Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c3
Mi rendo perfettamente conto che
questo è il postulato incrollabile di qualsivoglia disegno di superamento del
capitalismo. È ritenuto l’esito più scontato. E fra i tanti, lo ha forse detto meglio G.
Sorel, quando con piena convinzione ha parlato di «officina liberamente e
prodigiosamente perfezionata», e del «produttore libero d’una officina di alta
produzione»
[125]
. Questa convinzione presenta un’intima inerenza con l’assiomatica struttura
del pensiero socialista, nel senso che ribalta pari pari la realtà capitalistica. È una
convinzione che sta peraltro nel sottofondo di correnti e di aspirazioni molteplici, a
tal punto che non riceve quasi enunciazione esplicita, né d’altra parte viene mai messa
in discussione. È tuttora un faro che orienta i critici seri dell’organizzazione
(capitalistica) del lavoro, sia pure come termine ad
quem.
¶{p. 132}
Senza quella guida, taluno si sentirebbe impedito
nella critica: chissà perché. Come se la certezza e la fede nell’alternativa dessero più
forza alla denuncia e a chi la fa. Come se il fatto che non si vede ancora un
’alternativa vera, bastasse per contro a rendere accettabile il lavoro industriale così
com’è.
Ma si preferisce credere allo stellone che ci è
stato tramandato dall’idea del Socialismo, quella cioè che si contrappone al capitalismo
inteso come «oscuro sentimento negativo»
[126]
. Il lavoro libero deve essere più produttivo: quasi che
il nobilissimo scopo di farlo libero andasse corroborato comunque da un incentivo
economico. (Tra l’altro, non si coglie neppure il ricorso parodistico: questa fu
esattamente la bandiera del capitale nel passaggio al lavoro salariato).
Il lavoro libero deve di
sicuro essere più produttivo. E tuttavia noi non abbiamo a tutt’oggi un
soldo di prova. Abbiamo solamente una diffusa e sdegnosa riluttanza a considerare i
fatti in contrario, e il nostro rammarico per il sacrilegio che commettiamo nel dirlo.
Ciò nondimeno, perfino di fronte alle esperienze già fatte ed ai sistemi di autogestione
in atto, c’è chi replica sicuro che l’autogestione vera, quella sì
[127]
. E si continua imperterriti — soprattutto in Francia — a scambiare
l’autodecisione operativa con la libertà nel lavoro, la padronanza del mestiere con la
coscienza del produttore, il possesso di una qualificazione con l’affrancamento dalla
subordinazione. A confondere la professionalità con l’autonomia, la soddisfazione col
rendimento e la libertà con la produttività, sempre tralasciando la circostanza che se
l’artigiano si sentiva autonomo, se era produttore — contento o no che fosse — era
perché produceva un bene di cui era padrone e che poi vendeva
[128]
.
Il lavoro libero deve per
forza essere più produttivo. Del resto, non si dà forse per scontato che
sia anche più creativo? Verifiche, nessuna. Che cosa sia concretamente il lavoro libero
o liberato, al di là della semplice socializzazione dei mezzi di produzione
[129]
(e tanto meno del banchetto di collanine, questo sì «dal
produttore al consumatore»). Che cosa si debba oggi
¶{p. 133} intendere per lavoro produttivo, come ci si è già chiesti nel
capitolo precedente. E poi, se il lavoro liberò possa essere davvero più produttivo; e
in quale senso? E se lo debba proprio essere per forza, per sfida, per destino; oppure
se non lo sia semplicemente nei nostri più fervidi auspici, dappoiché si passa — come
propone Naville — de l’aliénation à la juissance
[130]
. O se, putacaso, attributi quali libero e
produttivo non presentino effettivamente taluni margini di
inconciliabilità, anche qualora si affondi lo sguardo oltre il lavoro
salariato.
