Note
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La forte identificazione dell’operaio qualificato con il mestiere «gli conferisce un’identità personale e un ruolo professionale rispettabili sia sul lavoro che nella comunità»: R. Blauner, Alienazione e libertà, Milano, Franco Angeli, 1971, p. 97.
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«Ogni mestiere è un’arte», scriveva H. De Man in quel capolavoro di interpretazione sociologica, così vicina e consentanea al movimento operaio, che è La gioia del lavoro, Bari, Laterza, 1931, p. 183. «L’unità di lavoro era l’uomo in quanto creatura intelligente», affermò dal canto suo W. Morris trasfigurando con nostalgia l’evo delle corporazioni: cfr. Come potremmo vivere,Roma, Editori Riuniti, 1979, p. 78.
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Cfr. C. Napoleoni, Sfruttamento, alienazione e capitalismo,«La rivista trimestrale», n. 7-8, settembre-dicembre 1963, p. 402. In questa definizione ci dovrebbe essere, a rigore, quel concetto di lavoro non alienato che nel saggio si rimprovera alla cultura di non avere ancora elaborato: vedi alle pp. 428-9.
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Non che vi sia soverchia chiarezza in proposito. Secondo H. Marcuse, ad esempio, il lavoro «viene così privato della positività a cui esso deve il suo compimento» in quanto «prassi specifica dell’esistenza umana nel mondo»: si veda il saggio del 1933, Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica, ora in Cultura e società, Torino, Einaudi, 1969, pp. 185 e 153.
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Il testo che più ha influito è probabilmente il sesto studio, «Il lavoro», de La giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa,Torino, UTET, 1968, opera ormai matura che gli valse una condanna.
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I testi d’obbligo sono ovviamente quelli di R. Alquati, che coprono il periodo 1961-66, ora raccolti in Sulla FIAT e altri scritti, Milano, Feltrinelli, 1975.
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L. R. (Romagnani), La qualifica ci divide, in «Classe operaia», n. 2, febbraio 1964. Un esempio: «Senza correre il rischio di cadere nell’enfasi, si può affermare che con l’organizzazione tayloristica il lavoro scende su di un piano inferiore rispetto a quello animale», G. Refrigeri, Lavorare domani, Roma, CEDIS, 1978, p. 39.
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L. R., La qualifica ci divide, cit.
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Cfr. B. Manghi, G. P. Cella, Analisi critica del sistema di qualifiche, in «Dibattito sindacale», n. 3, maggio-agosto 1970, ora in G. P. Cella, Divisione del lavoro e iniziativa operaia, Bari, De Donato, 1972, pp. 76 ss.; M. Regini, E. Reyneri, Lotte operaie e organizzazione del lavoro, Padova, Marsilio, 1971, pp. 71 ss. Le varie posizioni in Le qualifiche, in «Quaderni di Rassegna sindacale», n. 30, maggio-giugno 1971.
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G. P. Cella, E. Reyneri, Il contributo della ricerca alla analisi della composizione della classe operaia italiana, in L’operaio massa nello sviluppo capitalistico, in «Classe», n. 8, marzo 1974, p. 45.
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Dispiace dover fare questa constatazione anche per autori seri come H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Torino, Einaudi, 1978, e A. Sohn-Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale, Milano, Feltrinelli, 1977.
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Questa opinione viene affacciata anche da giovani studiosi italiani: D. La Valle, Le origini della classe operaia alla FIAT,Roma, Coines, 1976; e G. Barile, R. Levrero, L’operaio massa nello sviluppo capitalistico, nell’omonimo fascicolo di «Classe», cit. (un saggio cui non giova il complesso di amore-odio nei confronti dell’operaismo). Cfr., per credere, la recente traduzione italiana di S. Gompers, Settant’anni della mia vita, Milano, Feltrinelli, 1979.
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E. J. Hobsbawm, L’aristocrazia operaia nella Gran Bretagna del XIX secolo, in Studi di storia del movimento operaio, Torino, Einaudi, 1972, pp. 317 ss.; S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale, Firenze, La Nuova Italia, 1972, in part. il cap. V, vol. I, pp. 459 ss. Per gli Stati Uniti, cfr. G. Bock, P. Carpignano, B. Ramirez, La formazione dell’operaio-massa negli USA 1898-1922, Milano, Feltrinelli, 1976.
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A. Gramsci, Americanismo e fordismo, in Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Torino, Einaudi, 1949, p. 330.
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Ibidem.
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Ibidem, p. 331.
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Lo stesso Braverman, nella sua nota finale sulla qualificazione, op. cit, pp. 426 ss., deve ammettere che all’inizio del ’900 c’era negli Stati Uniti meno di un operaio qualificato ogni dieci. Riconosce B. Coriat, La fabbrica e il cronometro, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 32, che nella stragrande maggioranza gli immigrati dall’Europa erano «assolutamente non qualificati», e senza alcuna esperienza di lavoro industriale.
