle ricordate retro, in nota 259.
[266] Si v., in questo senso, D’Antona, Quale politica economica?, in «Poi. dir.», 1982, p. 354.
[267] Le citazioni sono da Pappalardo, op. cit., p. 12 (ivi ulteriori ragguagli sul punto).
[268] Cfr. Patriarca, La politica dei redditi e dei prezzi nella recente esperienza francese, in «Ires Materiali», 1984, 2, p. 7.
[269] Cfr. Ferri, Il patto anti-inflazione, cit., p. 313, opportunamente ricordando che proprio attorno alla manovra su tariffe e prezzi amministrati era incentrata una delle proposte di riforma della scala mobile che più hanno animato il dibattito di questi anni (quella prospettata da Paolo Sylos Labini).