Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c3
Fra coloro i quali sentono il degradarsi del lavoro come un processo fatale, connaturato al modo di produzione capitalistico, maggiormente travagliata e contraddittoria è dunque la posizione di chi vuole ciononostante contrastarlo e combatterlo. Ecco perché la lotta sindacale diretta al cambiamento dell’organizzazio
{p. 117}ne del lavoro può essere presentata a volte come risolutiva. Chi si attende invece che ne consegua una capacità di deflagrazione tale da spaccare il meccanismo dello sfruttamento, accetta con incurante lucidità quel corso obbligato. E quindi, nelle lotte che aggrediscono e sconvolgono l’organizzazione del lavoro non intravede il nuovo modo di produrre bensì la fine del lavoro salariato.
In sostanza, per le componenti non riformiste del movimento operaio, la professionalità è sempre nel mirino del capitale. Chi la ritiene per esso un pericolo, chi la ritiene un ostacolo per la classe: il quadro non cambia. Le élites professionali che lo sviluppo delle forze produttive crea attraverso la tecnica e la scienza, dentro il capitalismo, sono per gli uni porzioni di forza lavoro che sfuggono al destino dei più ma che possono indicare una via di fuoriuscita, e per gli altri aristocrazie facilmente integrabili, fra le quali si possono tutt’al più piazzare degli infiltrati.
Che nel grosso dei lavoratori il lavoro moderno di serie lasci anche qualcosa di positivo, questo si riconosce mal volentieri e generalmente in ritardo. Lo si è visto in Italia nel 1968-69. Solamente con qualche sforzo, seppur gradevole, ci si era abituati, dopo la riscossa del 1961-62, all’idea che fosse intervenuta una modificazione nello stereotipo operaio degli anni ’50 [79]
: eppure il nuovo lavoratore che si era affacciato, oltre che lottare, continuava a difendere il ruolo della qualificazione dalla job evaluation ed a rivendicare una carriera attraverso i passaggi di categoria [80]
; nelle stesse comunità soggette a razionalizzazione o ad industrializzazione, l’operaio nuovo non era abissalmente lontano da quello già conosciuto [81]
.
Tuttavia, durante il «biennio rosso» il tenace benché lontano ricordo degli anni ’50, tutto sommato così duri per la classe operaia italiana, faceva ancora arricciare il naso di fronte a forme di lotta rumorose e plebee quali quelle degli unskilled poco sindacalizzati che innovavano quelle, già scanzonate, inaugurate nel 1961 dai fischietti degli elettromeccanici. E con gli anni ’70 si trattava di {p. 118}assuefarsi ormai a un modello di lavoratore massificato il quale si stava facendo portatore degli aumenti uguali per tutti e dell’inquadramento unico [82]
. Ed ora siamo già di nuovo in vista di mutamenti nel cuore centrale della classe operaia (ed impiegatizia), che tolgono illusioni sulla perduranza dei modelli tradizionali di professionalità come rapporto col lavoro; mutamenti non compensati da quanto avviene nella «fabbrica diffusa» dell’area periferica, e che destano imbarazzo [83]
. Si affaccia stavolta un lavoratore figlio ormai della città, e giovane della fabbrica. Sindacalizzato, lotta bene ma partecipa poco; acculturato, prende la qualifica come un’etichetta e l’azienda come un passaggio. Vive questo lavoro e quella mansione come un ruolo transitorio senza «sentimento esistenziale dell’unità proletaria» [84]
, e senza neppure avere le disperate aspettative di mobilità sociale dei genitori. Forse è già l’operaio dei lavori. Ma per il movimento operaio, anche questa volta sembra che s’avanzi uno strano soldato. Perché?