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Si veda un autore come K. Axelos, Marx pensatore della tecnica, Milano, Sugar, 1963, che eternalizza egli stesso il concetto di alienazione, ma poi vede i limiti di questo naturalismo osservando: «Marx diviene veramente difficile da seguire quando parla della soppressione della divisione del lavoro», p. 301. Parlando anch’egli di Marx, aveva già notato H. Kelsen, Socialismo e Stato,Bari, De Donato, 1979, p. 87: «Non è del tutto comprensibile come il superamento della divisione del lavoro possa rafforzare le forze produttive».
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Per esempio, nel suo noto libro, che ha per sottotitolo «La degradazione del lavoro nel XX secolo», Braverman parla dell’ingegnere che progetta il processo produttivo come di un tecnico il cui compito è «visualizzare il lavoro non come attività umana totale», op. cit., p. 180. Ma qual è concretamente quel lavoro che si svolge come attività umana totale? (P.S. Questo capitolo era già stato scritto quando è uscito il fascicolo n. 172 di «Aut Aut», luglio-agosto 1979, ampiamente dedicato a una disamina dell’importante libro di Harry Braverman. Poiché molti dei giudizi là espressi coincidono con i miei, e in particolare quelli dei saggi di A. Tovaglieri, F. Cambino e B. Cartosio, ho preferito lasciare testo e note com’erano. La sola osservazione al fascicolo è che, con il tipo di argomenti usati, non sarà facile persuadere il sociologo o lo storico. Condivido quanto in proposito ha anche detto M. Tronti, Le verità nascoste del lavoro operaio, in «Rinascita», n. 40, 19 ottobre 1979).
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«L’uomo si degrada nella stessa misura in cui l’operaio si perfeziona»: A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Scritti politici, Torino, UTET, 1968, p. 649. Anche questa discesa agli inferi è metastorica, ed ha influenzato coloro che addebitano al capitalismo tutto il lavoro diviso, aspettandosi pertanto chissaché — in genere, il lavoro liberato — dal suo superamento o seppellimento.
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Cfr. A. Abruzzi, Work Measurement. New Principles and Procedures, New York, Columbia University Press, 1952, pp. 120 ss. e bibliografia p. 273-9; H. B. Maynard, G.J. Stegemerten, J. L. Schwab, M.T.M. Lo studio dei metodi e dei tempi di lavorazione,Milano, Etas-Kompass, 1969 (ediz. originale: 1948).
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F. Jánossy, La fine dei miracoli economici, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 278: un libro originale anche per quanto riguarda il tema di questo capitolo.
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Ho svolto più diffusamente queste argomentazioni in Dove cercare le origini del taylorismo e del fordismo, «Il Mulino», n. 241, settembre-ottobre 1975.
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Questa contraddizione è rilevata da A. Anfossi, Prospettive sociologiche sull’organizzazione aziendale, Milano, Franco Angeli, 1971, p. 91 quando nella teoria del Scientific management vede il pessimismo sulla natura umana e l’ottimismo sulla razionalità tecnologica. Dal canto suo, in quest’opera di rieducazione individuale, S. Weil vede l’intento di «distruggere la solidarietà operaia»: La condizione operaia, Milano, Comunità, 1952, p. 242.
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V. I. Lenin, I compiti immediati del potere sovietico, in Opere, vol. XXVII, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 231. Quando disse questo, nel 1918, non è che Lenin si fosse trasformato in mr. Hide rispetto a quanto aveva scritto cinque anni prima, come rileva anche R. Linhart, Lenin, i contadini e Taylor, Roma, Coines, 1977, pp. 112-20. Solo che la presa del potere costringeva ad adottare una cultura non più d’opposizione ma di governo, visti anche i risultati produttivi dei primi 6 mesi di autogestione delle fabbriche. Sulla scientificità del taylorismo si basava del resto l’ipotesi di ricostruzione consiliare della società proposta da «L’Ordine Nuovo»: cfr. gli articoli di C. Petti, Il sistema Taylor e l’organizzazione scientifica del lavoro; Esame di alcuni concetti del taylorismo;L’organizzazione dei Consigli, sui nn. 24, 25 e 26, dell’l, 8 e 15 novembre 1919, ora in F. Steri (a cura di), Taylorismo e fascismo, Roma, Editrice sindacale italiana, 1979. Da tale pulpito, quindi, non si può dire che venissero lodi prodotte da un voltafaccia quale quello imputato a H. Dubreuil, Standards. Il lavoro americano veduto da un operaio francese, Bari, Laterza, 1931.
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H. Braverman, op. cit., pp. 90-91. «Più che contro l’aspetto essenziale del messaggio tayloristico [...], questi rilievi sembrano indirizzati contro gli inevitabili limiti storici e culturali che lo sviluppo della scienza nei primi due decenni del secolo imponeva al proto-taylorismo»: così G. Bonazzi, Il taylorismo tra strumento del capitale ed utopia tecnocratica (II), in «Economia & lavoro», n. 2, marzo-aprile 1972, p. 194.
