Note
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I lavori parlamentari sono raccolti nel vol.: Parità uomo-donna. Legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, a cura di G. C. Perone, Roma, 1978. Si veda ivi, pp. 143 seg., l’intervento alla camera di Tina Anselmi: l’allora ministro del lavoro riassume l’iter parlamentare della legge, ringraziando le varie forze politiche della collaborazione, la quale ha consentito una notevole accelerazione dei tempi (poco più di cinque mesi per portare in aula il provvedimento).
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Cfr. La legge di parità: bilancio del primo anno, editoriale de «I diritti dei lavoratori», 1979, n. 29.
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Del tutto convinto della bontà della legge n. 903 in ogni sua parte, mi è parso solo G. Simoneschi, La donna e il lavoro: dalla tutela alla parità,in Parità tra uomini e donne in materia di lavoro: analisi e attuazione della legge, Convengo di studio promosso dall’assessorato ai problemi femminili, Bologna, Documenti del comune, 1978, n. 8, pp. 30 seg. Molto più cauto il giudizio di L. Ventura, La legge sulla parità fra uomo e donna nel rapporto di lavoro, in R. De Luca Tamajo e L. Ventura (a cura di), Il diritto del lavoro nell’emergenza, Napoli, 1979, pp. 257 seg. Per un riepilogo delle opinioni espresse dai giuristi subito dopo l’entrata in vigore della legge, v. A. d’Harmant François, Alcuni commenti sulla legge perla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, in «Lavoro e previdenza oggi», 1978, pp. 663 seg.
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Che nei fatti la legge n. 903/1977 abbia funzionato poco, lo constata M. Lorini, Legge di parità e iniziativa sindacale, in Aa. Vv., Organizzazione del lavoro e professionalità femminile, Roma, 1979, pp. 47 seg.
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Pret. Latina, 6 aprile 1978, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1978, p. 788; Pret. Teramo, 24 febbraio 1978, ivi, p. 791, con nota contraria di A. Norscia. Di un altro provvedimento del pretore di Milano dà notizia «l’Unità», 12.6.1979.
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M. Carpani, nel Locatelli: consentire una deroga senza cedere a un ricatto, in «Rassegna sindacale», 21 giugno 1979, p. 14.
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Questa osservazione è frutto della riflessione su di una esperienza personale. I primi paragrafi di questo capitolo rielaborano la relazione da me svolta, tra la generale disapprovazione, al convegno di studi «Parità tra uomini e donne in materia di lavoro: analisi e attuazione della legge», promosso dall’assessorato ai problemi femminili del comune di Bologna, 5-6 maggio 1978. A disapprovare la mia relazione sono state soprattutto le commentatrici di parte sindacale, che, convinte della necessità di intervenire sulla legge solo in modo «unitario» e «costruttivo», hanno ritenuto di dover censurare ogni critica alle scelte operate dai partiti, specie della sinistra, in parlamento. Il mio lavoro è stato giudicato «distruttivo», il mio contributo all’analisi della legge è sembrato opinione da «tecnico», degna, al massimo, di essere censurata. Purtroppo i curatori della pubblicazione degli atti hanno ritenuto opportuno eliminare ogni traccia dei miei interventi, cosa francamente stupefacente per un «convegno di studi». Credo lo chiamino centralismo democratico.
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È generale opinione che l’art. 1 della legge n. 903 (fatta eccezione per il IV comma) si applichi anche agli uomini: così T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903. Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., sub art. 1, pp. 786 seg.; L. Ventura, La legge sulla parità, cit., p. 279. L’applicabilità dell’art. 1 anche ai lavoratori è stata ribadita dalla circolare ministeriale n. 92/78 del 29 dicembre 1978, in «Rivista giuridica del lavoro», 1978, I, pp. 933 seg.
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Secondo R. Bortone, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 7 p. 811, i diritti che l’art. 6 riconosce alla madre adottiva o affidataria dovrebbero essere estesi anche al padre adottivo o affidatario, per rispettare la parità di trattamento. Questa interpretazione estensiva, che mi pare ragionevole sia alla luce dell’intento del legislatore, sia perché non vi è argomento logico o testuale sufficiente ad escluderla, apre però nuove questioni in ordine alla estensione al padre dell’art. 3, II comma (in riferimento all’art. 4, lett. c, L. n. 1204/1971), e dell’art. 8. Per estendere l’art. 8, occorre però avere prima risolto in senso positivo il problema della estensione in via analogica alla madre adottiva dell’art. 10 L. n. 1204/1971 (i c.d. riposi per allattamento). Favorevole all’estensione ancora Bortone, op cit., sub art. 6, p. 809.
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Cfr. l’esauriente commento di G. Cian, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 14; e ivi anche un breve riepilogo della discussione aperta intorno alla equiparazione del lavoro della donna nella famiglia (lavoro domestico) al lavoro nell’impresa familiare. Sul punto, e per un più ampio commento all’art. 230 bis c.c., si può fare rinvio a G. Ghezzi, Ordinamento della famiglia, impresa familiare e prestazione di lavoro, cit., pp. 1374 seg.
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V. in tal senso le dichiarazioni della sen. G. Lucchi, riportate in Parità uomo-donna, cit., p. 209. È necessario sottolineare che, malgrado quanto disposto dall’art. 230 bis c.c. circa il lavoro domestico della donna, il lavoro della convivente more uxorio si continua a presumere gratuito: v. le giuste critiche all’opinione dominante (ribadita anche dalla Cass., 27 marzo 1977, n. 1161, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, II, p. 1052) di B. Paleologo, Gratuità o onerosità del lavoro della convivente more uxorio?, ivi, pp. 1058 seg.
