Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c3
I criteri enunciati nelle due sentenze ricordate sono stati utilizzati, implicitamente o esplicitamente, dai giudici della Consulta nella risoluzione delle questioni di costituzionalità prospettate nei
{p. 257}confronti della legislazione in materia retributiva con riferimento all’art. 36 e anche all’art. 3 Cost.
Con riguardo alla corresponsione della contingenza in Bpt e alla soppressione delle scale mobili «anomale» la violazione del principio di sufficienza retributiva è stata, per la verità, negata, apparentemente, in base al rilievo generale, in sé difficilmente contestabile, che siffatto principio «non acquisisce spessore al livello di giudizio di legittimità costituzionale delle norme», spettando al giudice di merito «investito della conformità a detto criterio del salario del singolo lavoratore», verificarne la corrispondenza, o meno, al precetto posto dall’art. 36. L’affermazione, più agevole in relazione alla 1. n. 797/1976, che, dopo tutto, appariva circoscritta alla (temporanea) compressione di retribuzioni medio-alte, sembra estensibile alla Corte anche alla disciplina abolitrice delle scale mobili «anomale», giacché, se è vero che con questo secondo intervento la legge «provoca in concreto sacrifici che crescono con la compressione dei redditi», anche in questo caso «la reazione a tali conseguenze, di cui non va dissimulata l’estrema gravità, può essere attuata nei giudizi, in cui il singolo lavoratore ben potrà nei confronti del datore invocare il rispetto del minimo vitale» [143]
.
Dietro l’affermazione di principio, espressa «in conformità di ben consolidati orientamenti giurisprudenziali» [144]
, non sembra, peraltro, forzato ritenere che agisse il convincimento secondo il quale non sarebbe stato possibile dichiarare l’illegittimità costituzionale di normative che non avevano inciso sull’intera dinamica retributiva, ma soltanto su un elemento (automatico) di essa, già considerato, nella sentenza n. 43/80, come uno strumento né unico, né tanto meno giuridicamente necessario, di attuazione della garanzia costituzionale. Con riferimento alle leggi n. 797/1976 e 91/1977 è ragionevole pensare che la Corte non abbia voluto manifestare apertis verbis la propria opzione di fondo non per una banale ragione di disattenzione (difficilmente accreditabile a soli tre mesi di distanza dalla precedente sentenza), ma per il timore che il principio, affermato in occasione di un giudizio riguardante rapporti di pubblico impiego, non fosse meccanica{p. 258}mente estensibile in relazione a fattispecie relative, almeno in via principale, a rapporti di lavoro privato e, conseguentemente, a livelli retributivi definiti non dal legislatore (come nel caso della 1. n. 21/1977), ma dalle parti collettive.
Che le cose stiano nei termini prospettati sembra confermato dalla sentenza 7 febbraio 1985, n. 34 con la quale la Corte, superando d’emblée le remore che avevano condizionato le motivazioni della decisione n. 141/1980, ha giudicato conforme al parametro di sufficienza retributiva fissato dall’art. 36 Cost. il decreto di «taglio» della scala mobile proprio in base all’assunto che i meccanismi di indicizzazione non sono stati costituzionalizzati, né «valgono comunque ad integrare il primo comma dell’art. 36» [145]
. La persuasività dell’argomentazione, va subito detto, appare inversamente proporzionale alla sua ridondanza. La Corte, anche in tale circostanza, si sarebbe potuta limitare, in sintonia, del resto, con sollecitazioni tempestivamente formulate dalla dottrina [146]
, a ribadire l’orientamento espresso in relazione alle precedenti, consimili, fattispecie normative. E non vi sarebbe stato nulla da obbiettare, stante la perdurante carenza nell’ordinamento di un sistema legale di fissazione del salario minimo, che rende tuttora impossibile dire alcunché di certo, e soprattutto con carattere di generalità, in tema di retribuzione sufficiente [147]
, al di fuori delle aule giudiziarie.
Ma ha voluto, palesemente, andare oltre, sostenendo l’insufficienza di quell’orientamento, sulla scorta del rilievo che, nel caso di specie, le ordinanze di rimessione avevano prospettato «l’esistenza di un diretto contrasto tra l’art. 3 del d.l. n. 70/1984 ed il primo comma dell’art. 36» [148]
: rilievo assai discutibile ed anzi, in verità, estremamente fragile, giacché, come si è puntualmente os{p. 259}servato, «anche nei precedenti il contrasto era prospettato negli stessi termini» [149]
.