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Sprezzanti virgolette aveva usato lo stesso Lenin nel 1913, in un corsivo sulla «Pravda»: Sistema «scientifico» per spremere il sudore, in Opere, vol. XVIII, Roma, Editori Riuniti, 1966, pp. 573-4. Ma il sarcasmo non è vero che uccide le persone; figuriamoci un apparato analitico che regge tuttora.
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A. Sohn-Rethel, op. cit., p. 139.
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B. Mottez, Systèmes de salaire et politiques patronales,Centre nationale de la recherche scientifique, Paris, 1966, p. 143: «La logica del taylorismo, è il fordismo».
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Lo riconosce la stessa S. Weil, che tuttavia dichiara emotivamente: «Non si può chiamare scientifico un sistema di questo tipo»: op. cit., p. 244.
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F. Butera, La divisione del lavoro in fabbrica, Padova, Marsilio, 1977, pp. 93-5. «Non è forse vero che, rifiutato Taylor, i suoi principi continuano nondimeno a sussistere e a trionfare sempre nelle industrie, anche se sotto una forma modificata?»: P. Rolle, Sociologia del lavoro, Bologna, Il Mulino, 1973, p. 58.
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E. Hobsbawm, Consuetudini, salari e carico di lavoro, in Studi di storia del movimento operaio, cit., alle pp. 424 e 404.
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P. Rolle, op. cit., pp. 56-64, parla di «senso della proprietà» e di «padronanza del proprio lavoro» riferendosi alla autonoma conoscenza empirica dell’operaio, alla sua «scienza tradizionale».
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A. Graziadei, La produzione capitalistica, Torino, Bocca, 1899, p. 109 (ma è da leggere tutto il capitolo, «L’evoluzione della grande industria»); e Il lavoro umano e le macchine, in «Il Giornale degli economisti», 2a serie, vol. XVIII, aprile 1899, p. 131.
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T. Veblen, La teoria dell’impresa, Milano, Franco Angeli, 1970, nota p. 242. Nelle due pagine che precedono sono contenute definizioni ineguagliabili sul rapporto uomo-macchina, di cui non si sa se ammirare maggiormente l’acume antropologico o la freddezza scientifica. Quanto alla perdita degli abiti mentali «antropomorfici» di cui parla Veblen, aveva scritto K. Kautsky, Il programma di Erfurt, Roma, Samonà e Savelli, 1971, p. 145: «La macchina priva il lavoro di ogni contenuto spirituale» (corsivo nostro).
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G. Bonazzi, Il taylorismo tra strumento del capitale ed utopia tecnocratica (I), in «Economia & lavoro», n. 1, gennaio-febbraio 1972, p49.
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Giustamente, dico, essendovi come sola alternativa il muratore d’assalto Birkut, protagonista dello straordinario film di Andrzei Wajda, L’uomo di marmo, dove trova conforto una tesi in cui credo: cioè dello stakanovismo come un taylorismo dal basso, senza fordismo.
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S. Garavini, I mutamenti nei ruoli professionali e nei rapporti di lavoro, in Ascesa e crisi del riformismo in fabbrica,Bari, De Donato, 1976, p. 18.
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Ibidem.
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K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze, La Nuova Italia, 1970, vol. II, p. 391.
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A. Sohn-Rethel, op. cit., p. 132. Anche per questo autore si può dire con M. Cacciari che «il problema dell’organizzazione del lavoro tende a risolversi [...] nella sua versione tayloristica pura»: cfr. Note intorno a «Sull’uso capitalistico delle macchine» di Raniero Panzieri, in «Aut Aut», n. 149-150, settembre-dicembre 1975, p. 191.
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P. Rolle, op. cit, p. 81. Infatti, «il taylorismo è una teoria solo se si prende il rapporto salariato come quadro di riferimento» (p. 73): cosa che pare oggi pressoché inevitabile.
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Sintetica e oltremodo appropriata la definizione data da T. Veblen nel 1904, ai primordi del taylorismo: «L’aggiustamento e l’adattamento reciproco delle varie parti e dei vari processi è uscito dalla categoria dell’abilità artigianale per entrare in quella della standardizzazione meccanica», La teoria dell’impresa, cit., p. 50. Una definizione ancora più acuta è quella di quindici anni dopo, che apre il cap. III de Gli ingegneri e il sistema dei prezzi, in Opere, Torino, UTET, 1969, p. 940. Parlando di «manifattura avanzata», C. R. Walker, R. H. Guest, L’operaio alla catena di montaggio, Milano, Franco Angeli, 1973, p. 48, aggiungono alla standardizzazione l’intercambiabilità.
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S. Weil, op. cit., p. 231.
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P. Rolle, op. cit., pp. 131-2.
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D. Mothè, Gli operai (Gli O.S.), Milano, Jaca Book, 1972, pp. 16-7. G. Navel, Travaux, Parigi, Stock, 1945, aveva scritto: «Il lavoro in sé non giustifica nulla. Il lavoro giustifica il carradore d’un villaggio».
