Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c3
Ha scritto Braverman: «Il lavoratore può riconquistare la padronanza della produzione collettiva e socializzata solo padroneggiando le caratteristiche scientifiche, progettuali e operative dell’ingegneria moderna; senza di che non vi è padronanza del processo lavorativo» [107]
. In senso simbolico, tutto questo ci appare abbastanza comprensibile. Ma se va inteso in termini effettuali, allora diventa semplicemente assurdo, sia come aspirazione che come prospettiva. A parte ogni giudizio sulla natura e sulla composizione di una siffatta forza lavoro da Iperurania, siamo nel pieno di quel modello di professionalità politecnica che, ricalcando le conoscenze di un universo finito qual era la bottega artigiana, non tien più insieme i saperi d’un sistema integrato
{p. 127}quale invece l’impresa moderna. (E non sembri pertanto offensivo verso Braverman un riferimento alle virtù emancipatrici riposte già da Proudhon nel sapere politecnico-scientifico, sulla cui base fondare «il piano dell’istruzione operaia» [108]
: c’è infatti tutta una scuola di psicosociologia del lavoro che si propone di «dare alla fabbrica una dimensione nuova con finalità di tipo formativo» giacché il lavoro «deve offrire all’uomo l’opportunità della sua autorealizzazione» [109]
). È il supremo tentativo di associare e di coniugare Rinascimento [110]
ed automazione per estrarne quell’artefice che signoreggia la natura mediante la scienza.
Ma l’obiettivo della compiutezza non può tradursi in quello di una cultura polistecnica che riproduca nell’individuo il cervello sociale della collettività, che annulli col sapere scientifico la divisione tecnica del lavoro. E come potrebbero i giovani, cresciuti in un mondo di conoscenze specialistiche interconnesse, trovare ancora esaltante il miraggio tecnologico di un’istruzione-formazione universalistica che faccia di ciascuno non solo un uomo ma addirittura un Principe dell’industrialismo: l’utopia deve avvicinare il domani, non allontanarlo.
Non molto diversa è la riflessione che andrebbe fatta sul requisito della creatività. Un presupposto del discorso sulla professionalità è che la rigidezza dell’attuale sistema di organizzazione del lavoro «blocca l’espressione concreta della creatività del lavoro», come dice Garavini [111]
. Anche quest’affermazione è abbastanza comprensibile nel suo significato. Però bisogna verificare se non sia inadeguata, se non evochi qualcosa di improprio: di quale creatività si sta parlando?
L’elemento costrittivo dell’organizzazione attuale del lavoro consisterebbe nel fatto che «sono utilizzate al minimo le doti propriamente umane della capacità di lavoro» [112]
. (Secondo me, questa denuncia non è da prendersi così alla lettera, giacché un siffatto utilizzo dovrebbe dar luogo ad una società arcaica; invece ha per corrispettivo una produzione moderna, per reggere la quale non basterebbe evidentemente tanta massa di doti umane dissipate. Voglio dire: ci si poteva permet{p. 128} tere di buttare gran parte della capacità di lavoro collettiva soltanto quando le attività prevalenti degli adulti erano la caccia e la guerra). Ad ogni modo, le doti propriamente umane della capacità di lavoro, di cui si viene lamentando il sottoutilizzo, sono «le doti di adattamento e di creatività» [113]
. Ritenendo di poter escludere l’eventualità che con ciò Garavini intenda semplicemente riferirsi a quella esuberanza dell’essere di cui scrisse Marcuse [114]
(nel senso antropologico, cioè che le virtualità dell’uomo lavoratore eccedono sempre le sue estrinsecazioni lavorative), mi permetterò di sollevare qualche altro dubbio.