La sensazione di una motivazione poco convinta (ancor prima che poco convincente) riesce difficile da rimuovere anche, e forse soprattutto, con riferimento agli argomenti addotti per respingere la censura di incostituzionalità ex art. 36 sotto il profilo della violazione del criterio della proporzionalità retributiva. L’eccezione di incostituzionalità viene, in questo caso, ritenuta infondata dalla Corte in base alla (sola) considerazione che «non è pertinente il richiamo all’esigenza che le retribuzioni siano proporzionate alla quantità e qualità del lavoro prestato, essendo ben noto che il cosiddetto punto unico della scala mobile ha determinato un notevole appiattimento delle retribuzioni stesse» [150]
.
A tutta prima l’assunto potrebbe sembrare sorprendente o, almeno, contraddittorio con l’orientamento espresso nella sentenza n. 45/1978, apparentemente ispirato a un’ampia valorizzazione dei sistemi di contingenza a punto unico, se non fosse che in quell’occasione la Corte, come si è creduto di dimostrare, non aveva affatto inteso sciogliere un peana all’egualitarismo salariale, ma piuttosto affermare l’esigenza che i meccanismi automatici di adeguamento retributivo restino contenuti entro certi limiti: da questo punto di vista, anzi, l’affermazione della sentenza in commento conferma la sostanziale esattezza dell’interpretazione offerta con riguardo al precedente del ’78. Fatto è che la medesima affermazione sembra inconferente rispetto alla concreta questione di costituzionalità posta dai giudici di merito [151]
, che non potrebbe essere risolta, come pensa la Corte, attraverso il ricorso a un criterio di comparazione fra livelli retributivi diversi, laddove le {p. 260}ordinanze di rinvio, facendo riferimento «al lavoro prestato nella stessa quantità e qualità» cui sarebbe conseguita «una retribuzione con potere d’acquisto diminuito rispetto a quella corrisposta nel periodo precedente» [152]
o ancora alla diminuzione di una delle prestazioni» senza che fosse modificata «la controprestazione dovuta al datore di lavoro» [153]
, mostravano chiaramente di intendere la prospettata violazione dell’art. 36 Cost, come lesione del rapporto di proporzionalità fra (singola) prestazione retributiva e (singola) controprestazione lavorativa.
Ancora una volta, in altre parole, la Corte ha scelto di affrontare il problema che le stava dinanzi da un’angolazione assai discutibile, pur avendo a disposizione argomenti assai più lineari. Pur potendo, ad esempio, ragionevolmente sostenere che neanche sotto il profilo della proporzionalità retributiva è possibile affermare, in termini generali, una violazione dell’art. 36 Cost., giacché il rapporto di proporzionalità fra salari e lavoro non trova espressione in valori fissi, costanti, «oggettivi», ma appare piuttosto la risultante di instabili equilibri legati all’operare di forze di mercato, e perciò soggetto a periodiche oscillazioni, verso l’alto ma anche verso il basso, come dimostra l’esperienza della contrattazione collettiva nei diversi contesti industriali (e nei diversi periodi storici) [154]
.
Cosicché resta alla fine il dubbio che, in luogo di un inquadramento giuridico della problematica, la Corte costituzionale abbia preferito esternare nuovamente il proprio giudizio negativo sulla scala mobile, considerata inessenziale (dal punto di vista della sufficienza retributiva), e controproducente (in ordine alla valorizzazione delle diverse professionalità).
Dubbio rafforzato dalla considerazione che, già in passato, la Corte aveva mostrato di percepire la relatività del nesso fra retri{p. 261}buzioni e (quantità e qualità del) lavoro, salvando da una dichiarazione di incostituzionalità la normativa con cui si era decisa l’espunzione della contingenza dalla base di calcolo delle liquidazioni in via, per così dire, «transitoria»: in base al rilievo, cioè, che, al momento del giudizio, l’intervento del legislatore non aveva ancora arrecato «offesa in misura censurabile... al criterio della quantità del lavoro, assunto come durata del rapporto a componente di calcolo del quantum dell’indennità, in tali sensi garantito dall’art. 36» [155]
. Nel che era implicita la convinzione che un’alterazione del rapporto di proporzionalità fra i due termini di riferimento, preesistente a quell’intervento, si era comunque già verificata, potendo «nel futuro... in difetto di congrue compensazioni» derivarne «squilibri più gravi di quelli già in atto» [156]
.
A ben guardare, peraltro, il principio costituzionale di cui la Corte paventava, in modo particolare, la possibile (e, anzi, probabile) lesione in conseguenza del progressivo manifestarsi degli effetti della deindicizzazione dell’indennità di anzianità, era piuttosto quello di uguaglianza, come risulta dall’invito, rivolto al legislatore, «a por mano... ad adeguati bilanciamenti... anche in relazione alle diverse conseguenze che potrebbero prodursi a carico dei lavoratori, penalizzando coloro che percepiscono retribuzioni meno elevate» [157]
.
