Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c3
In definitiva si torna sempre a quella preferenza
socio-politica per il mestiere e per la professionalità, spiegabile con la centralità
elettiva che il movimento operaio attribuisce al lavoratore manuale più qualificato, quale
soggetto dell’emancipazione proletaria intesa in senso culturale
non meno che politico. Ciò viene a datare storicamente il modello di
leadership operaia ancor più di quanto lo connoti culturalmente; e
a rendere comprensibile l’impaccio nell’accettare una centralità
¶{p. 122}imposta che spiazza quel modello alterandone sostanzialmente il
profilo.
Chi è persuaso che è rivoluzionario l’operaio
professionalizzato capace di dominare i processi, come fa a convincersi che lo può essere
anche l’operaio dequalificato capace di odiare il meccanismo
[95]
? Proprio su questo punto si manifesta del resto la rottura verticale fra le due
varianti del fatalismo, che costruiscono il proprio mito ed anti-mito intorno alla qualità
del lavoro: il produttore pieno di doti e il proletario senza qualifica
[96]
.
L’esito più consequenziale del processo di
degradazione del lavoro risulta dunque il meno assimilabile. È paradossale. Proprio la
comparsa nell’ultimo trentennio del «prototipo dell’uomo di massa nella società di massa»
[97]
, quello che accende la rivolta moderna a causa della bassa qualificazione
[98]
, costringe il movimento operaio di tutti i paesi a rivedere la radicata
convinzione che il capitalismo impoverisca il lavoro non meno indefinitamente di come le
frange più tecnocratiche e positiviste credono che il macchinismo lo elevi. Quanto meno, si
deve ammettere che la professionalità del lavoro conosce fasi alterne, che non è una caduta
senza fine. Solo così si può accettare il soggetto storico che una certa tradizione
menscevica del movimento operaio vorrebbe esorcizzare: il soggetto
che il taylor-fordismo ha sovrapposto alle speranze comunardo e consiliari, e che i
fondatori del ciò, avendolo maggiormente sott’occhio, ebbero comunque l’accortezza di
scegliere anche a costo di andare contro una tradizione organizzata, che risaliva ai
cavalieri di San Crispino d’un secolo prima.
Ma anche in Europa, e perfino in
Inghilterra, l’organizzazione dei lavoratori ha finito con l’accettare pragmaticamente la
rappresentanza dell’operaio-massa, scrutando magari con ansia i segni di un suo superamento
e mantenendo con esso un rapporto di tipo pedagogico. Del resto, che quello fosse un
lavoratore ormai affluente, opulento, pecuniario, intento soltanto a rifarsi
dell’alienazione in fabbrica con quella fuori — l’integrazione tramite i consumi e gli
hobbies — è poi¶{p. 123} risultato abbastanza
inattendibile, tant’è che l’immagine si è modificata nelle mani stesse dei ricercatori che
stavano mettendola a fuoco
[99]
. E anzi sul finire degli anni ’60 questo soggetto nuovo causò molte sorprese, al
punto che venne poi imponendosi all’attenzione dell’opinione pubblica per aver concorso al
mutamento dell’organizzazione dei lavoratori stessa, oltre che dell’organizzazione del
lavoro
[100]
. Sotto il profilo civico come sotto quello sindacale, politico come elettorale,
è risultato che questo operaio-massa non sarà magari il carradore di villaggio gratificato
da Navel
[101]
, e come lavoratore resta tuttora un personaggio proletario conturbante; ma non
si è comportato certo come l’uomo anonimo della società post-industriale, e neppure come un
automa deprivato di ogni individualità professionale.