«La soluzione ideale — diceva Simone Weil oltre
quaranta anni fa, dopo la sua sofferta esperienza operaia — sarebbe un’organizzazione
del lavoro tale che ogni sera uscissero dalle fabbriche il maggior numero possibile di
prodotti ben fatti e di lavoratori felici»
[131]
. Parlava di razionalizzazione del lavoro. Ma chi ha soltanto visto o
interiorizzato o sognato il modello di un lavoro
faber, idealizzandolo nel mestiere
artigiano, non mostra questa saggezza problematica; adesso che il «fatelo da soli» è
diventato la falsa coscienza della manualità perduta, si presenta con la stessa,
indelebile sicurezza profetica.
A parte la beata e perniciosa illusione di
risolvere i dilemmi congiungendone i termini (dialettizzare è
comunque più comodo che scegliere, e soprattutto è maestoso); ed a parte l’agonismo ad
un tempo presuntuoso e subalterno rispetto alla ratio e alla misura
capitalistica — a parte cioè quella pavidità culturale sostenuta da boria ideologica che
nuoce a certa intellighentia di sinistra — nella convinzione che il
lavoro libero sia più produttivo non c’è nemmeno quel processo che nelle pagine del
Capitale attraversava l’industria e la società conducendo al
passaggio metaforico ma credibile dalla «necessità» alla «libertà», anche e
principalmente per il lavoro. No. C’è invece l’ostinato attaccamento a un modello di
professionalità ed a idoli di lavoro libero-produttivo che connotano l’epoca
pre-industriale; che si crede possano scansare il destino capitalistico; che dovrebbero
mantenersi inalterati dentro agli sconvolgimenti da esso provocati; e che vengono
ineffabilmente riproposti come prototipi per l’indomani
[132]
. Davvero «sa¶{p. 134}rebbe necessario liberare le scienze
sociali del lavoro dai modelli presi a prestito dal secolo scorso»
[133]
.
Small sarà senz’altro
beautiful. Ma la dedizione gratificante del mestiere artigiano,
come può conquistare giovani il cui scopo di fare e di essere sussiste e vive oggi
dentro un’organizzazione sociale, sia essa di grande città o di piccolo gruppo,
eminentemente collettiva? Tutti vogliono saper fare, e poter migliorare, e non essere
automi. Ma presentare questa aspirazione normalissima come un bisogno di autonomia
professionale — si parli del più sofisticato operatore o del riparatore ancora familiare
[134]
— non è meno sbagliato che presentare come un bisogno intrinseco il rapporto
dell’uomo col lavoro.
Concludendo. Una professionalità come libertà
creativa e come autoasserzione individuale, all’odierno stadio di socializzazione del
lavoro, è tanto poco incipiente quanto un mondo dove l’integrazione venga via via
rientrando; o dove l’automobile sia costruita senza coercizione entro fabbriche dal
volto umano. La crisi del taylorismo e del fordismo, non soltanto non è ancora così
generale, ma non è «di per sé la crisi di un sistema socio-economico»
[135]
. Quindi non basta dare potere magico alla lotta per cambiare
l’organizzazione del lavoro, non basta un nuovo modo di fare l’automobile, per cambiare
lavoro e sistema. Finché si produrranno automobili, le uniche fabbriche festose saranno
quelle dove nei reparti vengono diffuse musichette gaie o dove vengono affisse foto di
eroi del lavoro. In assenza di ciò, rimarranno piacevoli solo le pause. Bisogna avere il
coraggio politico e la serietà scientifica di saperlo. La più grave disonestà, quella
verso se stessi, sarebbe non dirsi che qui c’è un aut-aut,
sottaciuto ma più dilaniarne di quello fra motorizzazione di massa ed aria pulita. (Qui,
perfino le opposte rappresentazioni apologetica e etica, la «civiltà dell’auto» e la
«degradazione del lavoro», offrirebbero scenari fra loro così ben bilanciati da
consentire alfine una risposta netta, senza il solito compromesso logico, il solito
pateracchio dialettico, tra termini antitetici…).¶{p. 135}
Non si tratta di consolare l’uomo della catena di
