Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c3
La lettura che dà Gramsci del passaggio
taylor-fordiano è più complessa ed «epocale». Egli infatti vi vede
«anche il maggior sforzo collettivo verificatosi finora per creare,
con rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di
lavoratore e di uomo»: cioè l’operaio della grande produzione di massa del XX secolo
[14]
. Questa è la novità che Gramsci coglie nel fenomeno
americano: «Si tratta solo della fase più recente di un lungo processo che si
è iniziato col nascere dello stesso industrialismo, fase che è solo più intensa delle
precedenti e si manifesta in forme più brutali, ma che essa pure verrà superata con la
creazione di un nuovo nesso psico-fisico di un tipo differente da quelli precedenti e
indubbiamente di un tipo superiore»
[15]
. Stante il presentimento di una siffatta mutazione, quasi antropologica, nel
lavoro umano e nella classe operaia, Gramsci non versa troppe lacrime sul fatto che il
taylor-fordismo tenda a «spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale
qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia
e dell’iniziativa del lavoratore». Maggior rimpianto mostra semmai per quella
«umanità e spiritualità [che] era massima dell’artigiano, nel
demiurgo, quando la personalità del lavoratore si rifletteva tutta
nell’oggetto creato», e contro la quale «lotta il
¶{p. 102}nuovo
industrialismo»
[16]
della società americana (che vi era oltretutto più estranea di ogni altra): ma
di fronte alla portata storica del nuovo, Gramsci non si attarda nel lamento per il mestiere
perduto.
Quando insomma è ormai incipiente quel salto che segna
una cesura nella divisione e nell’organizzazione capitalistica del lavoro, non c’è nelle
fabbriche — tanto meno se americane — una massa proletaria fatta di provetti calderai,
conciatori, filatori, tipografi e così via, ai quali stia per venire sottratto e distrutto
il mestiere
[17]
. Si registra certo ovunque un miglioramento nelle condizioni materiali della
classe operaia, ma non se ne può desumere un accrescimento dello stock
o del livello di professionalità. (Con questo procedimento, si potrebbe allora contestare
tutta la tesi della degradazione del lavoro). Quella ricostruzione è dunque
inattendibile.
Una tale visione è inoltre meta-storica. Essa
ripropone quesiti che valgono tanto per la divisione del lavoro quanto per l’alienazione del
lavoro. Quale grado di storicità reale hanno questi processi, quale periodizzazione concreta
se ne può dare
[18]
? Sono essi connessi ad una originaria rottura nella unità-unicità del lavoro e
dell’uomo, sono innescati cioè da una preistorica nascita della proprietà privata; oppure
accompagnano la specifica mercificazione capitalistica del lavoro e dell’uomo, chiaramente
databile anche se con doverosa latitudine storica?
Più semplicemente, e con la sfrontatezza
dell’ingenuità, vien da domandarsi: la degradazione del lavoro, quando comincia
[19]
?
2. La degradazione tayloristica dell’attività umana
Ai nostri tempi, come s’è già detto, lo spartiacque
viene piantato in corrispondenza del taylorismo. Ma si potrebbe fondatamente retrodatare.
Due secoli fa, infatti, Adam Ferguson e Adam Smith parlavano di tendenze già presenti e
documentabili, senza nascondersi le dure conseguenze del processo di divisione
manifatturie¶{p. 103}ra del lavoro. Sessant’anni dopo, mentre Charles
Babbage portava avanti tale processo e il dottor Ure lo giustificava, de Tocqueville vi
intravvedeva il destino più funesto per gli operai
[20]
; e Marx non aveva ancora vergato un rigo dei suoi Manoscritti
filosofici.
A prima vista non si capisce perché appaia oggi più
condannabile la divisione-degradazione del lavoro quando intervenne nel taglio dei metalli,
rispetto a quando trasformò la fabbricazione degli spilli. Forse perché la perdita di
mestiere si stima più grave nel caso di chi regolava il tornio per conto proprio — il
tornitore-Universal — che non in quello di chi faceva da solo tutto lo spillo — Partigiano
di Norimberga? Forse. Ma la ragione per cui lo spartiacque corrisponde al taylorismo, è
un’altra. Nella storia dell’organizzazione capitalistica del lavoro è come se ad un certo
punto si fosse arrivati all’eccesso, ad una divisione del lavoro troppe spinta. Ed il
segnale di pericolo, la goccia che fece traboccare il vaso, non furono i sistemi di tempi
standard predeterminati, come l’MTM, che divennero tristemente famosi molto più tardi
[21]
. Fu l’intervento diretto sul lavoro, senza la mediazione
dell’attrezzo o l’imposizione della macchina.
