I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c3
A ben guardare, peraltro, il principio costituzionale di cui la Corte paventava, in modo particolare, la possibile (e, anzi, probabile) lesione in conseguenza del progressivo manifestarsi degli effetti della deindicizzazione dell’indennità di anzianità, era piuttosto quello di uguaglianza, come risulta dall’invito, rivolto al legislatore, «a por mano... ad adeguati bilanciamenti... anche in relazione alle diverse conseguenze che potrebbero prodursi a carico dei lavoratori, penalizzando coloro che percepiscono retribuzioni meno elevate»
[157]
.
¶{p. 262}
Lo spunto contenuto nella decisione riguardante gli effetti della deindicizzazione delle liquidazioni costituisce, ad ogni modo, la massima concessione della giurisprudenza costituzionale alle censure di incostituzionalità per violazione dell’art. 3 variamente proposte nei confronti della legislazione in materia retributiva. Per il resto, la Corte ha opposto alle diverse prospettazioni dei giudici di merito un atteggiamento di netta chiusura, seppur talvolta non privo di una vena di imbarazzata perplessità
[158]
. Con riferimento ad interventi legislativi attinenti, in più o meno ampia misura, a scelte di politica economica del Governo, la Corte, in altre parole, è sembrata ritenere non opportunamente invocata la violazione del principio di uguaglianza, considerando le argomentazioni basate su di essa, in buona sostanza, in bilico lungo l’incerta linea di confine fra giuridico» e «politico»: con netta propensione ad invadere, appunto, quella sfera di discrezionalità politica del legislatore alle soglie della quale deve arrestarsi il giudizio di costituzionalità
[159]
. Discutere in termini di violazione del principio di uguaglianza provvedimenti, quali quelli che hanno disposto la corresponsione della contingenza in Bpt o imposto il «taglio» di alcuni punti di scala mobile, non pare possibile ai giudici costituzionali se non spostandosi sul piano della valutazione ¶{p. 263}degli effetti della manovra economica disegnata dal Governo. Laddove, per la Cone, l’unico profilo di effettività rilevante resta quello relativo alla congruenza fra il fine dichiarato dal legislatore (abbassamento del tasso di inflazione) e il mezzo prescelto (contenimento della dinamica retributiva automatica). Un profilo, peraltro, insondabile, a fronte di normative che paiono, in definitiva, trovare in se stesse la propria ragione giustificatrice, una volta assunto il presupposto che «dal punto di vista del contenimento dell’inflazione, i meccanismi di indicizzazione sul tipo della scala mobile danno infatti luogo a peculiari motivi di difficoltà, che non sono omogenei rispetto a quelli concernenti le categorie per le quali non operano i meccanismi stessi»: cosicché finisce con l’apparire obbligata la conclusione per cui non gioverebbe «comparare... la condizione dei lavoratori dipendenti con quella dei percettori di altri redditi; poiché raffronti siffatti si prestano ad essere operati e discussi sul piano politico..., ma non bastano a determinare l’illegittimità costituzionale della norma denunciata»
[160]
.
L’opinione appena riferita, espressa nel giudizio di costituzionalità del decreto che ha stabilito la c.d. predeterminazione dei punti di scala mobile, era già stata formulata, in termini sostanzialmente analoghi, nella sentenza relativa al provvedimento di corresponsione della contingenza in Bpt
[161]
. In entrambe le occa¶{p. 264}sioni non sembra che si siano compiutamente valutate le eccezioni di incostituzionalità
[162]
o, almeno, che si sia evitato il ricorso ad argomenti discutibili
[163]
, se non apertamente contraddittori
[164]
. Il precedente costituito dalla decisione sulla legge n. 797/1976, peraltro, avrebbe dovuto rendere avvertiti della vanità di «cercare ¶{p. 265}nella giurisprudenza costituzionale risposte conclusive o coerenze logico-giuridiche, in realtà improbabili»
[165]
. Soprattutto con riferimento alle censure fondate sull’asserita violazione del principio di uguaglianza si sarebbe a priori potuto «prendere atto che, in questa dimensione, la razionalità “materiale” prevale su quella “formale”»
[166]
nelle pronunce della Corte.