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M. von Der Grun, Strada sdrucciolevole, Torino, Einaudi, 1977: P. Levi, La chiave a stella, Torino, Einaudi, 1978.
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Vedi per gli uni A. Sillitoe, Sabato sera, domenica mattina,Torino, Einaudi, 1961; L. Davi, Uno mandato da un tale, Torino, Einaudi, 1959; e per gli altri H. Swados, Alla catena, Milano, Feltrinelli, 1959; P. Volponi, Memoriale, Milano, Garzanti, 1962. Un prototipo a tutto tondo di élite classista professionalizzata e amante del lavoro, nella persona dell’operaio Granelli, è nel bel ritratto di G. Manzini, Una vita operaia, Torino, Einaudi, 1976.
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M. Haradtzy, A cottimo, Milano, Feltrinelli, 1978.
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S. Weil, op. cit.;G. Navel, Travaux, cit.; D. Mothè, Diario di un operaio 1956-1959, Torino, Einaudi, 1960 (vedi soprattutto il primo capitolo: quelli successivi, come pure le altre opere, privilegiano gli aspetti politici dell’esperienza).
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H. Braverman, op. cit., pp. 6-7. Questa frase andrebbe riletta da chi parla di un rilancio del concetto lukacsiano di «irriducibilità» operaia e di classe: E. Livraghi, Note in margine a Harry Braverman, in «Metropolis», n. 3, maggio 1979, p. 89.
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A. Touraine, L’evoluzione del lavoro operaio alla Renault,Torino, Rosemberg & Sellier, 1974, p. 105-6, dedica una bella pagina (non sentimentale...) a questo stereotipo, per il quale — scrive — «il lavoro non è anonimo».
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«Quando si ripete sempre la stessa cosa, c’è modo di pensare a sé stessi. A me piace la routine. Ci si può cullare in essa»: dichiarazione raccolta da Walker e Guest, op. cit, p. 99.
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M. Haradtzy, op. cit., pp. 131-6. Sono le medesime frasi citate da Heinrich Boll nella prefazione. Infatti colpiscono. Il solito antesignano, P. J. Proudhon, op. cit., pp. 703-4, scriveva a sua volta: «Sarebbe veramente un piacere se ciascuno lavorasse per sé stesso, se ciascuno fosse padrone delle proprie operazioni...».
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Ad Haradtzy, due volte vittima dell’ideologia del movimento operaio sul Lavoro, andrebbe dedicata la folgorante definizione di un marxista intelligente che non è più: «Il Capitalismo è un male che trova dinanzi a sé, non come sua ombra, ma ombra esso stesso di questa luce, il Socialismo», G. Pietranera, Capitalismo e economia, Torino, Einaudi, 1961, p. 47.
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L. Einaudi, Le lotte del lavoro, Torino, Einaudi, 1972, p. 198. Ma si veda la consapevolezza che anima l’intero articolo, del 1918, «Il governo democratico del lavoro». Non meno schietto mi pare questo brano d’intervista d’oggi: «Domanda. Vorrei che Silvio mi dicesse quale tipo di lavoro gli piacerebbe fare. Silvio. Lo storico. Domanda. Se ci fosse la possibilità di fare lo storico e questo lavoro ti impegnasse dodici ore (al giorno), lo faresti? Silvio. Sicuramente. Certo che non lo chiamerei più lavoro», in L. Annunziata, R. Moscati, Lavorare stanca, Roma, Savelli, 1978, p. 43. Cfr. il capitolo «Il lavoro, gli ozi e la nuova classe», in J. K. Galbraith, La società opulenta, Milano, Comunità, 1959, alle pp. 344-50
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G. Lunati, Il lavoro dell’uomo, Milano, Comunità, 1973, p. 53. Sull’esperienza politica Olivetti cfr. il saggio di G. Berta, Fra centrismo e centro-sinistra: Olivetti e il Movimento di Comunità, in «Studi storici», n. 3, luglio-settembre 1978; e su quella organizzativa, F. Butera, Crisi endogena del taylorismo, in La divisione del lavoro in fabbrica, cit., pp. 33 ss.
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M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo,in Sociologia delle religioni, Torino, UTET, 1976, I, p. 141.
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A. Tilgher, Homo faber, Roma, Libreria di scienze e lettere, 1929, p. 57.
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S. Garavini, in Sindacato e questione giovanile, Bari, De Donato, 1977, p. 23.
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G. Berta, Marx, gli operai inglesi e i cartisti, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 42.
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Così S. Bologna, in Operai e stato, Milano, Feltrinelli, 1972, pp. 15-16. In questo studio sulla composizione di classe nella Germania rivoluzionaria, viene sottolineato l’aziendalismo delle avanguardie qualificate, già rilevato con acutezza da G. Briefs, Sociologia industriale, a cura di D. De Masi, in «Sociologia dell’organizzazione», n. 1, giugno 1973, p. 94. Cfr. altresì Regini e Reyneri, op. cit., p. 89, dove è messa in risalto anche per l’Italia la propensione dei militanti operai più qualificati «ad identificarsi nell’azienda».