E questo si deve a Taylor, dopo il quale il
capitalista non soltanto costringerà l’operaio «a lavorare di più, ma
anche a lavorare in modo diverso»
[22]
. Da qui il gran vituperio che glien’è venuto. Taylor capì che se ciascun operaio
poteva difendersi dall’intensificazione del lavoro, era perché conservava dei margini di
autodecisione nel lavoro. Non che avessero necessariamente delle perizie artigianali, un
mestiere qualificato da difendere: solo che ognuno cercava di mantenere le proprie personali
abitudini manuali
[23]
. Così, una miriade di singoli procedimenti lavorativi cominciò a essere
aggredita e sconvolta attraverso metodi basati sulla misurazione dei tempi e sullo studio
dei movimenti, cui i coniugi Gilbreth contribuirono molto, ma che senza Ford avrebbero fatto
poca strada giacché era un madornale errore di Taylor — tecnocratico od illuministico? —
quello di credere che gli operai si lasciassero convin¶{p. 104}cere a
cooperare nella normalizzazione del lavoro, cioè nella
razionalizzazione dello sfruttamento
[24]
.
«Imparare a lavorare. — scrisse Lenin — L’ultima
parola del capitalismo a questo proposito, il sistema Taylor, come tutti i progressi del
capitalismo unisce in sé la crudeltà raffinata dello sfruttamento borghese e una serie di
ricchissime conquiste scientifiche»
[25]
.
E qui, un’annotazione va fatta. Harry Braverman aveva
assolutamente ragione di dire che Taylor «è stato il pioniere della più grande rivoluzione
mai avvenuta nella divisione del lavoro». Ma aveva assolutamente torto nel credere che la
sua non sia stata una rivoluzione scientifica, sol perché non è andato alla ricerca di un
inesistente «modo migliore di lavorare “in generale”»
[26]
. Lo stesso Sohn-Rethel, nonostante metta tra virgolette la scientificità dei
principi organizzativi di Taylor (ma questo amaro sarcasmo sarebbe ben più efficace se nel
frattempo qualcuno avesse inventato altri principi, non malvagi
[27]
), riconosce che ne è sortita «una unità di misurazione della funzione umana e
della funzione meccanica [che] è il principio operativo del moderno processo di produzione
continuo»
[28]
: il che non è nemmeno poco, in confronto alla lampadina di Edison o ai
quanta di Bohr. Né cambia le cose far rimarcare invece che Taylor è
stato uno scienziato al servizio del capitale, visto che questo è semmai il suo elemento di
forza, non già di debolezza.
Provate ad affrancare e a chiudere trenta buste: vi
accorgerete dopo un po’ qual è il modo migliore, cioè il più rapido e meno faticoso per voi.
L’one best way, attraverso la pretesa di
trovare l’unico, indicava la necessità di scoprirne uno. Ciò richiedeva di smontare e
rimontare i movimenti fino a stilizzare l’operazione. La semplificazione del lavoro manuale,
che con Ford diventa un inflessibile sistema operativo
[29]
, non aveva mai formato prima oggetto di studio in sé, non era stata mai
sottoposta ad analisi sistematica
[30]
. Lo scientific management, che qui in Europa tradussero con
organizzazione scientifica del lavoro, era ahinoi un procedimento che rispondeva a canoni
scientifici. Capitalisti¶{p. 105}ci? Ma sicuro: e quali altri? Se fosse
stata una ennesima forma di speed-up, non staremmo ancora qui a
discuterne. Non avrebbe rivoluzionato quasi nulla. E invece ha squassato e riplasmato il
lavoro umano di tutta un’epoca storica. E nonostante sia in crisi — come del resto pare del
capitalismo stesso — non accenna a declinare definitivamente. E giacché «contiene
caratteristiche di divisione sociale del lavoro che si modificano più lentamente delle
caratteristiche di divisione tecnica [...], il taylorismo può sopravvivere alle ragioni che
l’hanno generato»
[31]
. Dichiarare ascientifico un apparato di pensiero e di regole che tiene impegnata
la classe operaia a lottare e l’intellighentia di sinistra a
polemizzare da oltre mezzo secolo, non si sa se sia più saccente o più miope. Ed è comunque
del tutto fuori luogo.