Ciò non impone, peraltro, di condividere «la convinzione... che in tema di osservanza del principio costituzionale di uguaglianza sia lecito dire tutto ed il contrario di tutto, anche contemporaneamente»
[167]
. Almeno con riguardo alla decisione che ha ritenuto la legittimità costituzionale della normativa abolitrice delle scale mobile «anomale», valutata alla stregua di «un passo verso l’attuazione del principio di uguaglianza»
[168]
in materia retributiva, va espresso il più netto dissenso.
Si è già argomentato, infatti (v. retro, parag. 2), come l’opinione che ha creduto di ravvisare in quella disciplina finalità perequative sia tanto diffusa
[169]
, quanto infondata. Né la sentenza appare giustificabile in base al rilievo che le ordinanze di rinvio non avevano esplicitamente posto all’attenzione della Corte quella parte della legge che manteneva in vita le scale mobili deteriori. Non occorre un grande sforzo di fantasia per immaginare che la legge sarebbe stata comunque fatta salva, utilizzando l’armamentario concettuale elaborato in occasione della decisione n. 45/1978: legittimando, in altre parole, la soppressione delle scale mobili anomale come attuazione del principio che il trattamento di contingenza dev’essere contenuto entro certi limiti; il mantenimento di quelle deteriori come traduzione dell’esigenza che il medesimo trattamento sia comune per tutti i lavoratori interessati, ma soltanto in linea di massima, essendo ben possibili degli scostamenti al ribasso rispetto al livello assunto come standard. Il tutto, si capisce, in piena osservanza del combinato disposto di cui agli artt. 3 e 36 Cost. ¶{p. 266}
La compatibilità dei provvedimenti legislativi in materia retributiva col quadro giuridico costituzionale è stata, ad ogni modo, notoriamente messa in dubbio soprattutto con riguardo alla prospettata violazione del principio di libertà di contrattazione collettiva, inteso, secondo una consolidata tradizione interpretativa, come «la forma concreta, e comunque prevalente, di svolgimento»
[170]
della garanzia di libertà sindacale apprestata dall’art. 39 Cost. Dubbio, evidentemente, di consistente spessore se, per superarlo, la Corte costituzionale non ha trovato di meglio, almeno in un primo momento, che ricorrere ad argomentazioni «deludenti e formalistiche»
[171]
; la dottrina, per parte sua, ha ritenuto necessario dedicarvi un notevole sforzo di elaborazione, che merita, nelle sue linee di fondo, di essere ricordato
[172]
.