montaggio col fatto che il modello T ha messo tutti su quattro
ruote, anche lui; o tanto meno di ricattarlo dicendogli che se non ci sta si torna alla
carrozza, e chissà per quanti. Si tratta di dirsi e di dirgli tutta la verità; di voler
rompere fino in fondo col presente, e a maggior ragione con il passato, senza presentare
come una prospettiva di lotta credibile, un futuro di auto che consumano poco e non
inquinano più, costruite mediante un’organizzazione del lavoro che lascia posto alla
libertà e alla creatività, ad opera di quella nuova classe di operatori-super in cui ha
trovato risarcimento il depauperato operaio-massa e si è reincarnato l’operoso ceto di
artigiani del quale erano eredi gli operaj di mestiere con baffoni
e gilé, cari alla nostra infanzia politica. Senza presentare cioè, come se fosse un
esaltante progetto alternativo, un disegno conciliante e velleitario — da conseguirsi
beninteso con una equilibrata concatenazione di conquiste sindacali e di avanzate
elettorali — fatto di radicalismo pudico e di utopia cretina. Andare oltre il
taylor-fordismo è altra cosa, e dirompente, questa. E temo non lo si possa affrontare
scommettendo sulla professionalità o considerando un baratro, invece che un trampolino,
il lavoro e la forza lavoro dell’epoca dell’operaio-massa.
«Il lavoro come creazione, in cui l’uomo diventa
uno con la natura nell’atto della creazione»
[136]
, è una splendida immagine, ma giustappunto descrive una realtà trasfigurata
o una professione privilegiata. Proprio E. Fromm ha però osservato che «nel processo
lavorativo, e cioè modellando e cambiando la natura che lo circonda, l’uomo modella e
cambia se stesso»
[137]
. Qualcosa di simile, con l’industrializzazione, è avvenuto della classe
operaia, dal proletariato in formazione studiato da Thompson, Kuczynski, Hobsbawm, o da
Merli
[138]
, all’operaio contemporaneo descritto da Walker e Guest, Goldthorpe, Zweig, o
da Alquati
[139]
. Non sarà stata una mutazione antropologica ma certo è stato un bel
cambiamento, dentro il capitalismo. Da qui, può pensare di tornare indietro solamente
chi è persuaso che questo ¶{p. 136} itinerario sia quello di un lavoro
che via via si è andato e si va degradando in fatto di professionalità autonoma, e
quindi di libertà e creatività. Chiunque altro è in grado di
capire che dopo il lavoro salariato, lavorare sarà sì diverso da com’era sotto il
capitalismo, ma sarà diversissimo da com’era prima del capitalismo stesso.
Note
[125] G. Sorel, Lo sciopero generale e la violenza, Biblioteca del «Divenire sociale», Roma, Tip. Industria e lavoro, 1906, pp. 126 e 122. Non da meno erano le convinzioni di A. Bebel, La donna e il socialismo, Milano, Max Kantorowicz ed., 1892, p. 341: «Aumenterà grandemente la produttività del lavoro rendendosi possibile con ciò la soddisfazione dei più nobili bisogni».
[126] Pietranera, op. cit., p. 36.
[127] Un velo pietoso bisognerebbe qui stendere su come la bella e sfortunata lotta operaia alla Lip, che nel 1973 ha polarizzato l’attenzione dei lavoratori, sia potuta diventare arena di facilonerie politiche attirando a Besançon, città natale di Fourier e di Proudhon, nugoli di loro seguaci, a comprare orologi per solidarietà e a salutare l’aurora di «una esperienza originale di socialismo nella libertà», come l’hanno definita È. Marie e C. Piaget, La lezione della Lip, Roma, Coines, 1974, p. 102. Osserva saggiamente B. Manghi: «Di fronte all’autogestione non si deve insistere troppo nel saggiarne la bellezza, il realismo, l’originalità. Molto è già stato detto. [...] È l’esperimento sociale il solo livello che dà la parola alla gente», intervento nel dibattito «Autogestione: un cantiere aperto», su «Mondoperaio» (n. 5, maggio 1979), dove si segnalano le cose dette da G. Amato e G. Giugni, n. 2, febbraio e n. 6, giugno.