a) Il primo e principale motivo mi sembra questo. Dietro il succedersi dei profili operai che di volta in volta si presentano come soggetti o protagonisti dell’azione di classe, vi è una complessa evoluzione sociologica, che sindacati e partiti dei lavoratori continuano a basare tuttavia sulle tipologie professionali prevalenti. Questo criterio, che pure introduce la nozione di un avvicendamento delle fasi professionali dentro veri e propri cicli della composizione di classe, circoscrive processi e problemi entro una dimensione tecnologica, li rinchiude in un ambito produttivo. E su questo solito terreno dell’«economo-centrismo» [85]
si trovano a contraddirsi la previsione empirica che per il grosso dei lavoratori, sotto il capitalismo, lo svolgimento professionale descriva la parabola obbligata della «degradazione»; e la persuasione razionale di uno sviluppo delle forze produttive che, seppure ostacolato dai rapporti di produzione, richieda alfine un innalzamento della qualità del lavoro. Questa doppia e separata ineluttabilità, tecnica e politica, risulta frenante e spesso paralizza: nel senso che alimenta magari l’agitazione ma non stimola {p. 119}le aperture. Le fasi A, B e C dell’evoluzione professionale secondo Touraine — nonostante le cautele e le avvertenze con cui ne parlava [86]
— hanno danneggiato più che aiutare avendo imbrigliato la realtà in uno schema sincronico, che incoraggia quella disposizione al fatalismo/fideismo, compagna fedele di ogni primazia accordata alle forze produttive [87]
. Ora, trattandosi di interpretare una evoluzione di classe, non solo la logica politica suggerisce di respingere l’assioma dell’avversario, secondo il quale la tecnologia è appunto una variabile indipendente, ma la stessa esperienza storica indica che fra le interpretazioni dei nuovi soggetti «vanno scartate tutte quelle che implicano come fattore esplicativo lo sviluppo tecnologico inteso unilinearmente» [88]
.
b) Il secondo motivo è questo. Come s’è già detto, l’organizzazione dei lavoratori ritiene che la professionalità sia sempre nel mirino dell’iniziativa capitalistica, anche se difficilmente sosterrebbe che il lavoro dei propri rappresentanti è sempre meno qualificato. Quindi, se è di classe, se fa il proprio mestiere, un’organizzazione dei lavoratori si trova perennemente in bilico fra un processo di degradazione tendenziale e un modello di professionalità consolidato. Ne viene che essa è molto pronta ed appassionata nel difendere soggetti noti, specie se messi in pericolo da innovazioni che attentano alla loro qualificazione. Questa sacrosanta difesa di posti e di figure pare anzi farsi intransigente ed accanita, proprio in quanto cerca di preservare un bagaglio di professionalità ancor prima di una composizione di classe o di un livello d’occupazione.
c) Anche il terzo motivo è da capire. Quando l’innovazione, meccanizzando, riorganizzando o ristrutturando il lavoro, manda in obsolescenza tecnologica certe mansioni e certi profili — che perciò stesso appaiono più ricchi di contenuti professionali — è sempre un colpo. È un colpo perché nella concezione del movimento operaio è presupposta una profonda inerenza fra il livello della qualificazione tecnica e il grado di maturità politica dei lavoratori [89]
, come può dimostrare il loro {p. 120}duplice lealismo, produttivo ed organizzativo [90]
. (L’unica vistosa eccezione furono i wobblies, finiti davvero tragicamente sotto il tallone di ferro). E quand’è così, quando non si tratta di gruppi «corporativi» ma di avanguardie riconosciute, l’organizzazione ha un motivo in più per resistere al cambiamento di una identità che la riguarda così da vicino. Ma questo è un fenomeno già piuttosto noto, almeno per quanto riguarda il sindacato.