Nulla vieta di pensare, come Braverman,
che «con lo sviluppo del modo capitalistico di produzione, il concetto stesso di
qualificazione si degrada insieme con il lavoro»
[102]
, tant’è vero che oggi «si può attribuire una maggiore qualificazione ad un
operaio addetto alla catena di montaggio che a un pescatore o a un ostricaio; a un addetto
ai carrelli elevatori a forca che a un giardiniere; a un addetto all’alimentazione di una
macchina che a uno scaricatore di porto; a un custode di parcheggi che a un boscaiolo o a
uno zatteriere»; e, addirittura, «ritenere che la capacità di guidare un veicolo a motore
richieda una più lunga preparazione o assuefazione [….] che non quella di guidare una
pariglia di cavalli»
[103]
. Qui Braverman rivela chiaramente di essere stato influenzato «dalla nostalgia
per un’epoca cui non si può più tornare». Afferma infatti che «per il lavoratore, il
concetto di qualificazione è tradizionalmente legato a quello di padronanza del mestiere»:
dove le nozioni e la semantica medesima mostrano a quale lavoratore stesse pensando. (In
tale contesto, cita addirittura una definizione di qualifica basata sul ricercato mestiere
dell’ebanista, sulla sua «capacità d’immaginare in che modo le cose apparirebbero usando
questo o quell’utensile, questo o quel materiale»
[104]
. Cinquant’anni fa, dopo aver condotto la sua inchiesta davvero
antici¶{p. 124} patrice, Henry De Man si chiedeva: «Perché confrontare
l’operaio qualificato metallurgico col fabbro ferraio del villaggio», perché paragonare
l’operaio cresciuto con il macchinismo al “maestro-artigiano del medio evo” o
all’“enciclopedista del Rinascimento”
[105]
?).
Con questi paragoni, fuorviami e francamente
inammissibili, Harry Braverman viene ad assumere come archetipo il lavoro dell’artigiano.
Così, il lavoro dell’operaio-massa non ci mette molto ad apparire sub-umano, oltre che
dequalificato. Altro che nuovo soggetto storico! Questa riduzione ad Iloti, che pare venir
giù diretta da Tocqueville, è caratteristica di quella sinistra radical
americana che da Marx ha assimilato la potenza sociale del rapporto
capitalistico, e dall’esperienza la delusione politica per il comportamento operaio. È un
procedimento disperato quello di enfatizzare una perdita, di drammatizzare una spoliazione,
per denunciare il misfatto e sostenere le vittime. Ma le vittime, sono proprio tali? Se così
fosse, vorrebbe dire che in meno di un secolo è successo fra di noi un cataclisma della
civiltà, proporzionalmente più grave dell’invasione degli Hyksos, e tuttora in pieno
svolgimento. Rispetto a quale mai cittadino, a quale lavoratore di ieri, l’operaio moderno,
dal primario al quaternario, è un essere menomato, un minus habens. E
dove sarebbe diavolo finita tutta l’immensa messe di professionalità depredata ai barrocciai
e ai soffiatori del tempo andato: tutta concentrata nei grattacieli delle multinazionali,
trasferita nei circuiti dei microprocessori, requisita dal «Grande Fratello» di Orwell? A
che cosa può servire l’indignata solidarietà con i moderni schiavi alla catena — integrati o
impotenti a rivoltarsi, e perfino ad accorgersene, proprio come in un romanzo di
fantascienza — se si guarda il lavoro di oggi con la testa girata al contrario?
5. L’organizzazione del lavoro come creatività e libertà
Non si può fuoriuscire dal capitalismo guardando
ai lavoratori che lo hanno costruito più di quanto lo si possa fare pensando ai valori
che l’hanno fondato.¶{p. 125}
E tuttavia il mestiere artigiano è ciò che si ha
nel cuore, e magari nella mente, non soltanto quando si denuncia la degradazione del
lavoro ma anche quando se ne immagina la liberazione, a volte senza badare troppo alla
questione dei rapporti di proprietà, a volte credendo invece di risolvere tutto con
questi. Anzi, proprio l’idea di una inesorabile quanto capitalistica degradazione del
lavoro induce a rappresentarsi un’alternativa speculare di
riqualificazione-ricomposizione del lavoro, che attinge agli albori assai più che alla
maturità del capitalismo.
Punti fermi di ogni immagine alternativa sono
infatti due requisiti come la compiutezza e la
creatività nel lavoro, inconfondibilmente connessi
all’agiografia del mestiere artigiano: agiografia, nel senso che è la forma di lavoro
cui più si sono attribuite proprietà di adempimento/inveramento dell’uomo come essere
sociale, senza troppo distinguere fra le diverse ere della tecnica e tanto meno
dell’organizzazione sociale. (La responsabilità non è certo del solo Proudhon se
l’idealtipo del mestiere artigiano, a cui ci si continua a riferire, è la quintessenza
di figure le più disparate, dal vasaio di Samo al fabbro del villaggio; e se il desco
del calzolaio viene equiparato alla bottega del Rinascimento, in un anelito di autonomia
operosa che si preserva inalterato fino all’introvabile idraulico o antennista dei
giorni nostri).