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Secondo G. Cian, op. cit., p. 828, Kart. 14 L. n. 903 non è un sufficiente supporto alla tesi (minoritaria) dell’impresa familiare come impresa collettiva; tesi smentita dall’art. 230 bis c.c. Sulla distinzione tra imprenditore e familiari partecipi dell’impresa familiare, v. ancora Ghezzi, op. cit., pp. 1381 seg., di cui condivido l’opinione che l’art. 230 bis c.c. regoli i rapporti interni tra i familiari che collaborano all’impresa familiare.
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Osservazioni critiche sono state formulate nella relazione Collegamenti con la legislazione di previdenza sociale e gli enti mutualistici, in Parità tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., pp. 55 seg.
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Le circolari dell’I.N.P.S. per l’applicazione degli artt. 9 e 11 L. n. 903, la circolare dell’I.N.A.M. per l’applicazione dell’art. 8, e la circolare dell’I.N.A.I.L. per l’applicazione dell’art. 10 sono pubblicate in appendice a C. Filadoro (a cura di), Parità di trattamento fra uomini e donne, cit., pp. 92 seg. I giudizi su queste norme sono in genere positivi; ma v. l’intervento fortemente critico di L. Grassi, in Parità di lavoro tra uomini e donne, cit., pp. 66 seg. L’interventrice spiegava in quel «convegno di studi» la posizione del P.R.I., unico partito astenutosi nella votazione della legge. L’idea di parità (come rinuncia ad ogni tutela), che emerge dall’intervento, le preoccupazioni economiche per la riversibilità della pensione al vedovo, il giudizio molto negativo sull’art. 4 L. n. 903 (una delle norme a mio avviso più sinceramente «paritarie» della legge), bene esprimono il punto di vista dei conservatori sulla legge.
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V. le osservazioni di S. Rodotà, Parità, lavoro, e famiglia, in Parità tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., p. 29; v. anche F. Carinci, Relazione al seminario di studio organizzato dal P.S.I. sul tema «Legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro», ivi, p. 115.
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Sull’incongruità del riferimento agli statuti professionali, v. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 19, p. 848.
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Cfr. le analisi contenute in Frey, Livraghi, Olivares, Nuovi sviluppi delle ricerche sul lavoro femminile, cit.
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Cfr. gli atti raccolti nel voi. già cit. Parità uomo-donna. Legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. La consultazione del vol. risulta utile a chi sia curioso di seguire l’iter parlamentare della legge; tuttavia l’assenza di resoconti sommari dei lavori delle commissioni lascia insoddisfatta la curiosità circa l’introduzione di importanti modifiche al testo, avvenuta appunto in commissione.
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Per il periodo antecedente l’approvazione della legge, v. la relazione di C. Assanti e gli interventi di vari autorevoli giuristi in La disciplina giuridica del lavoro femminile, cit.; v. anche R. Paolini, Una legge per la parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro: rilievi critici, in «Nuova D W F», 1977, luglio-settembre, n. 4, pp. 46 seg.
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V. infatti la cit. circolare ministeriale 92/78 del 29 dicembre 1978.
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V. nel voi. Parità uomo-donna, cit., pp. 26 seg., le proposte di legge presentate dai partiti e il disegno di legge governativo, poi unificati nel testo approvato in prima lettura dal senato.
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V. Ad es. i rilievi critici di F. Albisinni, Verso una legge italiana per l’effettiva eguaglianza fra i sessi, cit., pp. 143 seg.; e T. Treu, Intervento, in La disciplina giuridica del lavoro femminile, cit., pp. 104 seg.; ma v. anche le osservazioni argute e non troppo serie di G. Pera, Intervento, ivi, pp. 94 seg.
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Il giudizio, che condivido, è di R. Paolini, op. cit. A conferma della avvenuta ricomposizione degli iniziali dissensi, e per comprendere quali siano le origini dell’atteggiamento di indifferenziato consenso che si è creato intorno alla legge, possono leggersi gli interventi di Tina Anselmi e di Giglia Tedesco in senato (in Parità uomo-donna, cit., pp. 239 seg., 252 seg.).
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Benché da parte comunista si fosse molto e giustamente insistito sulla necessità di passaggi graduali verso la piena parità, questa sensibilità alle esigenze di «protezione» del lavoro femminile è andata perduta nei commenti alla legge n. 903. V. per tutti A. Seroni, La legge nell’attuale situazione economica e sociale, in Parità tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., pp. 9 seg. Da parte sindacale è, ovviamente, enfatizzato il passaggio alla gestione esclusivamente contrattuale delle c.d. deroghe alla parità: v. M. Lorini, Legge di parità e iniziativa sindacale, cit.
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Così ancora Seroni, loc. ult. cit. Avverte Lorini, op. cit., p. 50, che la legge di parità non può realizzarsi sul terreno della suddivisione fra uomini e donne delle scarse possibilità di lavoro, ma deve invece realizzarsi sul terreno della generale battaglia per la trasformazione dell’apparato produttivo e della società. Non si può non condividere questa affermazione; tuttavia, per ora, il bilancio dei magri risultati dell’applicazione della legge mostra che è avvenuta proprio la deprecata suddivisione: e le donne hanno conquistato il diritto di svolgere, al posto degli uomini, lavori pesanti e lavoro notturno.
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F. Carinci, Relazione al seminario di studio promosso dal P.S.I., cit., p. 110.
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Pier un raffronto tra l’art. 1 L. n. 903 e la direttiva 9 febbraio 1977 della C.E.E. (riportata in appendice a «Rivista giuridica del lavoro», Quaderno n. 1, Questione femminile e legislazione sociale, luglio 1977, p. 153), v. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 1, pp. 793 seg.; l’a. giustamente segnala che il passaggio, «dalla mera garanzia della parità di trattamento formale a un intervento diretto a eliminare le radici storiche della discriminazione e a promuovere l’eguaglianza delle opportunità», si intravede appena nelle disposizioni di legge cit. nel testo (L. n. 675/1977 e n. 285/1977), e negli accordi collettivi aziendali che garantiscono la piena reintegrazione del turn-over femminile, e comunque il mantenimento della proporzione fra occupazione maschile e femminile. Si tratta tuttavia di disposizioni difficili da coordinare colle norme che regolano la richiesta numerica nel collocamento, anche perché il principio della richiesta numerica è omogeneo a quello della parità (come divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro) contenuto nella legge n. 903.
