Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c6
Sulle scelte consapevolmente compiute dal
legislatore nel determinare la legittimazione attiva al ricorso ho già
espres
¶{p. 273}so la mia opinione (retro. par. 5).
Posso ora aggiungere che tali scelte non meritano il giudizio positivo, che ne hanno
dato i sindacati
[123]
I fatti stanno dimostrando che la legittimazione rigorosamente individuale
incide negativamente sulla pratica utilizzazione della legge; a causa, credo, della
inconsapevolezza dei propri diritti e della storica diffidenza verso la giustizia,
comuni a buona parte delle destinatarie (e dei destinatari) della legge n.
903.
La legittimazione individuale al
ricorso ex art. 15 non esclude che gli interessi protetti dagli artt. I e 5 della legge
n. 903 possano avere, e spesso sicuramente abbiano, dimensione e rilevanza collettive.
La formulazione dell’art. 15 I comma lascia però irrisolti i problemi di tutela
giurisdizionale degli interessi «diffusi» di natura sociale e politica, di cui si fanno
portatori i c.d. enti esponenziali (ad esempio, le organizzazioni femminili e
femministe). Si tratta, in ipotesi, di interessi lesi dal «plurioffensivo» comportamento
discriminatorio. Dalla lettura del I comma dell’art. 15 non può trarsi altro risultato,
che non sia l’esclusione, dal novero dei legittimati ad agire, dei sindacati e di ogni
altro ente o associazione: per i quali restano tuttavia disponibili gli strumenti
processuali ordinari, compresa la procedura d’urgenza ex art. 700 c.p.c.
[124]
. Le esperienze che si vanno facendo nei processi penali, dove non senza
contrasti, si è ritenuta ammissibile la costituzione di parte civile di organizzazioni
come il M.L.D.
[125]
, possono agevolare il riconoscimento dell’interesse ad agire (ex art. 100
c.p.c.) di gruppi rappresentativi, portatori di interessi collettivi e
diffusi.
Per ciò che concerne specificamente il
sindacato, resta utilizzabile il ricorso ex art. 28 st. lav., quando nella
discriminazione a carico di uno o più soggetti sia ravvisabile una lesione
dell’interesse «sindacale», nel senso ampio e «bipolare» (cioè individuale e collettivo
insieme) che la locuzione ha assunto presso i più accreditati interpreti dell’art. 28.
La netta ripartizione di competenze fra sindacato e lavoratore discriminato ripropone le
questioni del coordinamento fra ricorso individuale (ex art. 15 L. n. 903) e ricorso del
sindacato (ex art. 28 st. lav.); questioni, già affrontate negli studi che i
processualisti hanno dedicato in questi anni all’art. 28 dello¶{p. 274}
statuto, ed ai quali può farsi rinvio
[126]
.
Diversamente dal ricorso regolato dall’art. 28
st. lav., dove legittimato passivo è (solo) il datore di lavoro, il legittimato passivo
del ricorso ex art. 15 L. n. 903 è genericamente individuato nell’«autore del
comportamento denunciato». La genericità della previsione è giustificata dalla
circostanza che autori delle discriminazioni di cui all’art. 1 (accesso al lavoro)
possono essere soggetti diversi dal datore di lavoro.
Come ho accennato all’inizio, il campo di
applicazione dell’art. 15 è limitato alle violazioni degli artt. 1 e 5 della legge n.
903. Si è detto che il richiamo all’art. 5 (divieto di lavoro notturno) è inutile,
perché la lavoratrice, che ‒ in costanza del divieto ‒ venga adibita a lavoro notturno,
può legittimamente rifiutarsi di svolgerlo
[127]
. A mio avviso, però, l’osservazione coglie solo parzialmente nel segno. È
infatti indiscutibile che, ove il datore di lavoro violi il divieto, la lavoratrice può
astenersi dal prestare la propria opera oltre i limiti di orario fissati dall’art. 5. È
anche vero, però, che la questione del lavoro notturno può assumere rilievo sotto altri,
meno elementari, profili, e può richiedere l’intervento urgente del pretore. C’è da
notare, in primo luogo, che l’argomento dell’organizzazione del lavoro con turni a ciclo
continuo viene addotto dai datori di lavoro per giustificare il rifiuto di assumere
personale femminile. L’argomento è evidentemente insufficiente
[128]
. Ma ciò non toglie che l’esperibilità del procedimento urgente, per le
discriminazioni originate dal divieto di lavoro notturno, possa rivelarsi utile a
combattere eccezioni pretestuose alla parità di trattamento delle lavoratrici. Sotto un
secondo e finora inesplorato profilo, l’espressa menzione dei comportamenti diretti a
violare l’art. 5 della legge n. 903 potrebbe rivelarsi utile: penso al controllo
giudiziario delle deroghe contrattuali al divieto di lavoro notturno. Il caso potrebbe
essere quello delle lavoratrici adibite al turno di notte, quando il contratto
collettivo che deroga al divieto non sia applicabile nei loro confronti (per difetto di
iscrizione al sindacato), ed esse non abbiano espresso (neppure con comportamento
concludente) il proprio consenso alla deroga.