{p. 262}
Note
[143] Tutte le citazioni sono da Corte cost., 30 luglio 1980, n. 141, cit., c. 2649 e 2652.
[144] ivi, c. 2652.
[145] Corte cost., 7 febbraio 1985, n. 34, in «Nuove leggi civ. comm.», 1985, p. 37.
[146] cfr. Vallebona, Limiti legali, cit., p. 218; De Angelis, Riflessioni sulle prime misure contro l’inflazione, in «Riv. it. dir. lav.», 1984, I, p. 314 s.; Zoppoli, op. cit., p. 19. In giurisprudenza l’eccezione di incostituzionalità ex art. 36 è stata ritenuta manifestamente infondata da Pret. Pavia, 21 maggio 1984 (ordin.), in «Riv. Giur. Lav.», 1984, II, p. 14 ss. Quanto alla circostanza che, nel caso di specie, l’intervento del legislatore si sarebbe verificato in costanza di un «blocco» della contrattazione in materia retributiva si v. i rilievi svolti retro, parag. 2 e nota 79.
[147] Per un cenno in questo senso si v. Zoppoli, op. cit., p. 19.
[148] Corte cost., n. 34/1985, cit., p. 37.
[149] Magrini, Sulla legittimità costituzionale della predeterminazione legislativa delle variazioni dell’indennità di contingenza nel semestre febbraio-luglio 1984, in «Riv. it. dir. lav», 1985, II, p. 164.
[150] Corte cost., n. 34/1985, cit., p. 37.
[151] Non diversamente dall’opinione espressa in dottrina (da Zoppoli, op. cit., p. 20), secondo la quale una censura di incostituzionalità ex art. 36 per violazione del canone della proporzionalità retributiva «non pare comunque riferibile ad un provvedimento che, riguardando nella stessa misura tutti i lavoratori, lascia inalterati i preesistenti rapporti relativi fra qualità e quantità del lavoro e livelli di retribuzione». Anche con questa argomentazione si utilizza, in buona sostanza, un criterio comparativo fra livelli di retribuzione, aggirando, piuttosto che affrontando, l’obiezione di costituzionalità prospettata nelle ordinanze di rinvio.
[152] Pret. Roma, 12 giugno 1984 (ordin.), in «Riv. giur. lav.», 1984, II, p. 35.
[153] Pret. Sestri Ponente, 5 luglio 1984 (ordin.), in «Foro it.», 1984, I, c. 2019.
[154] Per altro verso, se la prospettata lesione del principio di proporzionalità retributiva si ritenesse in re ipsa nell’alterazione legale dei livelli salariali posti dalla contrattazione collettiva, essa riguarderebbe piuttosto la violazione del combinato disposto degli artt. 36 e 39 co. 1° Cost., riversandosi senza residui nella problematica connessa al rispetto da parte del legislatore del principio di libertà sindacale. In questo senso, ad esempio, sembra che la questione venga, sostanzialmente, posta da Mariucci, La contrattazione collettiva, cit., p. 344. Sul punto si v. le considerazioni svolte infra nel testo.
[155] Corte cost., 30 luglio 1980, n. 142, in «Foro it.», 1980, I, c. 2646. Di passata si può ricordare come la violazione dell’art. 36 sia stata presa in considerazione dalla Corte esclusivamente sotto il profilo della proporzionalità. La possibilità che l’intervento legislativo, incidente su un elemento di retribuzione differita, potesse concretare una lesione del principio di retribuzione sufficiente era stata esclusa dalla dottrina (quasi) unanime, rilevandosi che tale principio deve ritenersi circoscritto nella sua sfera applicativa al salario corrente. In questo senso si v., per tutti, Mazzamuto e Tosi, Norme per l’applicazione, cit., p. 202 e, in senso dubitativo, Cester, I recenti provvedimenti, cit., p. 263 ss.
[156] Corte cost., n. 142/1980, cit., c. 2646.
[157] Corte cost., n. 142/1980, cit., c. 2646. L’osservazione della Corte è stata contestata (da Dell’Olio, Emergenza e costituzionalità. (Le sentenze sulla scala mobile e il «dopo»), in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1981, p. 17) ma risulta, in sé, ineccepibile, stante la strutturale inidoneità della legge a colpire il fenomeno delle c.d. «liquidazioni d’oro», connesse a retribuzioni-base molto elevate e/o all’applicazione di coefficienti di calcolo parimenti esorbitanti rispetto alla media (ad es. 54/30 della retribuzione mensile per ogni anno di servizio): sul punto si v. Alleva, Automatismi, cit., p. 136 ed anche Ghera, Prospettive di riforma, cit., p. 515.