Dubito intanto che la capacità di adattamento nel lavoro sia così negletta: ho anzi il sospetto che sia una delle doti su cui i padroni fanno maggior affidamento, se non addirittura la più utilizzata, come vedremo più avanti. Dubito inoltre che la capacità di adattamento, connotato precipuo dell’homo sapiens, possa in sé costituire un campo di creatività. Oggi poi il lavoratore moderno, reso più adattabile ed intercambiabile che mai dalla scolarizzazione, e portatore dunque di lavoro astratto [115]
, può meno che mai mostrarsi creativo nel senso faber, artigianale, mentre è potenzialmente capace di più lavori o di molte mansioni. L’ideale del mestiere artigiano è inapplicabile a questo lavoratore — e ciò, prescindendo dalle sue propensioni — non perché le sue attitudini siano state inguaribilmente deteriorate, soffocate, degradate, ma perché dall’epoca della manifattura in poi sono subentrati rapporti sociali che hanno fatto tramontare, forse definitivamente, la visione unitaria, l’ambito finito, la compiutezza individuale dei lavori. Dunque il modo col quale questo lavoratore può essere creativo assume un significato diverso da quello che al termine si vuol dare. Occorre intendersi: quale creatività si giudica che venga mortificata, concretamente?
La vera creatività nel lavoro dovrebbe consistere nell’invenzione o nel cambiamento dei prodotti; se stesse soltanto nelle modalità di esecuzione, si ridurrebbe a mera parvenza, a condizione subalterna. Il fatto è che parlando di creatività si allude giocoforza ad un modello {p. 129}di capacità lavorative che, per esprimersi, abbisognerebbe di uno spazio ben maggiore di quanto venga oggi accordato a gran parte del lavoro dipendente, specie se applicato e irreggimentato nell’industria. L’esperienza anzi ci dice che la stessa polivalenza acquisita con il lavoro industrializzato, sia entro mansioni operaie che impiegatizie, siccome proviene dalla sommatoria o dall’accorpamento di particole, non diviene neppure essa terreno di creatività anche quando vi si voglia vedere il sogno perduto della totalità artigiana [116]
.
L’ambigua coppia, formata dalle doti di adattamento-creatività, che viene contrapposta da Garavini alle «tradizionali capacità di lavoro specifiche e delimitate» [117]
— evidentemente riferendosi alla fase B e ritenendo che la professionalità stia ormai entrando nella fase C — conduce pertanto in un’altra direzione. Porta cioè a constatare che lo sbocco praticabile di tali doti lavorative consiste nel come assai più che nel cosa fare. Ma questo dimostra appunto che non esistono disposizioni o doti lavorative concrete, che possano essere considerate «propriamente umane» o genericamente innate: questa, ancora una volta, è la rappresentazione artigiana che si tende a perpetuare. Bisogna situarle storicamente (non mi piace il termine relativizzare), poiché è chiaro che esse vengono plasmate dal lavoro concretamente chiesto ed imposto al lavoratore, dai rapporti sociali e dall’organizzazione produttiva delle varie epoche.
Un’altra prospettiva critica sui limiti posti oggi alla creatività del lavoro è quella di chi, come G. Bonazzi, sostiene che «il pulsare del lavoro vivo straripa continuamente dalla gabbia in cui viene imprigionato» [118]
. Non si tratta tanto di una esuberanza vitale, quanto di un’eccedenza professionale vera e propria, che riguarda il collettivo e non più il singolo. Il lavoro vivo infatti «si qualifica e si organizza per sopperire alle deficienze dell’organizzazione ufficiale» [119]
. Questa è un’acquisizione empirica che merita di discutere. Innanzitutto, perché non viene sottaciuta la sostanziale delimitazione di questo straripamento quotidiano delle energie lavorative: è assodato in tal modo che questo pulsare può forse {p. 130} esprimere un’alternativa sui modi, non sui fini. I fini stanno dentro una gabbia più spaziosa ma più ferrea di quella dell’organizzazione lavorativa aziendale. Risulta altresì assodato che questo pulsare interagisce proprio con la rigidità nell’organizzazione del lavoro, la quale sollecita dunque la capacità di adattamento e la flessibilità operativa dei lavoratori anziché coartarle. E di questo in definitiva i padroni profittano giacché trattasi d’un pulsare tutt’altro che antagonistico.
La professionalità non riconosciuta, la collaborazione prestata di fatto dagli operai che con la propria iniziativa suppliscono alle pecche della produzione tutta predeterminata, è stata una delle più belle suggestioni dell’operaismo italiano anni ’60, pur essendo una scoperta già fatta in sociologia. Non si trattava di una deprecazione per quel bendidio dissipato, ma per quella cooperazione estorta. Ignorarla, vorrebbe dire che non si sa nulla di come funziona una fabbrica e poco di che cose il lavoro associato. Esaltarla, significa illudersi sulle valenze di una creatività meramente interstiziale.
