Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c6
L’art. 3 della legge n. 903 vieta ogni discriminazione tra uomini e donne in ordine all’attribuzione di qualifiche e mansioni e alla progressione di carriera. Si tratta di una prescrizione sovrabbondante rispetto all’art. 1 I comma [107]
. Ma la sua funzione è probabilmente quella di segnalare che è questo il campo delle più frequenti discriminazioni a carico delle donne. Il II comma dello stesso art. 3 contiene (finalmente) una «discriminazione positiva» a vantaggio delle lavoratrici: le assenze dal lavoro pre e post partum sono considerate attività lavorativa ai fini della progressione di carriera. Naturalmente, c’è un’eccezione: perché le assenze possano essere considerate attività lavorativa occorre che i contratti collettivi non subordinino la progressione nella carriera a «particolari requisiti». Il rinvio alla contrattazione collettiva apre problemi analoghi a quelli già affrontati nel commenta agli artt. 1 IV comma e 5 II comma. Anche in questo caso, la
{p. 268} possibilità, riservata alla contrattazione, di fissare requisiti «incompatibili» con la prescrizione dell’art. 3 II comma, è uno spazio di deroga. Le deroghe penalizzano, sia pure in via mediata, le lavoratrici madri, la cui tutela legale è considerata, dalla costituzione in poi, un riconoscimento del valore sociale della maternità. Quanto ai requisiti «particolari», basta pensare ai c.d. accordi sulla professionalità, per rendersi conto che le eccezioni alla regola fissata possono essere numerose. Tali accordi richiedono, infatti, a fini di progressione di carriera, oltre la permanenza per un certo tempo in un determinato livello, anche l’acquisizione di un effettivo arricchimento professionale: cioè l’effettivo esercizio di determinate mansioni qualificanti [108]
. Il II comma dell’art. 3 dimostra, una volta di più, che la parificazione sostanziale delle lavoratrici avrebbe richiesto per loro, e solo per loro, più garanzie e meno deroghe.
Come ho detto all’inizio, sono colpiti da nullità tutti gli atti e patti discriminatori in ragione del sesso (art. 15 st. lav.; artt. 1, 2, 3 L. n. 903). Molto si è detto e scritto circa l’inadeguatezza del rimedio civilistico della nullità a colpire le discriminazioni poste in essere durante lo svolgimento del rapporto di lavoro [109]
. Non vale dunque la pena di ripetere osservazioni e commenti già noti, ma corre l’obbligo di fare qualche precisazione.
In primo luogo, è bene tener fermo che possono essere colpiti dalla nullità i patti e gli atti unilaterali del datore di lavoro. Restano invece fuori discussione (e controllo) i comportamenti materiali e quanto altro non sia tecnicamente definibile come «atto»: per la ragione elementare che la nullità colpisce solo l’efficacia (giuridica) dei negozi. Per la repressione delle condotte o dei comportamenti discriminatori per ragioni di sesso restano esperibili, nei limiti in cui lo sono, gli speciali procedimenti di cui agli artt. 28 st. lav. e 15 L. n. 903.
La delimitazione degli atti discriminatori che possono ricadere sotto la sanzione della nullità (artt. 13 L. n. 903 e 15 st. lav.) non sgombra il campo dalle gravi incertezze, che riguardano l’applicazione della sanzione agli atti c.d. omissivi del datore di lavoro [110]
.
L’atto discriminatorio per motivi di sesso viene definito{p. 269} positivo quando produce i suoi effetti immediatamente in capo al soggetto discriminato. L’applicazione della sanzione di nullità pone già qui il problema della sua adeguatezza. Ad esempio, se il datore di lavoro licenzia una lavoratrice perché è donna, il licenziamento, motivato dalla illecita discriminazione sessuale, è nullo: ma la nullità non garantisce ancora alla lavoratrice il ripristino nella situazione qua ante [111]
. Nell’esempio portato, è indifferente che la lavoratrice sia stata licenziata al posto di un lavoratore; ma la comparazione delle situazioni (che è fattibile nei licenziamenti collettivi) potrà rilevare ai fini della difficile prova del carattere discriminatorio del licenziamento.
Nel campo delle discriminazioni sessuali, si potrebbe definire «omissivo» l’atto che, mentre produce effetti in capo ad un soggetto, lede il diritto alla parità di trattamento di un altro soggetto. Si può portare ad esempio un tipico atto discrezionale del datore di lavoro, come la promozione (non dovuta), alla quale aspirino, a parità di condizioni professionali (anzianità, qualifica, ecc.), un lavoratore ed una lavoratrice. Se il datore di lavoro promuove uno solo dei due, e lo promuove in ragione del suo sesso, il non promosso è certamente discriminato. La situazione pone allora due interrogativi: in che cosa consista la discriminazione; se esista un atto discriminatorio suscettibile di essere dichiarato nullo.
