Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/p1
Prefazione alla riedizione digitale di Vincenzo Bavaro
1. Premessa
La scelta di un titolo di un saggio
da pubblicare non è mai scontata o, in molti casi, offre al lettore la chiave di lettura
di tutto il saggio. Aris Accornero decise di intitolare il libro che viene adesso
ripubblicato con lo stesso titolo che ha dato al primo capitolo «Il lavoro come
ideologia» cui seguono altri tre capitoli intitolati «Il lavoro come identità», «Il
lavoro come mestiere» e «Il lavoro come posto», prima delle Conclusioni. Questa scelta
dell’Autore si spiega col fatto che tutto il libro è una messa in discussione di una
certa cultura politica, la cui espressione più prossima ad Accornero era rappresentata
da una certa cultura politica nel sindacalismo e nella sinistra politica del ’900;
insomma la cultura del «secolo del lavoro» come egli stesso, nel 1997, lo definì col
libro Era il secolo del lavoro.
In effetti, Il lavoro come
ideologia viene pubblicato nel 1980 quando, simbolicamente, inizia la
fine del «secolo breve» (Hobsbawm 2011). Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80
lo sviluppo capitalistico occidentale, e quindi italiano, comincia a fare i conti con
una ristrutturazione che investe innanzitutto l’apparato industriale: basti ricordare la
vertenza Fiat proprio del 1980 (Polo, Sabattini 2000) che rappresenta simbolicamente la
fine del «secolo del Lavoro», con la L maiuscola, caratteriz¶{p. 2}zato
dalla forza politica e sociale dell’operaio-massa, figura simbolo del Lavoro. Accornero
presenta subito la sua tesi: «il valore del Lavoro… ha perso molta centralità» (pag. 9)
in una crisi ormai presente nel tessuto economico e normativo del sistema produttivo
italiano che si manifesta proprio con la legislazione lavorista d’emergenza (De Luca
Tamajo 2008). La crisi del sistema capitalistico comincia a presentare i suoi conti:
passaggio dal pieno impiego alla disoccupazione strutturale e dall’impiego stabile alla
lenta e progressiva crescita di lavoro temporaneo; trasformazione del modo di produrre
nel passaggio dal taylorismo-fordista alla variegata forma post-fordista.
Accornero, però, non si limita a
registrare una crisi del lavoro come fattore di produzione, cioè «come merce», perché
intravede anche «una crisi del lavoro come ideale» (pag. 10). In questo senso la formula
«valore del Lavoro» implica sia il valore di scambio (della forza-lavoro) sia il valore
d’uso (della capacità professionale). Si tratta di una questione che l’Autore pone al
sindacato e alla politica laburista per sfidarla ad avere un «paradigma laico» di
approccio la lavoro del nuovo secolo: come ha ben detto Guido Balandi nella
Laudatio per il conferimento della laurea honoris
causa nell’Università di Ferrara proprio ad Aris Accornero, in questo
libro egli propone «un percorso di laicizzazione dell’approccio al lavoro» (Balandi
2000) dal momento che – come lo qualifica Mario Tronti in un commovente necrologio – «il
suo approccio era empirico, realistico, anti-ideologico» (Tronti 2018).
Per cogliere appieno quella che
l’Autore vede come una sorta di caduta dal piedistallo della santificazione ideologica
del Lavoro, occorre partire da alcuni indicatori sociali (e normativi) che segnano la
fine dell’ideologia. Per questa ragione credo sia utile cominciare dai capitoli del
libro che offrono una base analitica della crisi del lavoro per poi indurre alla critica
all’ideologia del Lavoro; insomma, si tratta di leggere questo libro partendo dai fatti
che poi ci conducono alle idee e (forse) alla loro critica. ¶{p. 3}
2. La crisi del lavoro come «mestiere»: sul lavoro salariato nel fordismo e post-fordismo
Ebbene, comincerei dalla crisi del
lavoro come «mestiere». Accornero denuncia la sopravvalutazione della cultura del lavoro
taylor-fordista, edificata su una concezione professionalizzante del lavoro che però mal
si concilia proprio con l’evoluzione subita dal taylor-fordismo nell’egemonia
dell’operaio-massa prodotto dalla catena di montaggio. In questa parte del suo discorso,
Accornero mostra tutto il suo realismo – per non dire scetticismo – verso ciò che il
lavoro è nello sviluppo capitalistico: «è la trasformazione in merce, operata dal
capitalismo, che ha degradato il lavoro. E l’ha degradato… per la materiale spoliazione
di qualcosa… che… è la loro professionalità» (pag. 98).
Accornero invita a prendere atto che
nel lavoro novecentesco, quello taylor-fordista che l’ordine sociale laburista ha finito
per assumere come leva principale di emancipazione sociale, non c’è più «mestiere
artigianale» o forse non c’è mai stato. Il mestiere del lavoratore, quello che rimanda
all’artigiano, all’homo faber indicato da Hanna Arendt in
Vita Activa e poi da Richard Sennet ne L’uomo
Artigiano, secondo Accornero, «è ciò che si ha nel cuore, e magari nella
mente, non soltanto quando si denuncia la degradazione del lavoro ma anche quando se ne
immagina la liberazione» (pag. 125). Ma è realistica questa ambizione accorata verso il
lavoro salariato capitalistico, professionale e artigiano? Accornero pone questa
domanda: «che cosa la classe operaia ha dunque perduto?».