D’accordo. Le aporie e le discontinuità nell’organizzazione del lavoro possono venire neutralizzate da una surroga operaia, che è al tempo stesso manifestazione di «bonne volonté» [120]
dei lavoratori e critica della razionalizzazione di tipo taylor-fordiana. Correttamente, F. Butera definisce «sapienza organizzativa» questa professionalità misconosciuta, che può dar luogo a una «cooperazione autoregolata» [121]
. Però l’organizzazione «reale» che ne deriva non è un’altra organizzazione. È la stessa organizzazione ufficiale, «formale», ma riempita e lubrificata nelle sue pieghe dall’iniziativa surrogatoria dei lavoratori, a volte inconscia o abitudinaria, a volte polemica ed esibita, a volte negata con varie forme di grève du zèle ovvero di «non collaborazione». Può essere che questa iniziativa segnali l’emergere di contenuti professionali più evoluti e più collettivi, e persino un «modello latente di organizzazione del lavoro» [122]
(per quanto il fenomeno non sia nuovo e l’incubazione di tali novità risulti quindi assai prolungata). Tuttavia, non è che una piccola parte di quel che occorrerebbe per {p. 131} impostare un’alternativa dell’assetto di tipo taylor-fordiano: un impianto che non mi pare possa venire sostituito con l’impiego della professionalità da esso residuata. (D. Linhart esalta le «briciole di autonomia» rimaste agli operai, con le quali essi «ritrovano gesti che hanno un senso» e danno al proprio lavoro «un’impronta personale», reintroducendovi «una dimensione un po’ più umana che li aiuta a sopportare una quotidianità abbrutente». Ma le sfugge che quelle briciole, quei gesti, quest’impronta sono frammenti indispensabili al processo produttivo solo come coibenti fra un suo segmento e l’altro; cosicché, se anche diventano un riempitivo irrinunciabile della presente organizzazione del lavoro, non sono di per sé la base di quella a venire. Ed io non ritengo una circostanza «paradossale» bensì una beffarda vittoria postuma del taylor-fordismo l’attitudine operaia a questa «partecipazione ed implicazione nel lavoro», che ne rafforza l’organizzazione «rendendola vivibile» [123]
).
Questa professionalità è un indizio, un deterrente, un germe, e va bene. Ma non è ancora un altro modo di produrre; non è la fabbrica rifondata, il lavoro creativo. Non solo, ma su questa base è arbitrario e rischioso decantare la «ricchezza potenziale che deriverebbe da una più libera organizzazione del lavoro» [124]
.
Mi rendo perfettamente conto che questo è il postulato incrollabile di qualsivoglia disegno di superamento del capitalismo. È ritenuto l’esito più scontato. E fra i tanti, lo ha forse detto meglio G. Sorel, quando con piena convinzione ha parlato di «officina liberamente e prodigiosamente perfezionata», e del «produttore libero d’una officina di alta produzione» [125]
. Questa convinzione presenta un’intima inerenza con l’assiomatica struttura del pensiero socialista, nel senso che ribalta pari pari la realtà capitalistica. È una convinzione che sta peraltro nel sottofondo di correnti e di aspirazioni molteplici, a tal punto che non riceve quasi enunciazione esplicita, né d’altra parte viene mai messa in discussione. È tuttora un faro che orienta i critici seri dell’organizzazione (capitalistica) del lavoro, sia pure come termine ad quem.
{p. 132}
Note
[107] Braverman, op. cit., p. 448. Probabilmente non vi è alcun influsso, ma l’analogia è piuttosto forte con A. Pannekoek, Organizzazione rivoluzionaria e Consigli operai, Milano, Feltrinelli, 1970.
[108] Proudhon, op. cit., p. 668-94. Questa stessa insistenza si trova presso numerosi pensatori dell’800, ma in pochi acquista un rilievo extra pedagogico così centrale e determinante.
[109] Così G. Refrigeri, Lavorare domani, cit., p. 44. Per tutti, vedi P. Jaccard, Psicosociologia del lavoro, Roma, A. Armando, 1968.