[128] Rolle, op. cit., p. 235. Precisa De Man: «Il rappresentante tipico di questo modo di produzione, quello che Ruskin aveva in mente, è l’artigiano che lavora direttamente per il consumatore», op. cit., p. 315.
[129] Vedi una completa ed aggiornata raccolta di luoghi comuni proudhoniani sul tema, in A. Detraz, F. Krumnow, É. Maire, Sindacato e autogestione. Le tesi della CFDT, Milano, Jaca Book, 1974. Sulla liberazione del lavoro nelle società socialiste non c’è altro che l’approccio futuribile e tecnocratico di R. Richta, La via cecoslovacca, Milano, F. Angeli, 1968, pp. 40 ss. (e così pure Rivoluzione scientifica e socialismo, Roma, Editori Riuniti, 1969), giustamente criticato da G. P. Cella, Divisione del lavoro e iniziativa operaia, cit., pp. 38-40, e quello passatista e bebeliano di R. Bahro, Per un comunismo democratico, Milano, Sugarco, 1978, alle pp. 305-7.
[130] È il titolo originale del volume di P. Naville, Dall’alienazione al godimento, sottotitolo: Genesi della sociologia del lavoro in Marx ed Engels, Milano, Jaca Book, 1975.
[131] Weil, op. cit., p. 231.
[132] Si avesse almeno il coraggio eversivo di scrivere che «il rifiuto del lavoro è la scoperta della possibilità della costruzione di una società in cui la libera collettività operaia saprà produrre quanto serve alla vita, quanto serve a soddisfare i bisogni fondamentali fuori dalle regole assurde della produttività»: Cominciamo a dire Lenin, «Potere operaio», n. 3, 2-9 ottobre 1969. Invece no. Si continua stancamente a decantare la metamorfosi del lavoro, la cui trasformazione «vuol dire puntare alla prima realizzazione delle risorse intellettuali e fisiche dell’uomo, alla sua piena espressione; marciare in direzione del superamento della separazione tra il lavoro e la vita, tra l’operaio e il cittadino, tra la scuola e la fabbrica, tra la fabbrica e la società, tra il tempo di lavoro e il tempo libero, tra la città e la campagna»: E. Bosio, C. Mezzanzanica, F. Petenzi, Due tendenze sull’orario, e sul lavoro, in «Il Manifesto», 29 settembre 1978.
[133] J. Dumazedier, Lavoro e tempo libero, in Trattato di sociologia del lavoro, Comunità, Milano, 1963, vol. II, p. 538.
[134] Mallet, La nuova classe operaia, cit., p. 134: «Operatore o riparatore, l’operaio è padrone (sic) del suo lavoro. Assicura in qualche modo una “funzione” nel cui quadro è l’unico giudice»,
[135] Butera, La divisione del lavoro in fabbrica, cit., p. 79.
[136] E. Fromm, Fuga della libertà, Milano, Comunità, 19724, p. 224.
[137] E. Fromm, Psicanalisi della società contemporanea, Milano, Comunità, 197812, p. 175.
[138] E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Milano, Il Saggiatore, 2 voli., 1969; J. Kuczynski, Nascita della classe operaia, Milano, Il Saggiatore, 1967; E. J. Hobsbawm, Studi di storia del movimento operaio, cit.; S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale, cit.
[139] C. R. Walker, R. H. Guest, L’operaio alla catena di montaggio, cit.; J. H. Goldthorpe, D. Lockwood, F. Bechofer, J. Platt, Classe operaia e società opulenta, cit.; F. Zweig, L’operaio nella società del benessere, cit.; R. Alquati, Sulla Fiat e altri scritti, cit.