Ora, anche a prescindere dai rapporti sociali — di
classe, di proprietà, di lavoro — è facile capire che requisiti come la compiutezza e la
creatività nel lavoro sono inerenti alla morfologia del prodotto ed alla scala di
produzione. Non potrebbe essere altrimenti, e non è chi non veda il nesso con i fattori
dell’organizzazione sociale. La merceologia dei materiali e il numero dei componenti di
cui son fatti i prodotti, combinandosi con la quantità di esemplari da produrre,
predeterminano le condizioni di esecuzione e non lasciano in ambito artigianale neppure
le piccole serie, ma solamente beni artistici ed attività di servizio: ninnoli e
riparazioni. Simbolo caricaturale eppure illuminante degli attuali
¶{p. 126}spazi di compiutezza e di creatività è il montaggio «da soli»,
su precise e dettagliate istruzioni, di oggetti completi: un’impresa dove l’unica virtù
artigianale che risalta, nella sua modestia, è la pazienza. Di utilità, non parliamo
nemmeno perché non è il caso. Oggi, nessun orologiaio di Norimberga potrebbe fabbricare
con le proprie mani un solo pneumatico, o più scaldabagni; e neppure un orologio: perché
dunque accarezzare tuttora, con l’attuale divisione tecnica del lavoro, l’ideale
individualistico d’un modo di produrre già intaccato dalle prime filande?
Giustamente, da molti critici della degradazione
del lavoro è stata accantonata l’idea di un recupero del senso di compiutezza attraverso
lavori dai quali escano manufatti finiti; idea tutto sommato romantica, e che P.
Blumberg (anche lui in cerca di antidoti all’alienazione operaia) colloca correttamente
nel filone sempre risorgente dell’anti-industrialismo
[106]
. Affrontare quella nevrosi dell’incompiuto che in psicologia sperimentale è
conosciuta come «effetto Zeigarnik», per tentare di restituire al lavoro una mitica
globalità perduta, richiede semmai di sublimare una materiale completezza d’opera nella
conoscenza tecnica del procedimento o processo. Ma anche questa non può essere
un’impresa individuale né dilatarsi a proporzioni sovrumane. Altrimenti viene a perdere
qualsiasi credibilità.
Ha scritto Braverman: «Il lavoratore può
riconquistare la padronanza della produzione collettiva e socializzata solo
padroneggiando le caratteristiche scientifiche, progettuali e operative dell’ingegneria
moderna; senza di che non vi è padronanza del processo lavorativo»
[107]
. In senso simbolico, tutto questo ci appare abbastanza comprensibile. Ma se
va inteso in termini effettuali, allora diventa semplicemente assurdo, sia come
aspirazione che come prospettiva. A parte ogni giudizio sulla natura e sulla
composizione di una siffatta forza lavoro da Iperurania, siamo nel pieno di quel modello
di professionalità politecnica che, ricalcando le conoscenze di un universo finito qual
era la bottega artigiana, non tien più insieme i saperi d’un sistema integrato
¶{p. 127}quale invece l’impresa moderna. (E non sembri pertanto
offensivo verso Braverman un riferimento alle virtù emancipatrici riposte già da
Proudhon nel sapere politecnico-scientifico, sulla cui base fondare «il piano
dell’istruzione operaia»
[108]
: c’è infatti tutta una scuola di psicosociologia del lavoro che si propone
di «dare alla fabbrica una dimensione nuova con finalità di tipo formativo» giacché il
lavoro «deve offrire all’uomo l’opportunità della sua autorealizzazione»
[109]
). È il supremo tentativo di associare e di coniugare Rinascimento
[110]
ed automazione per estrarne quell’artefice che signoreggia la natura
mediante la scienza.