Imparare a lavorare. Quando, come scrive Hobsbawm, «i
datori di lavoro si resero finalmente conto dei risparmi fantastici nel costo della
manodopera che poteva portare l’impiego scientifico della forza-lavoro», la classe operaia
fu costretta a rompere con le proprie consuetudini, ad abbandonare «la possibilità di
stabilire un rapporto fra fatica e paga»
[32]
.
Che cosa la classe operaia ha dunque perduto? Non già
una professionalità intesa come mestiere artigianale o come «attività totale», inesistenti
in natura per la maggior parte dei salariati, bensì quella particolare proprietà
sul lavoro
[33]
che consisteva nella facoltà di decidere le modalità di esecuzione e, entro
certi limiti, il tempo da impiegare. Alla classe operaia, il taylor-fordismo ha sottratto e
distrutto i margini di autonomia nella prestazione. Cioè la libertà di lavorare in modo meno
redditizio di quanto fosse capitalisticamente possibile nell’unità di tempo.
Le macchine, il processo meccanico, c’era ancora chi
cercava di presentarli come amici del proletariato, per lo meno, di quella parte che non
perdeva il posto. Prima di Taylor, un economista socialista come A. Graziadei poteva
sostenere che il lavoro alle macchine tende «a sviluppare l’intelligenza» in quanto
«l’operaio deve sapersi adattare rapidamente ad ogni modificazione,
[che]¶{p. 106} lo costringe a spostare le sue abitudini, e a formarsi un
certo numero di nuove idee […], più rigorose e più larghe»
[34]
. T. Veblen dava un giudizio più articolato dei mutamenti che il macchinismo
comportava negli «abiti mentali dell’operaio quanto a direzione, metodo e contenuto del suo
pensiero», escludendo che se ne potesse parlare soltanto «come di un deterioramento o di un
obnubilamento della sua intelligenza»
[35]
. Invece Frederick Winslow Taylor finì sotto inchiesta davanti al Congresso degli
Stati Uniti, nazione anch’essa animata come lui, quacchero praticante, «da una concezione
estremamente rigorosa e puritana del lavoro umano»
[36]
.
Risparmio di movimenti inutili:
questa è la spoliazione perpetrata. Il mestiere non c’entra, Taylor non ce l’aveva di mira;
e neppure i Gilbreth. Essi si applicarono principalmente a lavori poco o niente qualificati,
come il trasporto della ghisa o la stessa posa dei mattoni, che giustamente
[37]
rivoluzionarono.
Affermare che l’organizzazione del lavoro di tipo
tayloristico, con la sua parcellizzazione rigida, «blocca l’espressione concreta della
creatività del lavoro»
[38]
, è oggi cosa fin troppo ovvia se si tratta d’un giudizio politico. Se si tratta
di un giudizio storico, bisognerebbe documentare quanta creatività
esisteva prima, e quale. Era creativa l’autonomia con la quale ciascun operaio eseguiva un
medesimo lavoro in modi personali, magari gareggiando con gli altri per spuntare un maggiore
guadagno, visto che il cottimo esisteva già, ben prima del taylorismo? Dato un certo pezzo o
una certa operazione da fare, ognuno la faccia a modo suo: era in questa maniera che si
esplicavano le «qualità propriamente umane della capacità di lavoro»
[39]
? O questo non era piuttosto un artigianato di massa che bastava appena per
l’800?
Coloro i quali rimpiangono la professionalità perduta
non vogliono capire una cosa tremendamente semplice. Il taylorismo non ha
degradato il lavoro, ha fatto di peggio: lo ha asservito, plagiato
e «sussunto» — come diceva Marx
[40]
— entro un apparato capace d’impri
¶{p. 107}gionarlo. Ecco
«rinnovazione decisiva, il passo verso la completa socializzazione del lavoro»
[41]
.
Note
[14] A. Gramsci, Americanismo e fordismo, in Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Torino, Einaudi, 1949, p. 330.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem, p. 331.
[17] Lo stesso Braverman, nella sua nota finale sulla qualificazione, op. cit, pp. 426 ss., deve ammettere che all’inizio del ’900 c’era negli Stati Uniti meno di un operaio qualificato ogni dieci. Riconosce B. Coriat, La fabbrica e il cronometro, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 32, che nella stragrande maggioranza gli immigrati dall’Europa erano «assolutamente non qualificati», e senza alcuna esperienza di lavoro industriale.