Delle possibili violazioni al divieto di
discriminazione¶{p. 275} nell’accesso al lavoro, sancito nell’art. 1, ho
già parlato diffusamente. In questa sede, avendo riguardo all’ambito di operatività
dell’art. 15, vale la pena di precisare che, secondo un orientamento comune agli
interpreti della legge n. 903, il ricorso è esperibile anche nel caso del licenziamento
intimato, per motivi discriminatori, durante o al termine del periodo di prova
[129]
. A favore di questa soluzione, che condivido, milita un argomento di
carattere formale: la parola «accesso» (al lavoro), usata nell’art. 1, ha significato
più ampio della parola «assunzione», e può ricomprendere anche il passaggio obbligato,
costituito dal superamento della prova, che si frappone all’assunzione definitiva. Ma vi
è anche un argomento sostanziale di maggior peso: la libertà di recesso, nel periodo di
prova, non è tanto ampia da sottrarre il licenziamento alla sanzione di nullità, qualora
esso sia determinato dall’illecito motivo della discriminazione sessuale. Poiché il
licenziamento durante il periodo di prova è lo strumento più agevole, di cui il datore
di lavoro disponga per eludere il divieto di discriminazione nonché l’obbligo di
assumere la lavoratrice avviata dall’ufficio di collocamento, è essenziale definire il
periodo di prova come fase dell’accesso al lavoro, soggetta, come tale, al controllo del
pretore adito in via d’urgenza. Si evita così di introdurre nuove smagliature nel
tessuto, già fragile, della legge n. 903.
Violazioni del divieto di
discriminazione nell’accesso al lavoro, da parte del datore, possono verificarsi
nell’ipotesi di avviamento su richiesta numerica
[130]
. Infatti, i casi di rifiuto dell’assunzione sono frequenti, e niente induce
a pensare che il rifiuto non possa essere motivato dal fatto che l’ufficio di
collocamento abbia avviato, ad esempio, una donna, anziché, come si sperava, un uomo.
Ove il rifiuto si configuri come comportamento discriminatorio, il pretore potrà
ordinare al datore di lavoro di assumere la lavoratrice discriminata (o il lavoratore).
Si otterrà allora un risultato reintegratorio, difficilmente conseguibile in altre
ipotesi di rifiuto; infatti la giurisprudenza continua a pensare che l’avviamento al
lavoro su richiesta numerica non concluda ancora il contratto, e che pertanto il
rifiuto, sebbene legittimo, non sia tecnicamente configurabile come un licenziamento
[131]
.¶{p. 276}
D’altra parte, secondo la prevalente opinione,
nel caso di avviamento al lavoro su richiesta numerica, vi è, per il datore di lavoro,
l’obbligo di assumere. Non si ritiene tuttavia applicabile l’art. 2932 c.c., escludendo
così l’attuazione coattiva dell’obbligo a contrarre: a torto, come ha osservato Edoardo
Ghera
[132]
, perché, di fronte all’avviamento al lavoro su richiesta numerica, non può
essere definita infungibile l’attività esigibile dal datore di lavoro, che è obbligato a
contrarre e privo del potere di scegliere il contraente
intuitu personae.
Oltre ai casi del rifiuto di assunzione delle
lavoratrici o dei lavoratori avviati su richiesta numerica, la tutela predisposta
dall’art. 15 della legge n. 903 opera nel campo delle assunzioni su richiesta nominativa
e passaggio diretto, dove le ipotesi di discriminazione sono probabilmente più
frequenti, ma di più difficile individuazione. Occorre infine ricordare che, ai sensi
degli artt. 1 e 15 della legge, la tutela opera anche rispetto alle discriminazioni
attuate nelle fasi che precedono il contatto diretto fra datore di lavoro e lavoratore
(ad esempio, una generica domanda di lavoro, direttamente o indirettamente
discriminatoria, pubblicata sulla stampa). In questi casi sorge però qualche difficoltà
nel definire l’interesse e la legittimazione individuali ad agire
[133]
.