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Infra, par. 6.
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Su cui v. fin da ora C. Rapisarda, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903,cit., sub art. 15, pp. 828 seg.; qualche osservazione infra, par. 9.
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Il modello cui si è ispirato il legislatore italiano è quello svedese, su cui v. le osservazioni di Folke Schmidt, in B. Aaron, X. Blanc-Jouvain, G. Giugni, F. Schmidt, K. W. Wedderburn, Discrimination in Employment,Stockholm, 1978.
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Analoghe le osservazioni di Carinci, op. cit., p. 115.
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È generale il consenso sulla opportunità (o necessità) di procedere ad una completa fiscalizzazione degli oneri sociali derivanti dalla legge di tutela delle lavoratrici madri. Colla fiscalizzazione si realizzerebbe infatti una diminuzione del costo del lavoro femminile, che agevolerebbe l’espansione dell’occupazione manifesta o esplicita delle donne. Così, per tutti, F. Padoa Schioppa, La forza lavoro femminile, cit., p. 115. Che la protezione delle lavoratrici rappresenti un ostacolo serio all’occupazione delle donne specie nella fascia d’età dai 25 ai 35 anni, non è dubbio; tuttavia i «costi» della protezione non sono riducibili tutti ad oneri sociali, e quelli non riducibili non sono eliminabili senza peggiorare le condizioni di vita, già difficili, delle lavoratrici madri.
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Divieto di discriminazione e nullità degli atti discriminatori sono stati studiati in riferimento all’art. 15 st. lav.: v. T. Treu, Condotta antisindacale e atti discriminatori, Milano, 1974, spec. pp. 34 seg.; con specifico riferimento al profilo sanzionatorio, v. E. Ghera, Le sanzioni civili nella tutela del lavoro subordinato, in Le sanzioni nella tutela del lavoro subordinato,Atti del VI congresso nazionale di diritto del lavoro, Alba, 1-3 giugno 1978, Milano, 1979, pp. 38 seg.
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Su questi temi, v. il contributo di Rapisarda, loc. ult. cit.
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Per la mancanza di una casistica giurisprudenziale di un qualche rilievo, come già segnalato.
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Questo tipo di discriminazione è ancora largamente praticato dalle pubbliche amministrazioni, che, per stupidità burocratica, ritengo, stentano ad adeguare i bandi di concorso alle disposizioni della legge n. 903. V. in proposito i casi narrati ne «I diritti dei lavoratori», 1979, n. 29, pp. 21 seg. Peraltro, tali comportamenti della p.a. erano illegittimi già ai sensi della legge 9 febbraio 1963, n. 66, che abrogando finalmente l’art. 7 L. n. 1176/1919 e le leggi fasciste, aveva affermato il diritto delle donne ad accedere a tutte le professioni, cariche, impieghi pubblici, compresa la magistratura, nei vari ruoli, carriere, categorie, senza limitazioni di mansioni e di svolgimento di carriera.
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Cfr. gli esempi riportati da S. Sciarra, Intervento, in La disciplina giuridica del lavoro femminile, pp. 99 seg.
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Per qualche osservazione in questo senso, v. Ghera, op. cit., pp. 43- 44.
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Radicali e M.L.D. avevano assunto la posizione più rigida sull’argomento. V., però, l’intervento di Adele Faccio, riportato in Parità uomo-donna, cit., pp. 117 seg.
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L’abbassamento a 16 anni del limite di età per l’adibizione ai lavori previsti dalla legge n. 977/1967 (artt. 5 e 14) sulla tutela del lavoro dei fanciulli è il risultato (discutibile) della interpretazione «eguagliante» data a quella legge dal ministero del lavoro nella circolare 92/78, cit.
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Oggetto di molte critiche è l’ormai abrogata tabella, approvata con R.D. 7 agosto 1936, n. 1720, che elenca settanta lavori faticosi, pericolosi, e insalubri, vietati alle donne minori di 21 anni. Benché l’evoluzione della tecnologia abbia rese obsolete alcune delle lavorazioni menzionate, e benché molti lavori faticosi o nocivi non siano inseriti tra quelli vietati, una buona quantità dei lavori elencati conserva caratteri di effettiva pesantezza e pericolosità. Ciò premesso, sembra un po’ ottimistica, di questi tempi, la tesi circolante in ambienti sindacali, per cui l’attribuzione alle lavoratrici delle mansioni pesanti e/o pericolose aprirebbe contraddizioni, e servirebbe dunque ad accelerare il processo di eliminazione di quelle mansioni che non dovrebbero essere ammesse per nessuno. Mi pare di questa opinione Lorini, op. cit., pp. 54 seg. Più prudente l’apprezzamento di E. Masucci, Intervento. in Parità tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., p. 84.
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Emerge però dai resoconti di parte sindacale sulla attuazione della legge n. 903 (v. ad es. «I diritti dei lavoratori», 1979, n. 29, pp. 6 seg.) che esistono anche tra le lavoratrici resistenze «dure a morire»; il segno più evidente di ciò è costituito dall’incertezza e dai dissensi sulla questione del lavoro notturno.