Note
[95] Questo interrogativo agita fin nell’intimo il dibattito al noto convegno dell’istituto «Gramsci», Scienza e organizzazione del lavoro, Roma, Editori Riuniti, 1973.
[96] L. Bovone, Studenti, società civile e società politica, in «Studi di sociologia», n. 1, gennaio-marzo 1978, p. 100, riferisce da simpatizzanti della sinistra tradizionale a simpatizzanti della preparazione professionale nel miglioramento delle proprie condizioni è ritenuto via via meno importante man mano che si passa da simpatizzanti della sinistra tradizionale a simpatizzanti della nuova sinistra; e ciò, già fra studenti diciottenni.
[97] Così Blauner, op. cit., pp. 195-6, a proposito del lavoratore comune dell’automobile.
[98] N. Cacace, A. Buccellato, Mobilità professionale e produttività nelle grandi imprese europee dell’auto, in «Nuovo sviluppo», n. 1, marzo 1979, p. 33. Come si rileva nel noto rapporto Work in America, Cambridge (Mass.), MIT Press, 1973, p. 38: «L’industria automobilistica è il locus classicus del malcontento per il lavoro», così come l’assembly-line ne è la «quintessenza personificata». Cfr. H. Beynon, Lavorare per Ford, Torino, Musolini, 1975, pp. 153-78.
[99] Mi riferisco alla ricerca di Goldthorpe, Lockwood, Bechofer e Platt sull’affluent worker, op. cit.
[100] Cfr. i saggi raccolti in C. Crouch e A. Pizzorno, Conflitti in Europa, Milano, Etas Libri, 1977. Ma già negli anni ’60 era incorso in una salutare smentita F. Zweig, noto studioso dell’operaio opulento: poco tempo dopo l’uscita de L’operaio nella società del benessere, Roma, Cinque Lune, 1966, si erano duramente messi in sciopero proprio i lavoratori della Ford di Luton, che egli giudicava del tutto «integrati» e che da allora sono stati spesso sulle cronache.
[101] Navel, op. cit.
[102] Braverman, op. cit., p. 447.
[103] Ibidem, p. 432
[104] Ibidem, pp. 446-7. Stavo scrivendo questa pagina il giorno in cui su «La Stampa» compariva un elegiaco ritratto del fabbro e del falegname, ai cui valori artigianali e capacità di mestiere ci richiamava lo scrittore G. Arpino: Il linguaggio del lavoro era cultura, 30 giugno 1979. Non dispero di poter segnalare in avvenire, sempre dal quotidiano della FIAT, un appassionato elogio della carrozza a cavalli.
[105] H. De Man, La gioia nel lavoro, cit., pp. 258-63. E francamente aggiungeva: «Solo l’intellettuale propende a pensare che nessun lavoro è suscettibile di dare felicità a chi lo compie, se non è l’attuazione consapevole di un fine che il lavoratore si è personalmente prefisso» (p. 303).
[106] P. Blumberg, Sociologia della partecipazione operaia, Milano, Franco Angeli, 1972, pp. 121-5, dove si parla di «luddismo intellettuale».
[107] Braverman, op. cit., p. 448. Probabilmente non vi è alcun influsso, ma l’analogia è piuttosto forte con A. Pannekoek, Organizzazione rivoluzionaria e Consigli operai, Milano, Feltrinelli, 1970.
[108] Proudhon, op. cit., p. 668-94. Questa stessa insistenza si trova presso numerosi pensatori dell’800, ma in pochi acquista un rilievo extra pedagogico così centrale e determinante.
[109] Così G. Refrigeri, Lavorare domani, cit., p. 44. Per tutti, vedi P. Jaccard, Psicosociologia del lavoro, Roma, A. Armando, 1968.
[110] Qui c’è anche l’eco di una apologia che contagia un po’ tutti su quell’epoca di «giganti» e di eroi che «non erano ancora sotto la schiavitù della divisione del lavoro», come ad esempio asserisce F. Engels, La dialettica della natura, Roma, Edizioni Rinascita, 1950, p. 15, ripreso con enfasi da J. Davydov, Il lavoro e la libertà, Torino, Einaudi, 1966, p. 96. Su questa mitologia, cfr. A. Heller, L’uomo del Rinascimento, Firenze, La Nuova Italia, 1977.