Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c3
La riconduzione dell’esperienza di contenimento salariale, avviata all’inizio del 1983, sotto il paradigma delle politiche (concertate) dei redditi non pare seriamente revocabile in dubbio. Nessun argomento in contrario potrebbe trarsi dalla limitatezza della contestuale manovra di controllo sui prezzi. L’opinione secondo la quale il calmieramento di questi ultimi costituirebbe elemento
{p. 297}centrale di una politica dei redditi [266]
è tanto diffusa, quanto largamente infondata. Persino con riferimento alla vicenda austriaca, infatti, le analisi più attente hanno dovuto constatare, a proposito della Sottocommissione tripartita preposta al controllo dei prezzi, che l’azione di questa «è parziale, continuamente calante» e di «efficacia... pressoché nulla», concludendo nel senso che, anche in quel contesto di relazioni industriali, essenziale continua ad essere «la stabilità e l’efficienza della regolamentazione dei salari» [267]
. In altri casi si è osservato che l’effettività di interventi di controllo sui prezzi tendenzialmente generali è dipesa dalla brevità del periodo di applicazione degli stessi [268]
. Limitatamente alla nostra esperienza, poi, è nota la rilevanza che vi ha avuto la cosiddetta «inflazione da politica economica», l’incremento del tasso inflattivo, cioè, alimentato da decisioni pubbliche sul livello delle tariffe e dei prezzi amministrati [269]
: cosicché l’aver circoscritto, nell’accordo tripartito, gli intenti di controllo a questi ultimi non sembra circostanza facilmente minimizzabile.
Significativi, per converso, appaiono i risvolti istituzionali della politica concordata. Per quanto possa sembrare sorprendente, la formalizzazione non costituisce un tassello indefettibile delle politiche dei redditi: esperienze di particolare rilievo, e singolare durevolezza, si sono date anche in un contesto di larga informalità [270]
. Con l’accordo del gennaio ’83 si è voluto, comunque, introdurre anche questo elemento (della formalizzazione). L’intesa, diretta «per la prima volta esplicitamente ad ambedue i settori del lavoro dipendente» [271]
, pubblico e privato, poggia, infatti, quanto a quest’ultimo sull’assunzione anche di un vincolo giuridico ad evitare contrattazioni salariali a livello aziendale. L’altra gamba {p. 298}della politica dei redditi sarà apprestata, di lì a poco, nel settore del pubblico impiego, dove esigenze di accentramento della dinamica salariale si impongono, invero, anche per «ragioni di ordine istituzionale» discendenti «anzitutto dai vincoli costituzionali di controllo della spesa pubblica» [272]
, dalla legge 29 marzo 1983, n. 93, con la quale «si consolida la sanzione del divieto di trattamenti integrativi e di oneri aggiuntivi» [273]
rispetto a quelli fissati a livello nazionale, già prevista da specifiche discipline normative [274]
.
Più in generale, col patto tripartito si è inteso corredare la politica avviata di un minimo di istituzionalizzazione, finalizzata a garantirne l’effettività e, soprattutto, a darle continuità nel tempo, attraverso la previsione di periodici incontri, ad impulso governativo, per verificare il rispetto del vincolo assunto riguardo alla misura di incremento di tariffe e prezzi amministrati e sorvegliati; e, ancor più, con l’impegno a controllare, alla fine di ciascun anno, da parte dei tre attori coinvolti nel negoziato, l’andamento dell’inflazione rispetto al tasso programmato, «per valutare le misure di compensazione nel caso di scostamento». Si tratta, con tutta evidenza, di una istituzionalizzazione minima. Non la formalizzazione di strutture stabili di concertazione, né, tanto meno, l’introduzione nell’ordinamento di organismi pubblici di controllo sull’attuazione della politica dei redditi [275]
; più sempli{p. 299}cemente una (blanda) previsione di reiterare, a scadenze prefissate, la trattativa sulle modalità di prosecuzione di quella politica, non assistita da alcun impegno esplicito di rinnovare l’intesa [276]
.
Istituzionalizzazione «debole», dunque, ma, non per questo, priva di rilevanza. Tant’è vero che, proprio in ragione dell’esistenza della clausola menzionata, la Corte costituzionale ha potuto individuare un legame di continuità, anche giuridica, fra l’accordo del gennaio ’83 e i decreti legge n. 10 e 70/1984: al punto da poter sussumere — come si è già accennato — l’intera vicenda del negoziato anti-inflazione in una considerazione unitaria, dubitando che «i fenomeni così ricostruiti, pur non contrastando con la Costituzione, rientrino nel quadro tipizzato dall’art. 39» [277]
e, conseguentemente, escludendo, in base a tale osservazione assorbente rispetto agli argomenti discussi prima (retro, parag. 3.1), che con la predeterminazione legale dei punti di contingenza si sia in alcun modo leso il principio di libertà sindacale.