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Anche F. Padoa Schioppa, La forza lavoro femminile, cit., nell’individuare gli elementi che rendono più alto il costo del lavoro femminile rispetto a quello maschile, sottolinea le cause strutturali e culturali di debolezza del lavoro femminile, piuttosto che la rigidità (e la c.d. iper-protezione) introdotta dalle leggi di tutela. Ciò nondimeno, l’a. esprime il dubbio, senza poi approfondire l’argomento, che le leggi di tutela abbiano avuto effetti emarginanti. Il dubbio non risulta suffragato dall’analisi. Tra gli elementi che innalzano il costo del lavoro femminile (pure in presenza di una disparità salariale a svantaggio delle donne), Padoa Schioppa giustamente pone: a) l’indisponibilità delle donne agli straordinari; b) l’assenteismo elevato, molto al di sopra della utilizzazione della legge n. 1204/1971; c) l’alta probabilità di abbandono del lavoro col matrimonio o colla maternità. Tutti questi elementi non dipendono da un «naturale» minore rendimento delle donne, né dalle leggi di tutela (delle quali, se mai, è chiamata in causa solo quella sulle lavoratrici madri), ma dalle condizioni sociali che fanno della donna una lavoratrice più debole.
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Cfr. Frey, Il lavoro femminile verso gli anni ’80, in Frey, Livraghi, Olivares, Nuovi sviluppi delle ricerche sull’occupazione femminile, cit., pp. 9 seg.
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Cfr. Flessibilità del lavoro e «part-time», appendice II, op. ult. cit.,p. 49.
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Mi pare condivida questa giudizio, nella sostanza, anche Ventura, La legge sulla parità, cit., pp. 257-258.
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Così Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903. cit., sub art. 19 p. 848.
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Infra, par. 8.
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Per analoghe osservazioni sul punto, v. Carinci, op. cit., p. 114. Sul funzionamento dello statuto dei lavoratori nei primi tre anni della sua applicazione, v. i due voll. della ricerca curata da T. Treu, L’uso politico dello statuto dei lavoratori, Bologna, 1975; Lo statuto dei lavoratori: prassi sindacali e motivazioni dei giudici, Bologna, 1976. Per qualche osservazione critica sul metodo e gli esiti della ricerca v. le mie note in «Sociologia del diritto», 1976, pp. 171 seg.; 1977, pp. 152 seg.
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Lo statuto dei lavoratori è stato in questi ultimi anni oggetto di critiche e attacchi da parte del padronato industriale. Si è distinta in questa campagna anti-statuto la Federmeccanica, per bocca (e penna) di Felice Mortillaro.
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Sul problema, v. da ultimo M. D’Amato, Il lavoro della donna: movimento sindacale e partecipazione femminile, in «Sociologia del lavoro», 1978, n. 3, pp. 153 seg.
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Lamenta soprattutto che non si sia riservata la legittimazione al sindacato G. Giugni, in «La stampa», 22 luglio 1977, preoccupato che la legittimazione individuale provochi un contenzioso futile, alimentato da piccole emulazioni. A quasi due anni dall’entrata in vigore della legge si può constatare che le preoccupazioni di Giugni erano ingiustificate (nessun contenzioso, invece che un contenzioso futile); non è ancora possibile invece formulare un giudizio sulla bontà della scelta di escludere il sindacato dai legittimati al ricorso.
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Rinvio ancora al corsivo di M. Carpani, op. cit., e alla distinzione fra «consenso teorico» sulla legge e pratico dissenso sulle cose da fare.
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L. Ventura, op. cit., p. 267, afferma che l’attuale abolizione delle tutele specifiche del lavoro femminile prelude alla introduzione di norme generali di tutela del lavoro maschile e femminile insieme.
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Le direttive C.E.E. 10 febbraio 1975 e 9 febbraio 1976 sono riportate in appendice a «Rivista giuridica del lavoro», Quaderno n. 1, Questione femminile e legislazione sociale, 1° luglio 1977, pp. 151 seg. Un ampio panorama della legislazione di altri paesi in «Bullettin of Comparative Labour Relations», n. 9/1978, stampato a Deventer, Olanda; ivi dettagliate informazioni sulla condizione delle lavoratrici e sulla disciplina giuridica del lavoro femminile in: Belgio, Canada, Francia, D.D.R., Ungheria, Nord-Irlanda, India, Giappone, Olanda,
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La legge ripete la locuzione contenuta nell’art. 3 della direttiva C.E.E. 9 febbraio 1976. Nella sua formulazione, l’art. 1 L. n. 903 (divieto di discriminazioni nell’accesso al lavoro) riprende le indicazioni contenute nella cit. direttiva C.E.E.
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In tal senso v. le osservazioni critiche di T. Treu, La donna che lavora e l’ordinamento giuridico, in «Inchiesta», n. 25, gennaio-febbraio 1977, p. 52. a proposito del progetto di legge governativo. Le modificazioni e le aggiunte apportate in parlamento non hanno eliminato le gravi deficienze del provvedimento, quanto a garanzie delle pari opportunità di lavoro per le donne.
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A. Buffardi, Formazione e professionalità femminile, in Aa. Vv., Organizzazione del lavoro e professionalità femminile, cit., pp. 21 seg.
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L’insufficienza dell’art. 7 è rilevata da R. Paolini, Una legge sulla parità di trattamento, cit., p. 66.
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Il riferimento alla definitiva assunzione vuole ricomprendere nell’accesso al lavoro anche il periodo di prova: cfr. L. Ventura, La legge sulla parità, cit., pp. 280 seg.
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L’osservazione è di L. Ventura, op. cit., pp. 269 seg.
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I commentatori della legge n. 903 sono concordi nel ritenere che le liste di collocamento debbano essere unificate. Così v., per i giuristi, T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit. sub art. 1, p. 788. Per i sindacalisti, v. Aa. Vv., La parità. Commento alla legge, a cura degli uffici legislativi e legali della C.G.I.L., C.I.S.L., U.I.L., Roma, 1978, sub art. 1. A quanto riferiscono fonti di parte sindacale, si registrano notevoli ritardi degli uffici nell’adempimento all’obbligo di unificare le liste: cfr. «I diritti dei lavoratori», n. 29, 1979.