Al primo interrogativo si deve rispondere che la discriminazione consiste nell’omissione: il pregiudizio per il discriminato risiede non nel fatto che una promozione sia stata accordata (ad altri), ma nel fatto che sia stata negata, per un motivo illecito, a lui.
Più complessa è la risposta al secondo interrogativo: infatti, mentre per il soggetto discriminato la mancata promozione realizza la discriminazione a suo danno, l’unica espressione giuridica del comportamento discriminatorio del datore di lavoro è però l’atto con cui promuove uno dei due aspiranti. Perché questo atto (positivo) possa essere colpito da nullità, occorre che sia viziato dal motivo discriminatorio [112]
: nell’ipotesi, il motivo sussiste, perché sussiste il nesso fra l’atto positivo e l’omissione, ossia la preferenza accordata ad un lavoratore in ragione del suo sesso. Ove il motivo discrimi{p. 270}natorio venga provato (a tal fine potrà essere utile guardare ai «precedenti» del datore), e la nullità dell’atto venga dichiarata, le conseguenze non potranno essere che quelle della nullità in diritto comune. Così, se l’atto nullo aveva ad oggetto la concessione di un beneficio, l’atto sarà rimosso, ma non potrà essere esteso il beneficio al soggetto cui era stato illegittimamente negato [113]
. Dalla nullità non deriva quindi un vantaggio per il lavoratore discriminato, ma solo uno svantaggio per il lavoratore preferito. Se si pensa che una buona parte delle discriminazioni consistono proprio in omissioni, le conclusioni da trarre sono scoraggianti. Ma sono conclusioni cui si è costretti dall’analisi della legge: e sono, mi pare, la migliore verifica del giudizio critico da me espresso sulle scelte di politica del diritto che sorreggono la legge n. 903.

9. Qualche osservazione sulla repressione della condotta discriminatoria.

Di incerta paternità ‒ come lo ha maliziosamente definito Giuseppe Pera [114]
‒, l’art. 15 della legge n. 903 ha il merito di avere portato dentro questa legge il riflesso, seppure sbiadito, della più importante e ricca esperienza legislativa di questi anni. Modellato sull’art. 28 dello statuto dei lavoratori, l’art. 15 era stato pensato ‒ dai suoi incerti padri ‒ come lo strumento necessario per assicurare alle lavoratrici (ma anche ai lavoratori) un’efficiente tutela giudiziaria dei diritti garantiti e degli interessi protetti dalla legge. Alla predisposizione di un procedimento urgente per la repressione delle discriminazioni doveva accompagnarsi l’istituzione di strutture amministrative, dotate dei poteri necessari per assicurare l’attuazione della legge; attuazione, che non può ovviamente reggersi tutta sulle spalle dei sindacati e della magistratura. Il parlamento non ha mai discusso delle strutture amministrative: non erano previste nel testo presentato all’approvazione della camera, e la discussione in aula non è servita a colmare la grave lacuna [115]
.
L’originaria stesura dell’art. 15 ha subito, durante l’iter{p. 271} parlamentare, una serie di rimaneggiamenti. L’ambito di operatività della norma è stato fortemente ridotto; è stata inoltre cancellata la disciplina unitaria del procedimento d’urgenza di fronte al giudice ordinario e amministrativo, che costituiva l’innovazione più interessante dell’intera legge [116]
.
Nel testo definitivo, l’art. 15 prevede che, su ricorso del lavoratore (o, per sua delega, dell’organizzazione sindacale), il pretore ‒ con decreto motivato, immediatamente esecutivo ‒ possa ordinare la cessazione dei comportamenti diretti a violare le disposizioni di cui agli artt. 1 e 5 della legge n. 903 e possa rimuoverne gli effetti. I commi II, III, IV dell’art. 15, modellati sull’art. 28 st. lav., regolano: l’efficacia esecutiva del decreto; l’opposizione al decreto secondo il coordinamento con la legge n. 533/1973, già attuato, per l’art. 28 st. lav., dalla legge n. 847/1977 [117]
; l’inottemperanza al decreto.