In effetti, è come se la fase di
emancipazione e progresso che il movimento operaio ha vissuto nel ’900, la conquista di
un apparato normativo e sociale di redistribuzione e riconoscimento di diritti per tutto
il «secolo breve», abbiano finito per oscurare il fatto che si tratta pur sempre di
lavoro salariato, di un modo di produrre, il taylorismo appunto, che aveva fatto del
lavoratore un «gorilla ammaestrato», come scrisse Gramsci
[1]
. Nondi¶{p. 4}meno, anche in questo modello di lavoro residua
un certo grado di mestiere, di professionalità che Accornero riconosce, seppure – ecco
il punto – qualificandolo per quel che è, cioè per essere un elemento necessario
all’esatto adempimento della prestazione utile al capitalista. Ecco perché egli ci
richiama alla secolarizzazione del Lavoro operaio taylorista, non fosse altro perché si
rischiava di rivendicare un «mestiere professionale» intriso di autonomia, se non
proprio di libertà, che può generare un pericoloso equivoco: «si continua imperterriti a
scambiare l’autodecisione operativa con la libertà nel lavoro, la padronanza del
mestiere con la coscienza del produttore, il possesso di una qualificazione con
l’affrancamento dalla subordinazione. A confondere la professionalità con l’autonomia,
la soddisfazione col rendimento e la libertà con la produttività» (pag. 132).
Accornero sottolinea la cesura che
il taylorismo ha segnato, non tanto con una vaga idea di libero caratterizzato da
autodecisione, soddisfazione, qualità, quanto con la tendenziale spoliazione della
professionalità: «non già una professionalità, intesa come mestiere artigianale o come
«attività totale», inesistenti in natura per la maggior parte dei salariati, bensì
quella particolare proprietà sul lavoro che consisteva nella facoltà di decidere le
modalità di esecuzione e, entro certi limiti, il tempo da impiegare» (pag. 105). Certo,
occorre evitare il rischio di cadere in una mitologia del lavoro artigiano
pre-taylorista come se nella società medievale, premoderna, o finanche nel capitalismo
industriali delle origini, insomma prima di Taylor, vi fosse lavoro libero e autonomo.
La critica di Accornero all’ideologia taylorista del lavoro è proprio all’idea che quel
modello di produzione capitalistico possa essere un mito per il lavoro: «il
taylor-fordismo ha sottratto e distrutto i margini di autonomia nella prestazione. Cioè
la libertà di lavorare in modo meno redditi¶{p. 5}zio di quanto fosse
capitalisticamente possibile nell’unità di tempo» (pag. 105). Ecco perché Accornero
critica una certa immagine del lavoro taylor-fordista perché sembra essere riferita non
tanto a un lavoro che non c’è più ma a un lavoro – quello taylorista appunto – che non
ha mai avuto queste qualità.
Il punto in questione è che si
tratta di una qualità che il lavoro salariato non può avere perché il lavoro salariato è
«fatica e sudore», tant’è che con una certa dose di sarcasmo chiude questo discorso
sentenziando così: «finché si produrranno automobili, le uniche fabbriche festose
saranno quelle dove nei reparti vengono diffuse musichette gaie o dove vengono affisse
foto di eroi del lavoro. In assenza di ciò, rimarranno piacevoli solo le pause» (pag.
134). Sorprende il fatto che, oggi, quella stessa critica realista potrebbe farci
recuperare una certa visuale sulla prospettiva del lavoro post-taylorista dato che, dopo
quarant’anni, è ancora vivo e insoluto il discorso sulla rivendicazione di un lavoro
salariato «neo-artigianale», l’idea arendtiana di «homo faber… un
signore e padrone, non solo perché è, o viene fatto, padrone di tutta la natura, ma
perché è padrone di sé stesso e della propria opera [mentre] non è così per
l’animal laborans, che è soggetto alla necessità della propria
vita» (Arendt 2001, p. 103).
Accornero richiama la cultura
operaista a una certa maggiore sobrietà nell’immaginare un lavoro salariato che non c’è
e che non ci può essere; tuttavia, non può immaginare che quella stessa cultura sarebbe
stata assunta e metabolizzata nella trasformazione del modo di lavorare del
post-fordismo capitalista. Luc Boltansky ed Ève Chiapello, in Le nouvel esprit
du capitalism, parlano di «critica artistica» (Boltansky, Chiapello 2012,
pp. 417-418), usando un aggettivo che ha la stessa radice etimologica di «artigiano» e
che allude a una critica «progressista» dell’irreggimentazione sociale di cui il
taylorismo è stata espressione, soprattutto nel lavoro. Ebbene, questa critica artistica
rivendica autonomia, creatività, autenticità, libertà nel lavoro; il fatto è che essa è
stata incorporata dal nuovo spirito capitalistico assumendo il «feticcio della libertà
individuale» (Chicchi, 2012, p. 10), incorporandolo nel lavoro
post-
¶{p. 6}fordista e producendo così un «comando che si esprime
attraverso la produzione di libertà»
[2]
.
Note
[1] Gramsci 1966, p. 337 «si è completamente meccanizzato solo il gesto fisico» [non già la capacità di pensare]; «gli industriali americani hanno capito…che «gorilla ammaestrato» è una frase, che l’operaio rimane «purtroppo» uomo e persino che egli, durante il lavoro, pensa di più o per lo meno ha molto maggiori possibilità di pensare…e non solo pensa, ma il fatto che non ha soddisfazioni immediate dal lavoro, e che comprende che lo si vuol ridurre a un gorilla ammaestrato, lo può portare a un corso di pensieri poco conformisti».
[2] Chicchi, Leonardi, Lucarelli 2016, p. 9. Cfr. anche Chicchi, Simone, 2017.