d) Il quarto motivo desta sempre in me qualche stupore. Protesa com’è nel difendere mestieri attaccati, mansioni declinanti [91]
, l’organizzazione dei lavoratori a volte non si accorge neppure che vari elementi di novità vengono addirittura dalla propria azione sul prezzo e sull’uso della forza lavoro. Ogni volta ci si meraviglia per il fatto che la risposta imprenditoriale tenda a ripristinare un preesistente equilibrio o potere, in genere elevando il mix tecnologico-organizzativo, e determinando con ciò alterazioni in quel che Jánossy chiama «la natura e la ripartizione delle attività concrete» [92]
, cioè la struttura professionale. Ignorare che questi cambiamenti nell’organizzazione del lavoro vengono a prodursi «nel corso di un processo conflittuale che si svolge attraverso una catena di azioni, reazioni e retroazioni» [93]
, significa aspettarsi che l’avversario combatta con un braccio solo, oppure dubitare che la propria azione non conti: cose tipiche del fatalismo che abbiamo definito inerziale. (Chi ne ha invece una visione gravitazionale è portato ad ammirare il ben congegnato disegno del capitale essendo convinto che, distruggendo professionalità, si creino affossatori. Altri invece, per fideismo ma con analoga estimazione, giudicano ormai affermato il produttore-Universal — mirabilie della fase C: tecnologie di processo, controllo numerico, automazione dell’informatica — né operaio né impiegato bensì operatore che «si ritiene possessore delle sue conoscenze, dei suoi metodi, del suo lavoro»; in lui, costoro vedono «apparire una realtà sostanziale del lavoro» [94]
).
e) Il quinto ed ultimo motivo riguarda la maniera con la quale l’organizzazione guarda a come sul lavoro {p. 121}si formano figure e strati nuovi, che poi potranno affermarsi come soggetti collettivi. È comprensibile che questa evoluzione venga generalmente captata quando già i nuovi protagonisti si sono fatti notare — col rumore o col silenzio — benché un ritardo sistematico e una mancanza d’anticipo non possano venire spiegati con la fedeltà dell’organizzazione alla sua propria composizione sociale. Ma è assai meno comprensibile che la novità sia inizialmente sentita come estranea, a volte malfida, e in genere poco promettente, se chi sopraggiunge sono soggetti dequalificati come operai comuni o impiegati-massa. (Le eccezioni non sono numerose: solo una gratitudine classista per l’insperato aiuto può far apprezzare chi piomba sulla scena d’improvviso, com’è capitato in Italia con le nuove avanguardie del 1962 e del 1968. In altri paesi l’accoglienza è stata addirittura negativa). Soltanto all’apparire di nuove élites professionali, soprattutto se operaie, l’atteggiamento si fa aperto; ma non sempre queste cercano un rapporto con l’organizzazione o esprimono un’identità collettiva. L’apparire invece di protagonisti sprofessionalizzati, per quanto ciò venga a inscriversi nella fin troppo scontata prospettiva del lavoro che si degrada, alla Braverman, è percepito dall’organizzazione dei lavoratori come una menomazione dolorosa, che si manifesta con uno sconcerto e una renitenza mescolati a volte col paternalismo. Questo atteggiamento è riconducibile secondo me al fatto che da un calo di professionalità ci si aspetta intrinsecamente un calo di fedeltà e un indebolimento della militanza, cioè una caduta di immedesimazione tra base e vertice.
In definitiva si torna sempre a quella preferenza socio-politica per il mestiere e per la professionalità, spiegabile con la centralità elettiva che il movimento operaio attribuisce al lavoratore manuale più qualificato, quale soggetto dell’emancipazione proletaria intesa in senso culturale non meno che politico. Ciò viene a datare storicamente il modello di leadership operaia ancor più di quanto lo connoti culturalmente; e a rendere comprensibile l’impaccio nell’accettare una centralità
{p. 122}imposta che spiazza quel modello alterandone sostanzialmente il profilo.
Note
[79] Vedine un esauriente campionario nelle autobiografie raccolte negli anni ’50 da E. Vallini, Operai del Nord, Bari, Laterza, 1957.
[80] Cfr. S. Chiamparino, Le ristrutturazioni industriali, in «Annali» Feltrinelli, a. XVI, 1974-75, pp. 469 ss.