L’assunto iniziale della Corte può parzialmente condividersi. Parzialmente perché, se è indubbia l’esistenza di un nesso fra accordo del 1983 e decreti del 1984, le implicazioni d’ordine strettamente giuridico dello stesso non sembrano amplificabili oltre misura. Il collegamento fra accordo e decreti, in altre parole, si lascia apprezzare prima ancora che sul piano giuridico, su quello politico, e va ricercato, più che nella programmata verifica annuale sull’andamento dell’inflazione, nell’impegno assunto congiuntamente dal governo e dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e degli imprenditori «di far valere come vincolo alle loro decisioni e ai loro comportamenti i tassi di incremento dei prezzi al consumo nella misura annua del 13% per il 1983 ed entro una variazione al di sotto del 10% per il 1984».{p. 300}
La disposizione in questione, contenuta nel preambolo del protocollo del gennaio ’83, appare di cruciale importanza anche al fine di intendere il senso reale della clausola relativa alle verifiche annuali sull’andamento dell’inflazione, di per sé non priva di evidenti ambiguità. Curiosamente, infatti, non ha trovato particolare sottolineatura la circostanza che la verifica, avendo ad oggetto l’individuazione di misure di compensazione nel caso di scostamento fra inflazione effettiva e programmata, si sarebbe potuta interpretare in funzione della definizione di forme di recupero salariale, qualora la (maggiore) dinamica del fenomeno inflattivo non fosse ascrivibile all’evoluzione delle retribuzioni monetarie. Il che, appunto, è quanto avvenuto nel corso del 1983, laddove, a fronte di incrementi delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria complessivamente in linea col tasso programmato d’inflazione, l’attestarsi di quest’ultima, a fine anno, poco al di sotto della soglia del 15% è dipesa, in buona parte, da inadempienze governative sia in ordine al controllo di tariffe e prezzi, sia relative agli aumenti salariali concessi ai pubblici dipendenti [278]
.
Sull’interpretazione della clausola negoziale astrattamente sostenibile, fondata sulla lettera della norma ma non per questo priva di legittimità, ha prevalso, viceversa, l’intento politico, procla{p. 301}mato nel preambolo, di continuare ad operare per «il rientro graduale dell’inflazione». A tale obiettivo, anziché ad un possibile recupero salariale, si sono ritenute legate le «misure di compensazione», con valutazione unanime di tutti gli attori del negoziato: anche della CGIL, che dissentiva sullo strumento prescelto (la predeterminazione dei punti di scala mobile), ma sarebbe stata disposta a concordare una sospensione degli incrementi retributivi previsti dai rinnovi contrattuali dell’anno precedente [279]
.
Proprio questo appare il nocciolo della problematica giuridica coinvolta. Acquisito che la clausola dettata dal punto 7, lett. d) del protocollo di gennaio sia da intendersi prescrittiva di un mero obbligo a trattare, e non di un obbligo a contrarre, si tratta di giudicare se l’esito del negoziato debba necessariamente consistere in un nuovo accordo tripartito, o se, invece, alla constatata impossibilità di un’intesa unanime, si possa legittimamente supplire con un atto d’imperio del governo. La Corte costituzionale ha fatto propria la seconda alternativa. Pur ammettendo che l’insieme di fenomeni all’origine dei decreti n. 10 e 70/84 — ma già dell’accordo del gennaio ’83 — sia valutabile alla stregua di una vera e propria trattativa [280]
, la Corte ha ritenuto, infatti, di escludere che quest’ultima possa considerarsi una manifestazione fisiologica di attività sindacale, quale tipizzata nell’art. 39 Cost.: con conclusione elaborata attraverso una serie di passaggi logici che meritano di essere attentamente analizzati.
A giudizio della Corte le modalità dell’azione sindacale nel contesto di un’esperienza di concertazione sociale esulerebbero dal modello, e dalla garanzia di libertà, previsti dalla norma costituzionale innanzi tutto perché quest’ultima sarebbe stata pensata in funzione della contrattazione collettiva di categoria, piuttosto che di quella di livello interconfederale; in secondo luogo perché, comunque, la contrattazione sindacale «appare destinata a svolgersi in un diretto ed esclusivo rapporto fra le rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro», anziché con un intervento del governo «quale soggetto che assume a sua volta una serie di impe
{p. 302}gni politici, spesso assai precisi e rilevanti»; in terzo (e decisivo) luogo perché, a fronte di un negoziato in cui i sindacati non appaiono «separati dagli organi statali di governo, bensì cooperanti con essi», la conseguenza da trarre sarebbe nel senso «che gli interessi pubblici ed i fini sociali coinvolti da tali trattative debbono poter venire perseguiti e soddisfatti dalla legge, quand’anche l’accordo fra il governo e le parti sociali non sia raggiungibile» [281]
.
Note
[266] Si v., in questo senso, D’Antona, Quale politica economica?, in «Poi. dir.», 1982, p. 354.
[267] Le citazioni sono da Pappalardo, op. cit., p. 12 (ivi ulteriori ragguagli sul punto).
[268] Cfr. Patriarca, La politica dei redditi e dei prezzi nella recente esperienza francese, in «Ires Materiali», 1984, 2, p. 7.