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P. Gobetti, La rivoluzione liberale, Torino, Einaudi, 1964, p. 102.
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A. Asor Rosa, Intellettuali e classe operaia, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 587.
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K. Korsch, Consigli di fabbrica e socializzazione, Bari, Laterza, 1970, p. 34.
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S. Mallet, Introduzione alla nuova edizione de La nuova classe operaia, Torino, Einaudi, 1970, p. 47. Aveva davvero ragione Mothé (almeno su questo punto), a dire che il manovale specializzato «sarà sempre colui sul quale ci si impietosisce», mentre è sull’operaio qualificato che si conta per «organizzare la società futura»: Gli operai, cit., p. 17. Sulla riappropriazione del lavoro come espressione razionale di una coscienza di sé attraverso «la logica della produzione», cfr. P. Bernoux, La resistence ouvrière à la rationalization: la réappropriation du travail, in «Sociologie du travail», n. 1, gennaio-maggio 1979, pp. 76 ss.
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A. Gorz, Il socialismo difficile, Bari, Laterza, 1968, lo vede come un Principe tecnologico che «ottimizza il lavoro» (p. 40) e che «padroneggia le innovazioni» (p. 67). Vedi soprattutto La nuova classe operaia, cit., e le osservazioni di A. Pichierri a Mallet per il cattivo uso degli schemi di Touraine, in L’evoluzione del lavoro operaio alla Renault, cit., p. XIX.
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A. Touraine, op. cit., p. 267, dove si ricorda con sarcasmo che Ford stesso si diceva antesignano di questo «nuovo artigianato».
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P. Rolle, op. cit., p. 260.
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H. Ford, La mia vita e la mia opera, Bologna, Apollo, 1925, soprattutto il cap. III, pp. 51-15.
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A. Touraine, op. cit., p. 266. Cfr. il famoso passo sulla «fabbrica automatica» nel capitolo su macchine e grande industria: K. Marx, Il capitale, Libro I2, Roma, Editori Riuniti, 1956, p. 126
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Walker, Guest, op. cit., p. 169.
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Blauner, op. cit., p. 105.
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Basti citare la fondamentale ricerca di J. H. Goldthorpe, D. Lockwood, F. Bechofer, J. Platt, Classe operaia e società opulenta,Milano, Franco Angeli, 1973, di cui vedi le pp. 92-5 e l’introduzione di G. Romagnoli alla riduzione italiana.
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Proudhon parla di «logica fatale» e adopera la medesima nozione di degradazione, che trasmette all’operaio stesso: op. cit., pp. 684-6.
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Jánossy, op. cit., p. 247-8, ritiene che la divisione del lavoro trasformi qualitativamente la struttura delle conoscenze, migliorandole cioè senza per questo accrescerle.
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Cfr. M. Freyssenet, Le processus de dequalification-surqualification de la force de travail, Paris, Centre de Sociologie urbaine, 1974.
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I principali filoni di questa interpretazione sono richiamati nella discussione sul libro di K. H. Roth, L’altro movimento operaio, Milano, Feltrinelli, 1976, in M. G. Meriggi (a cura di), Il caso Karl-Heinz Roth, Milano, Edizioni di Aut-Aut, 1978.
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Vedine un esauriente campionario nelle autobiografie raccolte negli anni ’50 da E. Vallini, Operai del Nord, Bari, Laterza, 1957.
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Cfr. S. Chiamparino, Le ristrutturazioni industriali, in «Annali» Feltrinelli, a. XVI, 1974-75, pp. 469 ss.
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Si vedano il noto studio di A. Pizzorno su Rescaldina, Comunità e razionalizzazione, Torino, Einaudi, 1960, e quello meno noto di F. Leonardi su Priolo, Operai nuovi, Milano, Feltrinelli, 1964.
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Cfr. L’operaio massa nello sviluppo capitalistico, «Classe», cit. L’evolversi delle figure è riscontrabile nelle autobiografie raccolte negli anni ’70 da P. Crespi, Esperienze operaie, Milano, Jaca Book, 1974.
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Vorrei citare in proposito il paginone curato da R. Armeni per il «Manifesto» del 22 giugno 1979, intitolato fra l’altro: Un animale nuovo è arrivato in Fiat, il giovane operaio, e le interviste della redazione torinese di «Ombre rosse», Giovani operai a Torino, un’intera leva di lavoratori sotto accusa, «Il Manifesto», 21 ottobre. Quale siderale distanza vi appare rispetto a modelli consolidati come quello dei giovani operai parigini anni ’50: N. De Maupeou-Abboud, Les blousons bleus, Paris, A. Colin, 1968.
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E. Hobsbawm, Il movimento operaio nei grandi processi di trasformazione, in «Rinascita», n. 11, 16 marzo 1979.