Per concludere, resta qualche osservazione da
fare sulla sanzione restitutoria-inibitoria, che costituisce il contenuto del
provvedimento di condanna emanato dal pretore al termine del procedimento sommario
disciplinato dal I comma dell’art. 15. Il legislatore ha ripetuto la formulazione
dell’art. 28 st. lav.: «il pretore [...] ordina all’autore del comportamento denunziato
[...] la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti». Come
già avveniva nel modello che lo ha ispirato, l’art. 15 prende in considerazione i
«comportamenti» (dunque non solo atti unilaterali e negozi, ma comportamenti materiali
attivi e omissivi). Come nell’art. 28 st., il contenuto del provvedimento di condanna è
tanto genericamente individuato da poter ricomprendere, o sotto il profilo della
cessazione del comportamento, o sotto il profilo della rimozione degli effetti, una
gamma svariatissima di provvedimenti. C’è tuttavia una differenza di fondo: mentre
l’atipicità delle condotte antisindacali richiedeva una¶{p. 277}
previsione elastica circa il contenuto del provvedimento del giudice
[134]
, la stessa elasticità (o genericità) ma si giustifica nell’art. 15, dove le
delimitate fattispecie sostanziali ‒ i comportamenti discriminatori in violazione degli
artt. 1 e 5 ‒ avrebbero dovuto suggerire al legislatore l’opportunità di usare maggior
precisione e qualche specificazione in più
[135]
. Se così il legislatore avesse fatto, avrebbe ottenuto il risultato di non
lasciare agli interpreti, e specialmente ai giudici, tutto l’onere di gestire una
politica del diritto fatta di scelte difficili, e spesso impossibili.
Il problema di individuare quale debba essere il
contenuto del provvedimento di condanna è relativamente semplice in alcune ipotesi.
Dalla ampia formulazione dell’art. 15 può dedursi che la condanna deve restaurare
l’ordine giuridico violato, ripristinando la situazione sostanziale lesa dal
comportamento discriminatorio. Se ad esempio ci si trova di fronte ad una domanda di
lavoro discriminatoria (del tipo: cercasi segretaria), il pretore, adito da un
potenziale candidato all’assunzione, potrà ordinare all’autore della domanda di lavoro
di riformulare in senso egualitario le condizioni di accesso al lavoro
[136]
.
La soluzione del problema è molto più complessa
nei casi in cui la discriminazione si realizzi mediante la mancata assunzione della
lavoratrice o del lavoratore. Occorre, preliminarmente, sciogliere un dubbio: se il
pretore possa, rispettando i limiti che l’art. 15 I comma lo autorizza ad emettere,
ordinare l’assunzione del lavoratore discriminato, ovvero se l’ordine di assumere
rientri nei limiti della rimozione degli effetti del comportamento discriminatorio. La
dottrina ha dato risposte positive, giustamente argomentando che, quando il
comportamento discriminatorio consista in una omissione, gli effetti da rimuovere si
identificano senza residui colla omissione stessa
[137]
. Di conseguenza, se il datore di lavoro ha discriminato non assumendo, la
mancata assunzione è l’effetto da rimuovere, e la rimozione non può realizzarsi che
ordinando al datore di lavoro di tenere quel comportamento attivo (assunzione), che
serve a reintegrare la situazione soggettiva lesa dalla discriminazione.
Fuori dell’ipotesi dell’avviamento su richiesta
numerica,
¶{p. 278}l’ordine di assunzione non garantisce al lavoratore
l’assunzione effettiva. L’ordine del giudice è assistito da una sanzione coattiva
indiretta (art. 650 c.p.), ma si ripropongono per intero i problemi della esecuzione in
forma specifica dell’obbligo di fare. Il tema è oggetto di molte discussioni nella
materia dei licenziamenti; deve ancora essere studiato, invece, per i nuovi casi che si
proporranno nell’applicazione della legge n. 903. Le soluzioni, peraltro, non potranno
essere diverse, e continuerà a prevalere, temo, la tesi dell’incoercibilità (dalla quale
dissento per le ragioni che ho ampiamente spiegato altrove)
[138]
.
Note
[123] V. Un procedimento sommario contro le discriminazioni, in «I diritti dei lavoratori», n. 12-13, 1977, p. 17.
[125] Da ultimo, l’argomentata ordinanza del Pret. Rho, 31 maggio 1979 (inedita) che ha dichiarato ammissibile la costituzione di parte civile del M. L. D., riconoscendo l’interesse del movimento ad una puntuale applicazione ed al rispetto della legge n. 903 (e dunque il danno diretto, non patrimoniale, procurato alle donne dalla consumazione del reato).
[126] V. ancora, per tutti, A. Proto Pisani, op. cit., pp. 56 seg. Sviluppa l’argomento, con riguardo alle questioni che potrebbero insorgere nell’ipotesi della proposizione di un ricorso individuale (ex art. 15 L. n. 903) e di un ricorso sindacale (ex art. 28 st. lav.), C. Rapisarda, op. cit., pp. 823 seg.
[128] V. Pret. Latina, 6 aprile 1978, in «Rivista giuridica del lavoro», 1978, II, p. 603. Il lavoro notturno rivela, anche sotto questo aspetto, la sua centralità: non solo perché le aziende escludono le donne dalle assunzioni, portando a pretesto il divieto di lavoro notturno, ma specialmente perché le assunzioni o il mantenimento in servizio di donne sono spesso condizionati all’avvenuta deroga, in via contrattuale, al divieto. Per qualche ragguaglio v. «I diritti dei lavoratori», n. 29, 1979.