[81] Si vedano il noto studio di A. Pizzorno su Rescaldina, Comunità e razionalizzazione, Torino, Einaudi, 1960, e quello meno noto di F. Leonardi su Priolo, Operai nuovi, Milano, Feltrinelli, 1964.
[82] Cfr. L’operaio massa nello sviluppo capitalistico, «Classe», cit. L’evolversi delle figure è riscontrabile nelle autobiografie raccolte negli anni ’70 da P. Crespi, Esperienze operaie, Milano, Jaca Book, 1974.
[83] Vorrei citare in proposito il paginone curato da R. Armeni per il «Manifesto» del 22 giugno 1979, intitolato fra l’altro: Un animale nuovo è arrivato in Fiat, il giovane operaio, e le interviste della redazione torinese di «Ombre rosse», Giovani operai a Torino, un’intera leva di lavoratori sotto accusa, «Il Manifesto», 21 ottobre. Quale siderale distanza vi appare rispetto a modelli consolidati come quello dei giovani operai parigini anni ’50: N. De Maupeou-Abboud, Les blousons bleus, Paris, A. Colin, 1968.
[84] E. Hobsbawm, Il movimento operaio nei grandi processi di trasformazione, in «Rinascita», n. 11, 16 marzo 1979.
[85] Secondo l’azzeccata definizione di A. Casiccia, Sulla cultura operaia e l’identità di classe, in «La Critica sociologica», n. 39-40, autunno 1976-inverno 1976-77, p. 262.
[86] Cfr. le due paginette di sintesi nelle Conclusioni, L’evoluzione del lavoro operaio, cit., pp. 268-9.
[87] Un esempio qualsiasi. Il travaglio autocritico subentrato nel PCI dopo la dura sconfitta elettorale del 3 giugno 1979 non ha impedito a L. Berlinguer di scrivere sulla prima pagina de «L’Unità»: «Quando dico nuovo tipo di lavoro, penso allo sviluppo delle forze produttive e quindi a forme di lavoro che esaltino la professionalità ed eliminino abbruttimento e sfruttamento» (Tra partecipazione e governo, 23 giugno); o, ad A. Minucci, di riproporre «con urgenza» nella stessa sede «la lotta per controllare e trasformare l’organizzazione del lavoro, in funzione di una nuova razionalità produttiva che si saldi a una crescente liberazione e creatività dei produttori» (3 novembre 1979).
[88] A. Pizzorno, Le due logiche dell’azione di classe, in Lotte operaie e sindacato: il ciclo 1968-1972 in Italia, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 11.
[89] «Determinismo della qualifica», lo ha chiamato V. Foa polemizzando contro la variante che lo estremizza, in Il caso Karl-Heinz Roth, cit., p. 47
[90] Rinvierei per questi aspetti al capitolo sul «produttivismo» del saggio Per una nuova fase di studi sul movimento sindacale, in «Annali» Feltrinelli, cit., pp. 53-78.
[91] Linotipisti, bigliettai, carpentieri: è un martirologio. Ogni volta pare sempre che vinca il Káapitale, e il lavoro si declassi. Cfr. un recente studio di S. Brusco e M. Alessandro, Struttura produttiva e organizzazione del lavoro nel settore edilizio, in «Politica ed economia», n. 3, maggio-giugno 1979, in particolare il paragrafo sull’operaio di mestiere aggredito, pp. 97-9.
[92] Jánossy, op. cit., pp. 250 e 259-62.
[93] S. Del Lungo, Esperienze in alcune aziende metalmeccaniche a partecipazione statale, in Nuove vie dell’organizzazione del lavoro, Milano, Isedi, 1976, p. 257
[94] Rolle, op. cit., le due frasi rispettivamente alle pp. 81 e 56. La polemica è esplicita con Gorz, ma può essere estesa a molti apologeti di sinistra.