Nei confronti dei primi interventi del legislatore, per intendersi quelli del periodo 1976/77, è stata, innanzitutto, avanzata l’opinione che la legittimità degli stessi si sarebbe potuta affermare qualora i loro contenuti fossero stati «di mera trasposizione o di recezione di contenuti contrattuali, divenuti legge per esigenze di ordine tecnico-giuridico (generalizzazione dell’efficacia e delle sanzioni)»: come dire che «ogni politica restrittiva in materia di rapporti sindacali può trovare la sua sanzione finale nel provvedimento di autorità», purché abbia «la sua fonte nel consenso delle organizzazioni dei lavoratori»
[173]
. La tesi si segnala per la sua indubbia tensione alla valorizzazione della sfera di libertà propria dell’autonomia collettiva, nel rispetto di quel disegno di bilanciamento fra poteri normativi diversi che sembra emergere dal com
¶{p. 267}plesso delle norme costituzionali in materia di rapporti economici
[174]
. Con riferimento, peraltro, alle norme di legge in esame, se ne è contestata la possibilità di utile riscontro, giacché le medesime dal punto di vista oggettivo avrebbero forzato (come si è già detto: v. retro, parag. 2), in più o meno ampia misura, i termini dell’accordo sindacale, implicando, oltre tutto, un’inamissibile limitazione della futura attività contrattuale degli stessi sindacati, in ipotesi, consenzienti all’intervento del legislatore, attraverso la previsione di nullità di tutte le clausole contrattuali, relative alla materia regolata, difformi dal modello legale
[175]
. Dal punto di vista soggettivo, poi, esse si baserebbero sul (supposto) consenso solo di alcune organizzazioni sindacali, mentre gli effetti ne ricadrebbero nella sfera di autonomia di tutti i lavoratori (anche non iscritti) e, soprattutto, di tutti i sindacati
[176]
. Più radicalmente, si è obbiettato che far dipendere la legittimità costituzionale di una legge dal previo consenso dei sindacati interessati, significherebbe attribuire a questi ultimi «una funzione di valutazione e formulazione dell’interesse generale preminente e vincolante rispetto al parlamento»
[177]
, estranea alla cornice istituzionale del nostro sistema: concludendosi nel senso che quel consenso può, al più, essere riguardato «nell’assetto attuale dei rapporti di forza come una condizione di effettività della legge», ma non certo come «una condizione necessaria e sufficiente di legittimità costituzionale»
[178]
.
Note
[157] Corte cost., n. 142/1980, cit., c. 2646. L’osservazione della Corte è stata contestata (da Dell’Olio, Emergenza e costituzionalità. (Le sentenze sulla scala mobile e il «dopo»), in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1981, p. 17) ma risulta, in sé, ineccepibile, stante la strutturale inidoneità della legge a colpire il fenomeno delle c.d. «liquidazioni d’oro», connesse a retribuzioni-base molto elevate e/o all’applicazione di coefficienti di calcolo parimenti esorbitanti rispetto alla media (ad es. 54/30 della retribuzione mensile per ogni anno di servizio): sul punto si v. Alleva, Automatismi, cit., p. 136 ed anche Ghera, Prospettive di riforma, cit., p. 515.
[158] Manifesta, ad esempio, nella sentenza relativa all’abolizione delle scale mobili anomale, in cui, constatata, rispetto al precedente costituito dalla 1. n. 797/1976, «la maggiore ampiezza subiettiva del sacrificio, che coinvolge tutti i dipendenti e non i lavoratori titolari di compensi elevati», si osserva che l’intervento del legislatore appare correre «sul filo dell’incostituzionalità». Per altro verso il principio di uguaglianza risulta, dalla Corte, valorizzato in positivo nei confronti della medesima legge: in proposito si v. le considerazioni svolte infra nel testo. Incertezze quanto alla conformità della legislazione in materia retributiva al canone fissato dall’art. 3 Cost, si sono, del resto, largamente manifestate anche in dottrina. In relazione al più recente provvedimento di predeterminazione dei punti di scala mobile si v., ad esempio, Pera, Sulla costituzionalità o no del decreto legge del governo Craxi sulla contingenza, in «Giust. civ.», 1984, I, p. 1652 ss.; e, soprattutto, l’attenta disamina di Zoppoli, op. cit., p. 20 s.
[159] Esemplare, in questo senso, il notissimo giudizio con cui la Corte, pur astenendosi da una pronuncia di incostituzionalità, ha bollato la legge relativa alla corresponsione della contingenza in Bpt: «Certo, la tendenza del Parlamento a battere le vie di sempre e — per uscire di metafora — a non muovere alla ricerca di “ricchezze novelle” meno agevolmente identificabili può non essere disconosciuta, ma trattasi di giudizio politico, riservato agli elettori e alle forze sociali, cui la Corte non può sostituirsi».