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Secondo l’azzeccata definizione di A. Casiccia, Sulla cultura operaia e l’identità di classe, in «La Critica sociologica», n. 39-40, autunno 1976-inverno 1976-77, p. 262.
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Cfr. le due paginette di sintesi nelle Conclusioni, L’evoluzione del lavoro operaio, cit., pp. 268-9.
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Un esempio qualsiasi. Il travaglio autocritico subentrato nel PCI dopo la dura sconfitta elettorale del 3 giugno 1979 non ha impedito a L. Berlinguer di scrivere sulla prima pagina de «L’Unità»: «Quando dico nuovo tipo di lavoro, penso allo sviluppo delle forze produttive e quindi a forme di lavoro che esaltino la professionalità ed eliminino abbruttimento e sfruttamento» (Tra partecipazione e governo, 23 giugno); o, ad A. Minucci, di riproporre «con urgenza» nella stessa sede «la lotta per controllare e trasformare l’organizzazione del lavoro, in funzione di una nuova razionalità produttiva che si saldi a una crescente liberazione e creatività dei produttori» (3 novembre 1979).
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A. Pizzorno, Le due logiche dell’azione di classe, in Lotte operaie e sindacato: il ciclo 1968-1972 in Italia, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 11.
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«Determinismo della qualifica», lo ha chiamato V. Foa polemizzando contro la variante che lo estremizza, in Il caso Karl-Heinz Roth, cit., p. 47
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Rinvierei per questi aspetti al capitolo sul «produttivismo» del saggio Per una nuova fase di studi sul movimento sindacale,in «Annali» Feltrinelli, cit., pp. 53-78.
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Linotipisti, bigliettai, carpentieri: è un martirologio. Ogni volta pare sempre che vinca il Káapitale, e il lavoro si declassi. Cfr. un recente studio di S. Brusco e M. Alessandro, Struttura produttiva e organizzazione del lavoro nel settore edilizio, in «Politica ed economia», n. 3, maggio-giugno 1979, in particolare il paragrafo sull’operaio di mestiere aggredito, pp. 97-9.
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Jánossy, op. cit., pp. 250 e 259-62.
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S. Del Lungo, Esperienze in alcune aziende metalmeccaniche a partecipazione statale, in Nuove vie dell’organizzazione del lavoro, Milano, Isedi, 1976, p. 257
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Rolle, op. cit., le due frasi rispettivamente alle pp. 81 e 56. La polemica è esplicita con Gorz, ma può essere estesa a molti apologeti di sinistra.
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Questo interrogativo agita fin nell’intimo il dibattito al noto convegno dell’istituto «Gramsci», Scienza e organizzazione del lavoro, Roma, Editori Riuniti, 1973.
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L. Bovone, Studenti, società civile e società politica, in «Studi di sociologia», n. 1, gennaio-marzo 1978, p. 100, riferisce da simpatizzanti della sinistra tradizionale a simpatizzanti della preparazione professionale nel miglioramento delle proprie condizioni è ritenuto via via meno importante man mano che si passa da simpatizzanti della sinistra tradizionale a simpatizzanti della nuova sinistra; e ciò, già fra studenti diciottenni.
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Così Blauner, op. cit., pp. 195-6, a proposito del lavoratore comune dell’automobile.
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N. Cacace, A. Buccellato, Mobilità professionale e produttività nelle grandi imprese europee dell’auto, in «Nuovo sviluppo», n. 1, marzo 1979, p. 33. Come si rileva nel noto rapporto Work in America, Cambridge (Mass.), MIT Press, 1973, p. 38: «L’industria automobilistica è il locus classicus del malcontento per il lavoro», così come l’assembly-line ne è la «quintessenza personificata». Cfr. H. Beynon, Lavorare per Ford, Torino, Musolini, 1975, pp. 153-78.
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Mi riferisco alla ricerca di Goldthorpe, Lockwood, Bechofer e Platt sull’affluent worker, op. cit.
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Cfr. i saggi raccolti in C. Crouch e A. Pizzorno, Conflitti in Europa, Milano, Etas Libri, 1977. Ma già negli anni ’60 era incorso in una salutare smentita F. Zweig, noto studioso dell’operaio opulento: poco tempo dopo l’uscita de L’operaio nella società del benessere, Roma, Cinque Lune, 1966, si erano duramente messi in sciopero proprio i lavoratori della Ford di Luton, che egli giudicava del tutto «integrati» e che da allora sono stati spesso sulle cronache.
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Navel, op. cit.
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Braverman, op. cit., p. 447.
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Ibidem, p. 432
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Ibidem, pp. 446-7. Stavo scrivendo questa pagina il giorno in cui su «La Stampa» compariva un elegiaco ritratto del fabbro e del falegname, ai cui valori artigianali e capacità di mestiere ci richiamava lo scrittore G. Arpino: Il linguaggio del lavoro era cultura, 30 giugno 1979. Non dispero di poter segnalare in avvenire, sempre dal quotidiano della FIAT, un appassionato elogio della carrozza a cavalli.