[18] Si veda un autore come K. Axelos, Marx pensatore della tecnica, Milano, Sugar, 1963, che eternalizza egli stesso il concetto di alienazione, ma poi vede i limiti di questo naturalismo osservando: «Marx diviene veramente difficile da seguire quando parla della soppressione della divisione del lavoro», p. 301. Parlando anch’egli di Marx, aveva già notato H. Kelsen, Socialismo e Stato, Bari, De Donato, 1979, p. 87: «Non è del tutto comprensibile come il superamento della divisione del lavoro possa rafforzare le forze produttive».
[19] Per esempio, nel suo noto libro, che ha per sottotitolo «La degradazione del lavoro nel XX secolo», Braverman parla dell’ingegnere che progetta il processo produttivo come di un tecnico il cui compito è «visualizzare il lavoro non come attività umana totale», op. cit., p. 180. Ma qual è concretamente quel lavoro che si svolge come attività umana totale? (P.S. Questo capitolo era già stato scritto quando è uscito il fascicolo n. 172 di «Aut Aut», luglio-agosto 1979, ampiamente dedicato a una disamina dell’importante libro di Harry Braverman. Poiché molti dei giudizi là espressi coincidono con i miei, e in particolare quelli dei saggi di A. Tovaglieri, F. Cambino e B. Cartosio, ho preferito lasciare testo e note com’erano. La sola osservazione al fascicolo è che, con il tipo di argomenti usati, non sarà facile persuadere il sociologo o lo storico. Condivido quanto in proposito ha anche detto M. Tronti, Le verità nascoste del lavoro operaio, in «Rinascita», n. 40, 19 ottobre 1979).
[20] «L’uomo si degrada nella stessa misura in cui l’operaio si perfeziona»: A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Scritti politici, Torino, UTET, 1968, p. 649. Anche questa discesa agli inferi è metastorica, ed ha influenzato coloro che addebitano al capitalismo tutto il lavoro diviso, aspettandosi pertanto chissaché — in genere, il lavoro liberato — dal suo superamento o seppellimento.
[21] Cfr. A. Abruzzi, Work Measurement. New Principles and Procedures, New York, Columbia University Press, 1952, pp. 120 ss. e bibliografia p. 273-9; H. B. Maynard, G.J. Stegemerten, J. L. Schwab, M.T.M. Lo studio dei metodi e dei tempi di lavorazione, Milano, Etas-Kompass, 1969 (ediz. originale: 1948).
[22] F. Jánossy, La fine dei miracoli economici, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 278: un libro originale anche per quanto riguarda il tema di questo capitolo.
[23] Ho svolto più diffusamente queste argomentazioni in Dove cercare le origini del taylorismo e del fordismo, «Il Mulino», n. 241, settembre-ottobre 1975.
[24] Questa contraddizione è rilevata da A. Anfossi, Prospettive sociologiche sull’organizzazione aziendale, Milano, Franco Angeli, 1971, p. 91 quando nella teoria del Scientific management vede il pessimismo sulla natura umana e l’ottimismo sulla razionalità tecnologica. Dal canto suo, in quest’opera di rieducazione individuale, S. Weil vede l’intento di «distruggere la solidarietà operaia»: La condizione operaia, Milano, Comunità, 1952, p. 242.
[25] V. I. Lenin, I compiti immediati del potere sovietico, in Opere, vol. XXVII, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 231. Quando disse questo, nel 1918, non è che Lenin si fosse trasformato in mr. Hide rispetto a quanto aveva scritto cinque anni prima, come rileva anche R. Linhart, Lenin, i contadini e Taylor, Roma, Coines, 1977, pp. 112-20. Solo che la presa del potere costringeva ad adottare una cultura non più d’opposizione ma di governo, visti anche i risultati produttivi dei primi 6 mesi di autogestione delle fabbriche. Sulla scientificità del taylorismo si basava del resto l’ipotesi di ricostruzione consiliare della società proposta da «L’Ordine Nuovo»: cfr. gli articoli di C. Petti, Il sistema Taylor e l’organizzazione scientifica del lavoro; Esame di alcuni concetti del taylorismo; L’organizzazione dei Consigli, sui nn. 24, 25 e 26, dell’l, 8 e 15 novembre 1919, ora in F. Steri (a cura di), Taylorismo e fascismo, Roma, Editrice sindacale italiana, 1979. Da tale pulpito, quindi, non si può dire che venissero lodi prodotte da un voltafaccia quale quello imputato a H. Dubreuil, Standards. Il lavoro americano veduto da un operaio francese, Bari, Laterza, 1931.