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Il ministero del lavoro, nella cit. circolare n. 92/78 del 29 dicembre 1978, ha precisato che il I comma dell’art. 1 impone il «superamento di ogni discriminazione, basata sul presupposto di fatto relativo alla esistenza di mansioni cosiddette maschili e femminili».
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Ritiene invece necessario delimitare al massimo l’area delle discriminazioni indirette G. Simoneschi, La donna e il lavoro: dalla tutela alla parità, cit., pp. 34-35; l’a. pensa che per questa via si ottenga sì una riduzione dell’area dei comportamenti discriminatori vietati, largamente compensata, però, dal fatto che «una volta provata la relazionabilità ‒ in un rapporto di causa ad effetto ‒ degli atti del datore di lavoro a condizioni e caratteristiche proprie di un sesso o ad esso riferite da norme o non di meno dalla comune opinione, verrà tolta al datore di lavoro ogni facoltà di recupero» (ovvero gli verrà negata la possibilità di provare che il requisito, tipico di un sesso, o presunto tale, richiesto a fini di assunzione, era essenziale per lo svolgimento della prestazione lavorativa). La tesi di Simoneschi mi pare poco convincente: il risultato di privare il datore di lavoro della prova liberatoria (dubbio, ove manchi un espresso regime di presunzioni assolute) non compensa il sacrificio della interpretazione restrittiva dell’art. 1, proprio nell’area più significativa delle discriminazioni.
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La definizione formulata nel testo ricalca, con qualche semplificazione, quella di recente riproposta da E. Ghera, Le sanzioni civili nella tutela del lavoro subordinato, cit., p. 38, e già contenuta nel suo Atti e trattamenti economici collettivi discriminatori, in Commentario dello statuto dei lavoratori, diretto da U. Prosperetti, I, Milano, 1976, pp. 430 seg. Ma v., già prima, l’ampia nozione di discriminazione elaborata da T. Treu, Condotta antisindacale e atti discriminatori, cit., pp. 34 seg.
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Giustamente osserva T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 13, pp. 822, che quella degli «atti omissivi» è una categoria di dubbia consistenza; è invece certo che la discriminazione può essere attuata con, o consistere di, un’omissione.
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V. il Titolo VII del Civil Rights act del 1964 (USA); secondo E. Silverstein, The Status of Women Workers in the United States, in «Bullettin of Comparative Labour Relations», n. 9/1978, pp. 347 seg., «the courts have defined sex discrimination as any practice, including a facially neutral criterion, which has a disproportionate impact on women’s employment opportunities and is not justified by business necessity». L’a. aggiunge che «an intent to discriminate need not be proven, since Congress directed the thurst of the act to the consequences of employment practice, not simply the motivation».
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Cfr. C. Assanti, La disciplina del lavoro femminile, cit., p. 29.
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Si può fare rinvio a S. Sciarra, Il divieto di indagini sulle opinioni, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1977, pp. 1062 seg. (qui p. 1073). V. anche Pret. Milano, 10 dicembre 1974, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, II, p. 236.
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Di diverso avviso ‒ mi pare ‒ G. Simoneschi, loc. ult. cit.
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Così T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 1, pp. 789 seg. Si può riprendere l’esemplificazione ancora da E. Silverstein, loc. ult. cit.: «facially neutral criteria which tend to riserve jobs for men include height, weight, and lifting requirements, experience and education prerequisites, union referral system (most skilled crafts unions have few women members), supervisors evaluations for promotion, no transfer rules in plants where jobs had initially been classified by sex, veteran’s preference policies, and word-of-mouth recruiting by male employes».
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S. Sciarra, Intervento, in La disciplina giuridica del lavoro femminile, cit., p. 101.
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Sono di quest’opinione C. Rapisarda, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 15, p. 836 e T. Treu, ivi, sub art. 1, pp. 794 seg.
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È il caso delle Sorelle Bandiera, in «L’altra domenica», a cura di R. Arbore, 1978/1979.
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I sindacalisti mostrano di aver apprezzato senza riserve la scelta del legislatore di far gravare sui sindacati le decisioni più difficili e imbarazzanti, e di non aver alcuna avversione verso quella sorta di sistema neo-corporativo che la legge n. 903 mette in funzione. Cfr. M. Lorini, Legge di parità e iniziativa sindacale, cit.; E. Masucci, Intervento, in Parità tra uomini e donne, cit., pp. 81 seg. Che la contrattazione collettiva sia il luogo idoneo per la definizione delle mansioni è ovvio; non è invece ovvio che ai sindacati si possano attribuire ‒ nel nostro ordinamento ‒ poteri di intervento tali da travolgere diritti individuali garantiti da norme imperative della legge.
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È generale l’opinione che la legge n. 903 abbia abrogato l’art. 10 della legge n. 653/1934 e la tabella del 1936. Sottolinea l’opportunità di procedere cautamente nell’interpretazione abrogante F. Carinci, Relazione, cit., pp. 112-113.
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Così L. Ventura, La legge sulla parità, cit., pp. 267-268.
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Ancora L. Ventura, loc. ult. cit.
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Come dimostra l’esperienza già maturata sul lavoro notturno: v. L. Morozzo, Tra legge e realtà l’iniziativa sindacale, in «Rassegna sindacale», 21 giugno 1979, pp. 13 seg.
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Rileva l’insufficienza, per qualità e intensità, dell’intervento sindacale sull’organizzazione del lavoro F. Vigevani, Organizzazione del lavoro e professionalità femminile, cit., p. 13.