[160] Entrambe le citazioni sono da Corte cost., n. 34/1985, cit., p. 39. Per l’infondatezza dell’eccezione di incostituzionalità ex art. 3 si v. Pret. Pavia, cit.; nel senso della non manifesta infondatezza si v. invece Pret. Roma e Pret. Sestri Ponente citt., nonché, in relazione al decreto legge n. 10/1984 poi decaduto per mancata conversione in legge entro i termini costituzionalmente previsti, Pret. Bologna, 12 marzo 1984 (ordin.), in «Giust. civ.», 1984, I, p. 1643 (secondo la quale dal parametro di cui all’art. 3 Cost, si sarebbe ricavato «il ventaglio più ampio ed immediato dei motivi di censura» della normativa); Pret. Genova, 31 marzo 1984 (ordin.), in «Lavoro ’80», 1984, p. 401 ss.
[161] Allora, infatti, era stato sostenuto che «non essendo identiche le situazioni dei “colpiti” e degli indenni, l’art. 3 sarebbe non a proposito invocato... sia per quel che concerne la discriminazione tra le varie forme di indicizzazione per essere diverse le finalità pratiche, cui sono indirizzati i meccanismi in esame ed altre clausole, che mirano in vario modo a salvaguardare il potere d’acquisto della moneta legale, sia perché sono diversi gli ambienti economico-finanziari, nei quali operano da un lato le tre categorie di destinatari e dall’altro lato le categorie non chiamate a far le spese della incentivazione di attività produttive» cui risultavano destinati, secondo l’art. 5 della 1. n. 797/1976, gli importi ricavati dal prestito forzoso. Che la scelta del legislatore, dal punto di vista del rallentamento del processo inflazionistico, non potesse ritenersi «pretestuosa, arbitraria o manifestamente illogica» era già parso a Pret. Roma, 28 marzo 1978 (ordin.), in «Foro it.», 1978, I, c. 1573, che, appunto perciò, aveva ritenuto manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità ex art. 3.
[162] L’eccezione di incostituzionalità ex art. 3 del decreto sulla predeterminazione dei punti di scala mobile, ad esempio, era stata prospettata anche in considerazione del fatto che la normativa colpiva indistintamente i redditi più bassi e quelli più elevati (Pret. Roma, cit.), senza predisporre «alcuna forma di controllo o di indirizzo ai fini pubblici delle somme risparmiate» come compensazione del «massiccio trasferimento di ricchezza dai lavoratori subordinati ai datori di lavoro» (Pret. Sestri Ponente, cit.). Quanto al primo rilievo, per la verità, si potrebbe pensare che una risposta la Corte l’abbia data, accennando alla compensazione, presente nello stesso decreto-legge, rappresentata dalla «nuova disciplina degli assegni familiari, introdotta... con il preciso scopo di alleviare il sacrificio riguardante i lavoratori a basso reddito»: ma si tratta di risposta debole, anche perché non sembra che quella disciplina contenga agevolazioni esclusivamente per i lavoratori che, almeno nell’accezione comune, vengono considerati « a basso reddito».
[163] Con riferimento alla legge n. 797/1976 si è già ricordata (v. retro in nota 77) l’affermazione della Corte secondo la quale esorbitasse dai suoi compiti di verificare in qual modo si fossero identificati i destinatari della normativa ulteriori rispetto ai percettori di reddito da lavoro subordinato e di trattamenti pensionistici: un modo elegante per evitare di rispondere al quesito se le modificazioni al decreto originario apportate in sede di legge di conversione avessero una concreta portata precettiva o non fossero piuttosto un escamotage finalizzato ad evitare una dichiarazione di incostituzionalità. Il carattere marcatamente politico delle argomentazioni della Corte emerge, poi, con particolare evidenza nella decisione n. 34/1985, laddove la censura ex art. 3 Cost. è respinta anche in base alla considerazione che «la norma in discussione non è sprovvista... di una intrinseca ragione giustificativa», giacché i lavoratori dipendenti «risultano cointeressati alla soluzione dei problemi del costo del lavoro e della scala mobile in particolare...», potendosi ravvisare «un nesso fra le manovre del genere in esame e la tutela del valore reale delle retribuzioni complessivamente intese».