[129] L. Ventura, op. cit., pp. 280 seg. L’importanza di ricomprendere il periodo di prova nell’accesso al lavoro (a fini di esperibilità del ricorso ex art. 15) è sottolineata anche da T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 1, p. 788, e da F. Carinci, Relazione, cit., pp. 116-117.
[130] L’ipotesi non è presa in considerazione dalla dottrina. Scrive ad es. G. Fabbrini, Il procedimento sommario a tutela della lavoratrice, cit., II, Il procedimento avanti il pretore, c. 329, che se la donna non è avviata, dovrà avere strumenti di tutela contro l’operato dell’ufficio, ma non potrà addebitare alcun illecito al datore di lavoro. L’osservazione è corretta, ma propone il problema dell’esperibilità del ricorso avanti il pretore (art. 15,1 comma) contro l’ufficio di collocamento, pubblica amministrazione responsabile della discriminazione. Aggiunge poi Fabbrini che se la donna, una volta avviata dall’ufficio di collocamento, non viene assunta dal datore di lavoro dovrà essere tutelata come soggetto avviato e non assunto e non come lavoratrice discriminata nell’accesso al lavoro. Sul che non concordo, per le ragioni esposte nel testo.
[131] V. le contrastanti decisioni del Trib. Roma, 20 settembre 1976, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, II, p. 118, secondo cui il contratto di lavoro non si perfeziona coll’avviamento, e Pret. Milano, 29 novembre 1976, ivi, p. 151, commentata da D. Luzzatto, Note in tema di contratto di lavoro e collocamento, ivi, pp. 154 seg. Secondo il Pret. Milano il contratto di lavoro si conclude e perfeziona coll’avviamento; il rifiuto di dare inizio alla fase esecutiva configura un’ipotesi di difetto colpevole di collaborazione creditoria. La cit. decisione del Trib. Roma conferma invece un indirizzo giurisprudenziale consolidato: su cui v. F. Tessitore, Sui diritti del lavoratore avviato e non assunto, ivi, 1975, II, pp. 780 seg.
[132] Le sanzioni civili nella tutela del lavoro subordinato, cit., p. 31.
[133] C. Rapisarda, op. cit., p. 834.
[134] A. Proto Pisani, op. cit., p. 44.
[135] Al di là di qualche eccesso retorico, erano sensate alcune delle critiche mosse alla formulazione dell’art. 15 (nel testo approvato dalla camera, e poi modificato) da G. Fabbrini, op. cit., cc. 328 seg.; alla imprecisione del vecchio testo non ha certo rimediato il nuovo.
[136] C. Rapisarda, op. cit., p. 837.
[137] V. ancora, le convincenti argomentazioni di C. Rapisarda, op. cit., pp. 837 seg.
[138] I licenziamenti, cit., pp. 144 seg. Da quando ho scritto quelle pagine, impostando i problemi in termini drastici, l’argomento della esecuzione forzata dell’ordine di reintegra è stato molto approfondito in dottrina. Oltre ai recenti contributi di F. Frediani, Note sulla effettività della reintegra nel posto di lavoro, in «Rivista giuridica del lavoro», 1978,1, pp. 73 seg., e di R. Paolini, Riforma dell’ordine di reintegra con sentenza passata in giudicato e restituibilità delle retribuzioni corrisposte in sostituzione dell’adempimento specifico, ivi, II, pp. 299 seg., debbono essere segnalati, almeno, il saggio di L. Lanfranchi, Situazioni giuridiche individuali a rilevanza collettiva ed attuazione della condanna alla reintegrazione del lavoratore, ivi, 1977, I, pp. 343 seg.; il saggio di M. Truffo, Problemi in tema di esecutorietà della condanna alla reintegrazione del lavoratore, in « Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1976, pp. 789 seg., che scompone l’attività richiesta al datore di lavoro per reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato in una serie di sottoprestazioni, parte fungibili, parte infungibili; il saggio di M. D’Antona, La reintegrazione nel posto di lavoro, cit., pp. 184 seg., che distingue due fasi nell’attuazione della condanna alla reintegrazione: la cessazione del comportamento lesivo; la rimozione degli effetti (quest’ultima suscettibile di esecuzione forzata). La mia consueta testardaggine mi impedisce di considerare i tentativi di valorizzare o le forme di coazione indiretta, o le parti eseguibili degli obblighi del datore di lavoro che non ottempera all’ordine di reintegra, un vero progresso; a mio modesto, ma testardo avviso, il progresso si consegue solo affrontando, e non evitando, il nodo degli obblighi di fare e il fondamento della loro incoercibilità.