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La disciplina preesistente (da ultimo il D.M. 5 luglio 1973) prevedeva che il ministro o l’ispettorato del lavoro, su motivata richiesta delle aziende, potessero modificare l’orario del lavoro notturno precluso alle donne. L’art. 12 L. n. 653/1934 conosceva inoltre numerosissime eccezioni, ora eliminate dalla generale prescrizione dell’art. 5, I comma, L. n. 903.
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V. la cit. circolare n. 92/78 del 29 dicembre 1978.
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R. Bortone, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 5, p. 806.
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Ancora R. Bortone, op. cit., p. 807, che riferisce un noto e consolidato orientamento giurisprudenziale; poiché nella specie si tratta tuttavia di fare eccezione ad un divieto, la cui sanzione è ancora utile a salvaguardare le condizioni di vita e di salute delle donne, mi pare opportuno che la qualità direttiva delle funzioni sia caso per caso prudentemente valutata, per circoscrivere l’eccezione al divieto alle sole ipotesi nelle quali il limite di orario costituisca un effettivo pregiudizio allo svolgimento delle funzioni in condizioni di pari dignità professionale con gli uomini.
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R. Bortone, loc. ult. cit.
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L. Ventura, La legge sulla parità, cit., p. 302.
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Cfr. L. Morozzo, Tra legge e realtà l’iniziativa sindacale, cit.
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Retro, II, par. 2, nota 55.
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A me pare che i problemi sollevati dagli artt. 4 e 6 dello statuto dei lavoratori siano in buona misura diversi, benché anche queste due norme pongano questioni di non irrilevante portata in ordine all’efficacia dell’accordo stipulato dalle r.s.a., di necessità generale (ma non secondo U. Romagnoli, in G. Ghezzi, F. Mancini, L. Montuschi, U. Romagnoli, Statuto dei lavoratori, supplemento del Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna - Roma, 1972, sub art. 4, p. 19). Partendo dal presupposto dell’efficacia generale, G. Pera, in C. Assanti e G. Pera, Commento allo statuto dei lavoratori, Padova, 1972, sub art. 4, pp. 32 seg., ritiene dubbia la costituzionalità degli artt. 4 e 6 st. lav. Per un riepilogo del dibattito intorno a questi temi v. P. Ichino, Funzione ed efficacia del contratto collettivo di diritto comune nell’attuale sistema delle relazioni sindacali e nell’ordinamento statale, in «Rivista giuridica del lavoro», 1975, I, pp. 485 seg. A differenza degli artt. 1, IV comma e 5, II comma, L. n. 903, gli artt. 4 e 6 st. lav. attribuiscono alle r.s.a. un potere di negoziare entro un ambito circoscritto e controllabile, vale a dire l’obbiettiva giustificazione della installazione degli impianti di controllo a distanza e delle visite personali di controllo; il limite del potere negoziale è lo stesso limite dell’esercizio legittimo, da parte dell’imprenditore, dei suoi poteri organizzativo e di controllo. Rileva le differenze T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 1, pp. 792 seg., nell’ambito di un discorso molto problematico e denso di interrogativi, ma privo di risposte.
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Così T.Treu, loc. ult. cit.; L. Ventura, op. cit., p. 304.
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T. Treu, loc. ult. cit.
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È sufficiente rinviare alle schematiche osservazioni di G. Giugni, Diritto sindacale, Bari, 1979, pp. 153 seg., e alla analisi della copiosissima giurisprudenza curata da M. L. De Cristofaro, La giusta retribuzione, Bologna, 1971, pp. 25 seg.
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Fa eccezione G. Simoneschi, La donna e il lavoro: dalla tutela alla parità, cit., p. 37, secondo cui «il ruolo della contrattazione collettiva non è quello di una norma di deroga con efficacia erga omnes [...] quanto quello di esprimere il criterio secondo il quale stabilire se ricorrano o no le condizioni previste dalla norma primaria». Ma non risulta chiaro dove Simoneschi riesca a vedere le «condizioni» previste nella norma primaria, stante la formulazione generica degli artt. 1, IV comma e 5, II comma.
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La mancata indicazione degli agenti contrattuali (i sindacati maggiormente rappresentativi di un qualche livello) distacca questa legge dalla tradizione legislativa di questo decennio: lo rileva T. Treu, loc. ult. cit.
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Sui rapporti tra contratti collettivi stipulati a diversi livelli, v. le osservazioni di P. Tosi e S. Mazzamuto, Il costo del lavoro tra legge e contratto,in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, I, pp. 235 seg. valide anche nel caso che ci interessa. Sulla questione dell’eventuale obbligo del datore di lavoro a trattare con le (sole) r.s.a. cfr. i giusti rilievi critici di T. Treu, loc. ult. cit.
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Sulle discriminazioni linguistiche, presenti anche in Italia, v. L. Ventura, op. cit., p. 289.
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Per l’applicazione dell’art. 15 st. lav. al pubblico impiego v. E. Ghera, Atti e trattamenti economici collettivi discriminatori, cit., p. 427.
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C. Smuraglia, Le sanzioni penali nella tutela del lavoro subordinato,in Le sanzioni a tutela del lavoro subordinato, cit., pp. 59 seg. e specialmente pp. 64-67.
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Di diverso avviso ‒ mi è parso ‒ T.Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 13, p. 823.
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Retro, IV, parr. 1, 2. Sulla nuova formulazione della parità salariale, ispirata alla direttiva C.E.E. 10 febbraio 1975, v. L. Ventura, op. cit., pp. 292 seg.
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M. Lorini, Valutazione del lavoro e ruolo della donna oggi in Italia,in «Quaderni di rassegna sindacale», n. 54/55,1975, Donna, società, sindacato, p. 86.
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Legge di parità e iniziativa sindacale, cit., p. 49.