[26] H. Braverman, op. cit., pp. 90-91. «Più che contro l’aspetto essenziale del messaggio tayloristico [...], questi rilievi sembrano indirizzati contro gli inevitabili limiti storici e culturali che lo sviluppo della scienza nei primi due decenni del secolo imponeva al proto-taylorismo»: così G. Bonazzi, Il taylorismo tra strumento del capitale ed utopia tecnocratica (II), in «Economia & lavoro», n. 2, marzo-aprile 1972, p. 194.
[27] Sprezzanti virgolette aveva usato lo stesso Lenin nel 1913, in un corsivo sulla «Pravda»: Sistema «scientifico» per spremere il sudore, in Opere, vol. XVIII, Roma, Editori Riuniti, 1966, pp. 573-4. Ma il sarcasmo non è vero che uccide le persone; figuriamoci un apparato analitico che regge tuttora.
[28] A. Sohn-Rethel, op. cit., p. 139.
[29] B. Mottez, Systèmes de salaire et politiques patronales, Centre nationale de la recherche scientifique, Paris, 1966, p. 143: «La logica del taylorismo, è il fordismo».
[30] Lo riconosce la stessa S. Weil, che tuttavia dichiara emotivamente: «Non si può chiamare scientifico un sistema di questo tipo»: op. cit., p. 244.
[31] F. Butera, La divisione del lavoro in fabbrica, Padova, Marsilio, 1977, pp. 93-5. «Non è forse vero che, rifiutato Taylor, i suoi principi continuano nondimeno a sussistere e a trionfare sempre nelle industrie, anche se sotto una forma modificata?»: P. Rolle, Sociologia del lavoro, Bologna, Il Mulino, 1973, p. 58.
[32] E. Hobsbawm, Consuetudini, salari e carico di lavoro, in Studi di storia del movimento operaio, cit., alle pp. 424 e 404.
[33] P. Rolle, op. cit., pp. 56-64, parla di «senso della proprietà» e di «padronanza del proprio lavoro» riferendosi alla autonoma conoscenza empirica dell’operaio, alla sua «scienza tradizionale».
[34] A. Graziadei, La produzione capitalistica, Torino, Bocca, 1899, p. 109 (ma è da leggere tutto il capitolo, «L’evoluzione della grande industria»); e Il lavoro umano e le macchine, in «Il Giornale degli economisti», 2a serie, vol. XVIII, aprile 1899, p. 131.
[35] T. Veblen, La teoria dell’impresa, Milano, Franco Angeli, 1970, nota p. 242. Nelle due pagine che precedono sono contenute definizioni ineguagliabili sul rapporto uomo-macchina, di cui non si sa se ammirare maggiormente l’acume antropologico o la freddezza scientifica. Quanto alla perdita degli abiti mentali «antropomorfici» di cui parla Veblen, aveva scritto K. Kautsky, Il programma di Erfurt, Roma, Samonà e Savelli, 1971, p. 145: «La macchina priva il lavoro di ogni contenuto spirituale» (corsivo nostro).
[36] G. Bonazzi, Il taylorismo tra strumento del capitale ed utopia tecnocratica (I), in «Economia & lavoro», n. 1, gennaio-febbraio 1972, p49.
[37] Giustamente, dico, essendovi come sola alternativa il muratore d’assalto Birkut, protagonista dello straordinario film di Andrzei Wajda, L’uomo di marmo, dove trova conforto una tesi in cui credo: cioè dello stakanovismo come un taylorismo dal basso, senza fordismo.
[38] S. Garavini, I mutamenti nei ruoli professionali e nei rapporti di lavoro, in Ascesa e crisi del riformismo in fabbrica, Bari, De Donato, 1976, p. 18.
[39] Ibidem.
[40] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze, La Nuova Italia, 1970, vol. II, p. 391.
[41] A. Sohn-Rethel, op. cit., p. 132. Anche per questo autore si può dire con M. Cacciari che «il problema dell’organizzazione del lavoro tende a risolversi [...] nella sua versione tayloristica pura»: cfr. Note intorno a «Sull’uso capitalistico delle macchine» di Raniero Panzieri, in «Aut Aut», n. 149-150, settembre-dicembre 1975, p. 191.