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H. De Man, La gioia nel lavoro, cit., pp. 258-63. E francamente aggiungeva: «Solo l’intellettuale propende a pensare che nessun lavoro è suscettibile di dare felicità a chi lo compie, se non è l’attuazione consapevole di un fine che il lavoratore si è personalmente prefisso» (p. 303).
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P. Blumberg, Sociologia della partecipazione operaia, Milano, Franco Angeli, 1972, pp. 121-5, dove si parla di «luddismo intellettuale».
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Braverman, op. cit., p. 448. Probabilmente non vi è alcun influsso, ma l’analogia è piuttosto forte con A. Pannekoek, Organizzazione rivoluzionaria e Consigli operai, Milano, Feltrinelli, 1970.
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Proudhon, op. cit., p. 668-94. Questa stessa insistenza si trova presso numerosi pensatori dell’800, ma in pochi acquista un rilievo extra pedagogico così centrale e determinante.
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Così G. Refrigeri, Lavorare domani, cit., p. 44. Per tutti, vedi P. Jaccard, Psicosociologia del lavoro, Roma, A. Armando, 1968.
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Qui c’è anche l’eco di una apologia che contagia un po’ tutti su quell’epoca di «giganti» e di eroi che «non erano ancora sotto la schiavitù della divisione del lavoro», come ad esempio asserisce F. Engels, La dialettica della natura, Roma, Edizioni Rinascita, 1950, p. 15, ripreso con enfasi da J. Davydov, Il lavoro e la libertà, Torino, Einaudi, 1966, p. 96. Su questa mitologia, cfr. A. Heller, L’uomo del Rinascimento, Firenze, La Nuova Italia, 1977.
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Garavini, in Ascesa e crisi del riformismo in fabbrica, cit., p. 18.
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Ibidem.
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Ibidem. Già nel 1953, con la nota memoria Le relazioni umane e sociali nell’azienda, la CISL asseriva dal canto suo che il lavoratore moderno porta come dote «una volontà, una intelligenza, una capacità di adattamento a mansioni diverse», che «deve essere messo in grado di realizzare»: cfr. collana Documenti, n. 7, 1954 (ristampato nel 1957), p. 19.
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Marcuse, op. cit., pp. 166-7: il lavoro ha il suo fondamento «in una sovrabbondanza essenziale dell’esistenza umana» giacché «l’essere dell’uomo è sempre più della sua esistenza».
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Già quarant’anni fa M. Halbwachs, Psicologia delle classi sociali, Milano, Feltrinelli, 1963, notava che «nel nostro sistema economico il lavoro si presenta non come uno sforzo individuale, ma come parte di un insieme collettivo omogeneo, le cui unità sono sostituibili alle altre», p. 100.
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Rolle, op. cit., p. 181, fa risalire all’ottica proudhoniana il giudizio per cui «la polivalenza è sinonimo di riqualificazione e la specializzazione di degradazione». In polemica con Proudhon, Marx sosteneva invece il contrario ne La miseria della filosofia,Roma, Edizioni Rinascita, 1950, p. 116, vedendo nella fabbrica moderna la fine dell’«idiotismo del mestiere». Sulle delusioni derivanti dalle più recenti esperienze circa l’arricchimento della professionalità, cfr. D. Chave, Néo-taylorisme ou autonomie ouvrière? Reflexions sur troi experiences de réorganization du travail, in «Sociologie du travail», n. 1, gennaio-marzo 1976, pp. 74 ss. Dal canto suo F. Butera, Lavoro umano e prodotto tecnico,Torino, Einaudi, 1979, p. 31, fa molto giustamente osservare che l’accorpamento di frantumi restringe «l’ambito dell’innovazione ad una ricomposizione di un lavoro che in realtà è diviso assai prima che divenga mansione».
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Garavini, Ascesa e crisi del riformismo in fabbrica, cit., p. 24.
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G. Bonazzi, In una fabbrica di motori, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 130.
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Ibidem, p. 165. Cfr. anche C. Durand, Le travail enchainé,Paris, Éditions du Seuil, 1978, che si colloca su questa stessa linea interpretativa della «supplenza» operaia.
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D. Linhart, Quelques reflexions à propos du refus au travail, in «Sociologie du travail», n. 1, gennaio-marzo 1978, p. 319.
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Butera, La divisione del lavoro in fabbrica, cit., pp. 214-15. Quest’analisi viene ora portata avanti sulla via di una definizione del lavoro sociale e delle sue implicazioni (funzionamento e struttura), in Lavoro umano e prodotto tecnico, cit., p. 278 segg.
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Butera, La divisione, cit., p. 201.
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Linhart, op. cit.: tutte le citazioni dalle pp. 318-9.
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Bonazzi, ult. op. cit., p. 165.