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Gli esempi più significativi vengono dal settore tessile, su cui v., da ultima, D. Giudici (a cura di), Tessili, in Aa. Vv., Organizzazione del lavoro e professionalità femminile, cit., pp. 83 seg.
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A risultati analoghi, ma per una diversa strada era pervenuto G. Cottrau, La tutela della donna lavoratrice, cit., pp. 58 seg., commentando l’art. 37 cost. Secondo l’a., solo il carattere immediatamente precettivo dell’art. 37 giustifica il diritto soggettivo delle lavoratrici alla parità di trattamento (salvo che ragioni di ordine fisiologico non legittimino la disparità di trattamento in senso sfavorevole); il principio della parità non potrebbe farsi discendere, invece, dall’art. 3, I comma, cost., il quale sancisce l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma non incide sull’autonomia negoziale.
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V. l’ampia rassegna giurisprudenziale contenuta nel voi. di G. Mazzoni, I rapporti collettivi di lavoro, 3a. ed., Milano, 1967, pp. 280 seg., alla cui redazione ho collaborato.
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V., per tutti, C. Rapisarda, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 15, p. 834. L’applicabilità dell’art. 28 alle discriminazioni per sesso era già stata sostenuta, prima dell’entrata in vigore della legge n. 903, da C. Assanti, La disciplina del lavoro femminile, cit., p. 35.
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Cosí T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 3, I comma, p. 798.
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S. Sciarra, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 3, II comma, pp. 800 seg.
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Da ultimo E. Ghera, Le sanzioni civili nella tutela del lavoro subordinato, cit., pp. 39 seg.
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V. le contrastanti soluzioni proposte da T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 13, pp. 823 seg., e da G. Simoneschi, La donna e il lavoro: dalla tutela alla parità, cit., p. 42.
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Mi riferisco ai tanti irrisolti problemi dell’esecuzione forzata dell’obbligo di reintegrare il lavoratore ingiustamente licenziato (art. 18 st. lav.).
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L’uso che faccio del termine «motivo» è improprio; lo utilizzo tuttavia per significare che la volontà di differenziare il trattamento in ragione del sesso deve essere presente nel soggetto agente; non deve essere invece egualmente presente l’intenzione (o la consapevolezza) di arrecare un pregiudizio al soggetto svantaggiato dall’atto discriminatorio. Questa definizione del motivo introduce nella più vasta tematica degli atti di esercizio di un potere discrezionale del datore di lavoro e della loro sindacabilità sotto il profilo della discriminazione, su cui v. l’ampia trattazione di T. Treu, Condotta antisindacale e atti discriminatori, cit., pp. 41 seg. Resta da precisare che il divieto di discriminare in ragione del sesso ha eliminato ogni discrezionalità del datore di lavoro, privandolo del potere di compiere scelte fondate sul sesso del prestatore.
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Contra: G. Simoneschi, loc. ult. cit.
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Il procedimento sommario a tutela della parità della lavoratrice, I, Introduzione, in «Foro italiano», 1977, V, c. 326.
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È utile raffrontare il testo predisposto dal comitato ristretto della commissione lavoro e il testo approvato in aula alla camera, poi modificato in senato. Vedili in Parità uomo-donna, cit., pp. 69 seg.
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Insiste, a ragione, nel differenziare le responsabilità politiche della mutilazione dell’art. 15 L. Ventura, La legge sulla parità, cit., pp. 272 seg. La precedente formulazione dell’art. 15, nella parte in cui unificava il procedimento sommario avanti il pretore per i lavoratori privati e per i pubblici dipendenti, era stata criticata da F. Merusi, Il procedimento sommario a tutela della lavoratrice, cit., III, Il procedimento avanti il giudice amministrativo, cc. 335-356, che ne aveva rilevato lacune e incongruità.
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Cfr. D. Borghesi, La nuova legge di coordinamento tra procedimento per la prepressione dell’attività antisindacale e rito del lavoro, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, I, pp. 761 seg.
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Lo pensa L. Ventura, op. cit., p. 287.
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V., per tutti, A. Proto Pisani, Studi di diritto processuale del lavoro,Milano, 1976, pp. 30 seg., e ivi riferimenti bibliografici.
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In proposito v. le osservazioni di C. Rapisarda, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 15, p. 843; l’a. ricorda che la giurisprudenza ammette con riserva il ricorrente al concorso dal quale era stato escluso.
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M. Rubino, Aspetti processuali della legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro privato e di pubblico impiego, in «Il diritto del lavoro», 1978, I, pp. 13 seg., e specialmente pp. 21 seg. L’a. ritiene che sia d’obbligo forzare la lettera della legge per colmare le gravi disparità di trattamento a danno dei pubblici dipendenti. Forzando appunto la lettera dell’art. 15, afferma che anche negli enti pubblici non economici, là dove l’amministrazione non sia tenuta all’emanazione di atti formali, il dipendente leso dal comportamento discriminatorio può chiedere al pretore una tutela sommaria.
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Mi paiono convincenti le argomentazioni addotte in tal senso da L. Ventura, op. cit., pp. 283 seg.; anche in questo caso, tuttavia, una casistica giudiziaria aiuterebbe ad affinare gli argomenti.
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V. Un procedimento sommario contro le discriminazioni, in «I diritti dei lavoratori», n. 12-13, 1977, p. 17.
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Cosí L. Ventura, op. cit., p. 277; v. anche M. Rubino, op. cit., pp. 16 seg.
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Da ultimo, l’argomentata ordinanza del Pret. Rho, 31 maggio 1979 (inedita) che ha dichiarato ammissibile la costituzione di parte civile del M. L. D., riconoscendo l’interesse del movimento ad una puntuale applicazione ed al rispetto della legge n. 903 (e dunque il danno diretto, non patrimoniale, procurato alle donne dalla consumazione del reato).