[164] Valorizzandosi, da un canto, nella sentenza n. 34/1985 le misure compensative del « taglio » dei punti di scala mobile, ma sostenendosi poi (nella successiva decisione 7 febbraio 1985, n. 35 con cui si è giudicato ammissibile il referendum per l’abrogazione parziale della legge 12 giugno 1984, n. 219) che tali «misure si differenziano profondamente sia per i loro contenuti, sia per i soggetti che vi sono interessati»: come dire che esse, pur comportando sicuramente dei benefici per i percettori di redditi da lavoro subordinato, non ridondavano esclusivamente a vantaggio di questi ultimi.
[165] Mariucci, La contrattazione collettiva, cit., p. 334.
[166] Id., op. loc. ult. cit.
[167] Magrini, op. cit., p. 165.
[168] Corte cost., 30 luglio 1980, n. 141, cit., c. 2652.
[169] Oltre agli autori citati in nota 89 si v. Ventura, Intervento alla tavola rotonda su La disdetta della scala mobile, cit., p. 533; l’opinione del quale, peraltro, sembra ora espressa in termini più problematici ne Il principio di uguaglianza nel diritto del lavoro, Milano, Giuffré, 1984, p. 30 s.
[170] Mariucci, op. ult. cit., p. 331. Per l’interpretazione del principio di libertà sindacale nel senso indicato nel testo si v. per tutti Giugni, Commento sub art. 39, in Commentario della Costituzione (a cura di Branca), Bologna, Zanichelli, 1979, p. 280 ss.; da ultimo De Luca Tamajo, L’evoluzione dei contenuti e delle tipologie della contrattazione collettiva, in «Riv. it. dir. lav.», 1985, I, p. 54.
[171] L’espressione è di R. Greco, Diritto del lavoro dell’emergenza e libertà dell’azione sindacale. Note per una valutazione di costituzionalità dopo l’intervento della Corte costituzionale sulla normativa del 1977/78, in «Foro it.», 1981, I, c. 13. Sul punto, comunque, vi è largo consenso, parlandosi di «mancato o ridotto esame delle censure ex art. 39» (Dell’Olio, Emergenza e costituzionalità, cit., p. 23); di «risposte... sfuggenti ed elusive» (Mariucci, op. ult. cit., p. 333; di «non sentenza» (Pera, Il trattamento di fine rapporto, in «Dir. Lav.», 1983, I. p. 9).
[172] Per una sintesi riepilogativa si v. Ferraro, Ordinamento, cit., p. 343 ss; Mariucci, op. ult. cit., p. 334 ss.
[173] Le citazioni sono da Giugni, Parlamento e sindacati, cit., p. 370.
[174] Come tale non va minimamente confusa con l’opinione, a suo tempo avanzata, tendente a far discendere dall’art. 39 una sorta di riserva di competenza normativa a favore dei sindacati per il regolamento dei rapporti di lavoro: in proposito si v., per tutti, Mazzarelli, Il disegno di legge per l’applicazione erga omnes dei contratti collettivi di lavoro, in «Riv. giur. lav.», 1959, I, p. 359 ss.; Carullo, Diritto sindacale transitorio, Milano, Giuffré, I960, p. 134 e 150-151.
[175] Cfr. De Luca Tamajo, Leggi sul costo del lavoro, cit., p. 160.
[176] Id., op. loc. cit.; nonché Vallebona, Costo del lavoro e autonomia collettiva, in «Dir. lav.», 1978, I, p. 365 ss.
[177] Mengoni, Un nuovo modello di rapporti tra legge e contratto collettivo, in «Jus», 1979, p. 119.
[178] Id., op. cit., p. 119 s.