[110] Qui c’è anche l’eco di una apologia che contagia un po’ tutti su quell’epoca di «giganti» e di eroi che «non erano ancora sotto la schiavitù della divisione del lavoro», come ad esempio asserisce F. Engels, La dialettica della natura, Roma, Edizioni Rinascita, 1950, p. 15, ripreso con enfasi da J. Davydov, Il lavoro e la libertà, Torino, Einaudi, 1966, p. 96. Su questa mitologia, cfr. A. Heller, L’uomo del Rinascimento, Firenze, La Nuova Italia, 1977.
[111] Garavini, in Ascesa e crisi del riformismo in fabbrica, cit., p. 18.
[112] Ibidem.
[113] Ibidem. Già nel 1953, con la nota memoria Le relazioni umane e sociali nell’azienda, la CISL asseriva dal canto suo che il lavoratore moderno porta come dote «una volontà, una intelligenza, una capacità di adattamento a mansioni diverse», che «deve essere messo in grado di realizzare»: cfr. collana Documenti, n. 7, 1954 (ristampato nel 1957), p. 19.
[114] Marcuse, op. cit., pp. 166-7: il lavoro ha il suo fondamento «in una sovrabbondanza essenziale dell’esistenza umana» giacché «l’essere dell’uomo è sempre più della sua esistenza».
[115] Già quarant’anni fa M. Halbwachs, Psicologia delle classi sociali, Milano, Feltrinelli, 1963, notava che «nel nostro sistema economico il lavoro si presenta non come uno sforzo individuale, ma come parte di un insieme collettivo omogeneo, le cui unità sono sostituibili alle altre», p. 100.
[116] Rolle, op. cit., p. 181, fa risalire all’ottica proudhoniana il giudizio per cui «la polivalenza è sinonimo di riqualificazione e la specializzazione di degradazione». In polemica con Proudhon, Marx sosteneva invece il contrario ne La miseria della filosofia, Roma, Edizioni Rinascita, 1950, p. 116, vedendo nella fabbrica moderna la fine dell’«idiotismo del mestiere». Sulle delusioni derivanti dalle più recenti esperienze circa l’arricchimento della professionalità, cfr. D. Chave, Néo-taylorisme ou autonomie ouvrière? Reflexions sur troi experiences de réorganization du travail, in «Sociologie du travail», n. 1, gennaio-marzo 1976, pp. 74 ss. Dal canto suo F. Butera, Lavoro umano e prodotto tecnico, Torino, Einaudi, 1979, p. 31, fa molto giustamente osservare che l’accorpamento di frantumi restringe «l’ambito dell’innovazione ad una ricomposizione di un lavoro che in realtà è diviso assai prima che divenga mansione».
[117] Garavini, Ascesa e crisi del riformismo in fabbrica, cit., p. 24.
[118] G. Bonazzi, In una fabbrica di motori, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 130.
[119] Ibidem, p. 165. Cfr. anche C. Durand, Le travail enchainé, Paris, Éditions du Seuil, 1978, che si colloca su questa stessa linea interpretativa della «supplenza» operaia.
[120] D. Linhart, Quelques reflexions à propos du refus au travail, in «Sociologie du travail», n. 1, gennaio-marzo 1978, p. 319.
[121] Butera, La divisione del lavoro in fabbrica, cit., pp. 214-15. Quest’analisi viene ora portata avanti sulla via di una definizione del lavoro sociale e delle sue implicazioni (funzionamento e struttura), in Lavoro umano e prodotto tecnico, cit., p. 278 segg.
[122] Butera, La divisione, cit., p. 201.
[123] Linhart, op. cit.: tutte le citazioni dalle pp. 318-9.
[124] Bonazzi, ult. op. cit., p. 165.
[125] G. Sorel, Lo sciopero generale e la violenza, Biblioteca del «Divenire sociale», Roma, Tip. Industria e lavoro, 1906, pp. 126 e 122. Non da meno erano le convinzioni di A. Bebel, La donna e il socialismo, Milano, Max Kantorowicz ed., 1892, p. 341: «Aumenterà grandemente la produttività del lavoro rendendosi possibile con ciò la soddisfazione dei più nobili bisogni».