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G. Sorel, Lo sciopero generale e la violenza, Biblioteca del «Divenire sociale», Roma, Tip. Industria e lavoro, 1906, pp. 126 e 122. Non da meno erano le convinzioni di A. Bebel, La donna e il socialismo, Milano, Max Kantorowicz ed., 1892, p. 341: «Aumenterà grandemente la produttività del lavoro rendendosi possibile con ciò la soddisfazione dei più nobili bisogni».
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Pietranera, op. cit., p. 36.
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Un velo pietoso bisognerebbe qui stendere su come la bella e sfortunata lotta operaia alla Lip, che nel 1973 ha polarizzato l’attenzione dei lavoratori, sia potuta diventare arena di facilonerie politiche attirando a Besançon, città natale di Fourier e di Proudhon, nugoli di loro seguaci, a comprare orologi per solidarietà e a salutare l’aurora di «una esperienza originale di socialismo nella libertà», come l’hanno definita È. Marie e C. Piaget, La lezione della Lip, Roma, Coines, 1974, p. 102. Osserva saggiamente B. Manghi: «Di fronte all’autogestione non si deve insistere troppo nel saggiarne la bellezza, il realismo, l’originalità. Molto è già stato detto. [...] È l’esperimento sociale il solo livello che dà la parola alla gente», intervento nel dibattito «Autogestione: un cantiere aperto», su «Mondoperaio» (n. 5, maggio 1979), dove si segnalano le cose dette da G. Amato e G. Giugni, n. 2, febbraio e n. 6, giugno.
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Rolle, op. cit., p. 235. Precisa De Man: «Il rappresentante tipico di questo modo di produzione, quello che Ruskin aveva in mente, è l’artigiano che lavora direttamente per il consumatore», op. cit., p. 315.
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Vedi una completa ed aggiornata raccolta di luoghi comuni proudhoniani sul tema, in A. Detraz, F. Krumnow, É. Maire, Sindacato e autogestione. Le tesi della CFDT, Milano, Jaca Book, 1974. Sulla liberazione del lavoro nelle società socialiste non c’è altro che l’approccio futuribile e tecnocratico di R. Richta, La via cecoslovacca, Milano, F. Angeli, 1968, pp. 40 ss. (e così pure Rivoluzione scientifica e socialismo, Roma, Editori Riuniti, 1969), giustamente criticato da G. P. Cella, Divisione del lavoro e iniziativa operaia, cit., pp. 38-40, e quello passatista e bebeliano di R. Bahro, Per un comunismo democratico, Milano, Sugarco, 1978, alle pp. 305-7.
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È il titolo originale del volume di P. Naville, Dall’alienazione al godimento, sottotitolo: Genesi della sociologia del lavoro in Marx ed Engels, Milano, Jaca Book, 1975.
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Weil, op. cit., p. 231.
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Si avesse almeno il coraggio eversivo di scrivere che «il rifiuto del lavoro è la scoperta della possibilità della costruzione di una società in cui la libera collettività operaia saprà produrre quanto serve alla vita, quanto serve a soddisfare i bisogni fondamentali fuori dalle regole assurde della produttività»: Cominciamo a dire Lenin, «Potere operaio», n. 3, 2-9 ottobre 1969. Invece no. Si continua stancamente a decantare la metamorfosi del lavoro, la cui trasformazione «vuol dire puntare alla prima realizzazione delle risorse intellettuali e fisiche dell’uomo, alla sua piena espressione; marciare in direzione del superamento della separazione tra il lavoro e la vita, tra l’operaio e il cittadino, tra la scuola e la fabbrica, tra la fabbrica e la società, tra il tempo di lavoro e il tempo libero, tra la città e la campagna»: E. Bosio, C. Mezzanzanica, F. Petenzi, Due tendenze sull’orario, e sul lavoro,in «Il Manifesto», 29 settembre 1978.
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J. Dumazedier, Lavoro e tempo libero, in Trattato di sociologia del lavoro, Comunità, Milano, 1963, vol. II, p. 538.
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Mallet, La nuova classe operaia, cit., p. 134: «Operatore o riparatore, l’operaio è padrone (sic) del suo lavoro. Assicura in qualche modo una “funzione” nel cui quadro è l’unico giudice»,
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Butera, La divisione del lavoro in fabbrica, cit., p. 79.
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E. Fromm, Fuga della libertà, Milano, Comunità, 19724, p. 224.
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E. Fromm, Psicanalisi della società contemporanea, Milano, Comunità, 197812, p. 175.
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E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Milano, Il Saggiatore, 2 voli., 1969; J. Kuczynski, Nascita della classe operaia, Milano, Il Saggiatore, 1967; E. J. Hobsbawm, Studi di storia del movimento operaio, cit.; S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale, cit.
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C. R. Walker, R. H. Guest, L’operaio alla catena di montaggio, cit.; J. H. Goldthorpe, D. Lockwood, F. Bechofer, J. Platt, Classe operaia e società opulenta, cit.; F. Zweig, L’operaio nella società del benessere, cit.; R. Alquati, Sulla Fiat e altri scritti,cit.