[269] Cfr. Ferri, Il patto anti-inflazione, cit., p. 313, opportunamente ricordando che proprio attorno alla manovra su tariffe e prezzi amministrati era incentrata una delle proposte di riforma della scala mobile che più hanno animato il dibattito di questi anni (quella prospettata da Paolo Sylos Labini).
[270] Si v. quanto osservato retro, in nota 257, con riguardo all’Austria.
[271] Rusciano e Treu, Note introduttive, in Aa. Vv., Legge quadro sul pubblico impiego, in «Nuove leggi civ. comm.», 1984, p. 595.
[272] Ii., op. loc. ult. cit.
[273] Ghezzi, La legislazione del lavoro, in «Dem. e dir.», 1985, n. 3-4, p. 106.
[274] La caratterizzazione della contrattazione collettiva nel pubblico impiego come «disciplina dei livelli retributivi standard, non derogabili in melius se non nei limiti consentiti dagli accordi stessi», è ampiamente illustrata da Zoppoli, Commento sub. art. 11, in Aa.Vv., Legge quadro, cit., p. 655. L’insieme della disciplina legale, peraltro, risulta funzionale a una politica di regolazione centralizzata della dinamica salariale: sia attraverso la sottolineatura del ruolo negoziale riconosciuto alle confederazioni (art. 6), sia con la previsione che nel bilancio pluriennale dello Stato venga indicata «la spesa destinata alla contrattazione collettiva per il triennio, determinando la quota relativa a ciascuno degli anni considerati» (art. 15).
[275] Un esempio delle prime può essere considerata, tipicamente, la Commissione paritetica austriaca, di cui pure si è già ricordato il fondamento extra-legale e l’informalità delle procedure caratterizzante la sua azione. Quanto ai secondi, possono rammentarsi il Collegio dei mediatori pubblici, un tempo operante nel sistema olandese; il National Board for Prices and Incomes e il Pay Board introdotti nell’ordinamento britannico nel quadro delle politiche dei redditi degli anni ’60 e dei primi anni ’70; o, ancora, il Pay Board e il Price Advisory Committee legati al tentativo di National Accord sperimentato negli Usa durante la presidenza Carter.
[276] Un impegno a contrarre, limitato peraltro alle organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori, può, semmai, ravvisarsi nella clausola (punto 7, lett. c dell’accordo) a mente della quale «nel caso il governo proceda a variazioni delle imposte indirette... le parti si incontreranno — in via straordinaria —per concordare modalità e limiti di incidenza di tali variazioni sui prezzi dei beni che compongono il bilancio familiare, assunto a base di calcolo per la determinazione dell’indennità di contingenza».
[277] Corte cost., n. 34/1985, cit., p. 36.
[278] L’osservazione è comune: per tutti v. Tarantella Politica del lavoro, cit., p. 91 (anche per interessanti rilievi sugli errori tecnici, in ordine alla previsione del tasso d’inflazione programmata, alla base dell’accordo). Quanto alla misura degli incrementi retributivi riconosciuti ai lavoratori pubblici, si è sostenuto che l’accordo dovesse essere applicato nel settore con una certa elasticità, tenendosi conto di differenze nelle situazioni di partenza. Ma il rilievo è discutibile, se è vero che la credibilità di una politica dei redditi poggia, in misura non marginale, proprio sul comportamento dello Stato come datore di lavoro. Esempi recenti in questo senso, del resto, erano sotto gli occhi di chi avesse voluto guardare. Si pensi alla politica di moderazione salariale caldeggiata in questi anni dal governo socialista francese e applicata in primo luogo, e con particolare fermezza, nell’ambito del pubblico impiego: sul punto si v. Ortoli e Bescond, Politique salariale: la France à l’heure européenne, in «Intersocial», 1982, n. 84, p. 21 ss.; Mouriaux, Tendenze recenti delle relazioni industriali in Francia, in «Quad. rass. sind.», 1985, n. 112, p. 105. Più in generale cfr. le riflessioni comparate di Clarke, Interazioni tra la contrattazione collettiva e la politica governativa nei paesi occidentali dal 1973, in Aa.Vv., Salario, inflazione e relazioni industriali in Europa (a cura di Addis e Tarantelli), Venezia, Marsilio, 1984, p. 110 ss. Secondo questo a. le politiche di contenimento salariale praticate in molti paesi, dall’inizio degli anni ’80, nel settore pubblico, non sono state «intese solo a risparmiare sulla spesa pubblica ma anche per fare da esempio al settore privato» (p. 112).
[279] Sul punto cfr. Di Vezza, Le modifiche al sistema di calcolo della scala mobile, cit., p. 119.
[280] A proposito dell’accordo del gennaio ’83 la Corte parla del «frutto dichiarato di trattative triangolari»; la verifica dell’intesa, realizzata all’inizio dell’84, viene a sua volta definita una «trattativa» non approdata ad esito positivo.
[281] Tutte le citazioni sono da Corte cost., n. 34/1985, cit., p. 36.