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V. ancora, per tutti, A. Proto Pisani, op. cit., pp. 56 seg. Sviluppa l’argomento, con riguardo alle questioni che potrebbero insorgere nell’ipotesi della proposizione di un ricorso individuale (ex art. 15 L. n. 903) e di un ricorso sindacale (ex art. 28 st. lav.), C. Rapisarda, op. cit., pp. 823 seg.
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C. Rapisarda, op. cit., p. 831; L. Ventura, op. cit., p. 275.
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V. Pret. Latina, 6 aprile 1978, in «Rivista giuridica del lavoro», 1978, II, p. 603. Il lavoro notturno rivela, anche sotto questo aspetto, la sua centralità: non solo perché le aziende escludono le donne dalle assunzioni, portando a pretesto il divieto di lavoro notturno, ma specialmente perché le assunzioni o il mantenimento in servizio di donne sono spesso condizionati all’avvenuta deroga, in via contrattuale, al divieto. Per qualche ragguaglio v. «I diritti dei lavoratori», n. 29, 1979.
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L. Ventura, op. cit., pp. 280 seg. L’importanza di ricomprendere il periodo di prova nell’accesso al lavoro (a fini di esperibilità del ricorso ex art. 15) è sottolineata anche da T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903,cit., sub art. 1, p. 788, e da F. Carinci, Relazione, cit., pp. 116-117.
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L’ipotesi non è presa in considerazione dalla dottrina. Scrive ad es. G. Fabbrini, Il procedimento sommario a tutela della lavoratrice, cit., II, Il procedimento avanti il pretore, c. 329, che se la donna non è avviata, dovrà avere strumenti di tutela contro l’operato dell’ufficio, ma non potrà addebitare alcun illecito al datore di lavoro. L’osservazione è corretta, ma propone il problema dell’esperibilità del ricorso avanti il pretore (art. 15,1 comma) contro l’ufficio di collocamento, pubblica amministrazione responsabile della discriminazione. Aggiunge poi Fabbrini che se la donna, una volta avviata dall’ufficio di collocamento, non viene assunta dal datore di lavoro dovrà essere tutelata come soggetto avviato e non assunto e non come lavoratrice discriminata nell’accesso al lavoro. Sul che non concordo, per le ragioni esposte nel testo.
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V. le contrastanti decisioni del Trib. Roma, 20 settembre 1976, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, II, p. 118, secondo cui il contratto di lavoro non si perfeziona coll’avviamento, e Pret. Milano, 29 novembre 1976, ivi, p. 151, commentata da D. Luzzatto, Note in tema di contratto di lavoro e collocamento, ivi, pp. 154 seg. Secondo il Pret. Milano il contratto di lavoro si conclude e perfeziona coll’avviamento; il rifiuto di dare inizio alla fase esecutiva configura un’ipotesi di difetto colpevole di collaborazione creditoria. La cit. decisione del Trib. Roma conferma invece un indirizzo giurisprudenziale consolidato: su cui v. F. Tessitore, Sui diritti del lavoratore avviato e non assunto, ivi, 1975, II, pp. 780 seg.
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Le sanzioni civili nella tutela del lavoro subordinato, cit., p. 31.
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C. Rapisarda, op. cit., p. 834.
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A. Proto Pisani, op. cit., p. 44.
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Al di là di qualche eccesso retorico, erano sensate alcune delle critiche mosse alla formulazione dell’art. 15 (nel testo approvato dalla camera, e poi modificato) da G. Fabbrini, op. cit., cc. 328 seg.; alla imprecisione del vecchio testo non ha certo rimediato il nuovo.
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C. Rapisarda, op. cit., p. 837.
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V. ancora, le convincenti argomentazioni di C. Rapisarda, op. cit.,pp. 837 seg.
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I licenziamenti, cit., pp. 144 seg. Da quando ho scritto quelle pagine, impostando i problemi in termini drastici, l’argomento della esecuzione forzata dell’ordine di reintegra è stato molto approfondito in dottrina. Oltre ai recenti contributi di F. Frediani, Note sulla effettività della reintegra nel posto di lavoro, in «Rivista giuridica del lavoro», 1978,1, pp. 73 seg., e di R. Paolini, Riforma dell’ordine di reintegra con sentenza passata in giudicato e restituibilità delle retribuzioni corrisposte in sostituzione dell’adempimento specifico, ivi, II, pp. 299 seg., debbono essere segnalati, almeno, il saggio di L. Lanfranchi, Situazioni giuridiche individuali a rilevanza collettiva ed attuazione della condanna alla reintegrazione del lavoratore, ivi, 1977, I, pp. 343 seg.; il saggio di M. Truffo, Problemi in tema di esecutorietà della condanna alla reintegrazione del lavoratore, in « Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1976, pp. 789 seg., che scompone l’attività richiesta al datore di lavoro per reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato in una serie di sottoprestazioni, parte fungibili, parte infungibili; il saggio di M. D’Antona, La reintegrazione nel posto di lavoro, cit., pp. 184 seg., che distingue due fasi nell’attuazione della condanna alla reintegrazione: la cessazione del comportamento lesivo; la rimozione degli effetti (quest’ultima suscettibile di esecuzione forzata). La mia consueta testardaggine mi impedisce di considerare i tentativi di valorizzare o le forme di coazione indiretta, o le parti eseguibili degli obblighi del datore di lavoro che non ottempera all’ordine di reintegra, un vero progresso; a mio modesto, ma testardo avviso, il progresso si consegue solo affrontando, e non evitando, il nodo degli obblighi di fare e il fondamento della loro incoercibilità.
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Così G. Simoneschi, op. cit., p. 41.
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La soluzione è prospettata con molte (e ragionevoli) incertezze da C. Rapisarda, op. cit., p. 838 seg.
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T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 13, p. 824.