L’ultimo comma dell’art. 15 riguarda i pubblici dipendenti, per i quali ribadisce la giurisdizione esclusiva dei giudici amministrativi, e lascia immutata la disciplina del procedimento. Per la violazione degli artt. 1 e 5 L. n. 903 è prevista infatti l’applicazione della sospensione dell’atto amministrativo, regolata dall’art. 21 ult. comma L. 6 dicembre 1971, n. 1034. Può darsi che il legislatore, più o meno consapevolmente, abbia introdotto un caso di sospensione obbligatoria dell’atto amministrativo [118]
. È certo però che, se così anche fosse, l’ultimo comma dell’art. 15 avrebbe una volta di più confermato le gravi disparità di trattamento esistenti, quanto a tutela giurisdizionale, fra i lavoratori del settore privato e i pubblici dipendenti. Come è noto, e come hanno ribadito i commentatori della legge n. 903, la sospensione dell’atto amministrativo non è omologa al decreto emesso dal pretore in via d’urgenza. Anzitutto, il procedimento per ottenere in via d’urgenza la sospensione dell’atto amministrativo ha carattere cautelare, mentre il procedimento regolato dai primi quattro commi dell’art. 15 (sul modello dell’art. 28 st. lav.) non ha tale carattere [119]
. Essendo la sospensione dell’atto amministrativo una misura cautelare, è necessario che essa sia correlata ad un giudizio di impugnazione dell’atto: è così esclusa{p. 272} la tutela in via urgente per quelle situazioni nelle quali il comportamento discriminatorio della pubblica amministrazione non si concreti in un atto (formale) impugnabile. È anche poco probabile, per considerazioni di ordine sostanziale, che il procedimento cautelare sia utilizzato nei casi in cui l’atto abbia contenuto negativo, come avviene per le discriminazioni nell’accesso al lavoro che si concretino, ad esempio, nella esclusione da un concorso: ciò, perché la mera sospensione dell’atto non produce effetti vantaggiosi per il ricorrente, al quale potrebbero derivare vantaggi solo da un comportamento attivo (reintegratorio) dell’amministrazione [120]
.
In considerazione dei molti limiti, che la misura cautelare della sospensione presenta, specie nel campo delle discriminazioni di cui agli artt. 1 e 5 L. n. 903, sono state proposte interpretazioni «correttive» dell’art. 15 ult. comma [121]
. L’attendibilità delle correzioni proposte potrà essere verificata nel concreto uso che i tribunali amministrativi regionali faranno della legge: sempre che siano richiesti di intervenire.
Grazie alla separata disciplina riservata ai pubblici dipendenti, il procedimento regolato nei commi dal I al IV dell’art. 15, sui quali conviene ora che mi soffermi, resta utilizzabile per i soli lavoratori del settore privato. Dico subito che ragioni di incompetenza professionale mi inducono a trascurare l’analisi delle molte questioni di ordine processuale sollevate dall’art. 15, in ragione delle affinità e delle differenze che esso presenta rispetto all’art. 28 st. lav. Per le stesse ragioni, trascuro anche il problema della esperibilità del ricorso ex art. 15 I comma, quando responsabile dell’atto o comportamento discriminatorio sia la pubblica amministrazione (non datore di lavoro). Mi preme tuttavia osservare che l’accoglimento della soluzione positiva, cui non si frappongono (credo) ostacoli tecnici insormontabili, consentirebbe il controllo giudiziario sugli atti e comportamenti degli uffici di collocamento, alla imparzialità dei quali resta per buona parte affidata la corretta applicazione della legge n. 903: basta pensare all’avviamento al lavoro su richiesta numerica [122]
.
Sulle scelte consapevolmente compiute dal legislatore nel determinare la legittimazione attiva al ricorso ho già espres
{p. 273}so la mia opinione (retro. par. 5). Posso ora aggiungere che tali scelte non meritano il giudizio positivo, che ne hanno dato i sindacati [123]
I fatti stanno dimostrando che la legittimazione rigorosamente individuale incide negativamente sulla pratica utilizzazione della legge; a causa, credo, della inconsapevolezza dei propri diritti e della storica diffidenza verso la giustizia, comuni a buona parte delle destinatarie (e dei destinatari) della legge n. 903.
Note
[107] Cosí T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 3, I comma, p. 798.
[108] S. Sciarra, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 3, II comma, pp. 800 seg.
[109] Da ultimo E. Ghera, Le sanzioni civili nella tutela del lavoro subordinato, cit., pp. 39 seg.
[110] V. le contrastanti soluzioni proposte da T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 13, pp. 823 seg., e da G. Simoneschi, La donna e il lavoro: dalla tutela alla parità, cit., p. 42.
[111] Mi riferisco ai tanti irrisolti problemi dell’esecuzione forzata dell’obbligo di reintegrare il lavoratore ingiustamente licenziato (art. 18 st. lav.).
[112] L’uso che faccio del termine «motivo» è improprio; lo utilizzo tuttavia per significare che la volontà di differenziare il trattamento in ragione del sesso deve essere presente nel soggetto agente; non deve essere invece egualmente presente l’intenzione (o la consapevolezza) di arrecare un pregiudizio al soggetto svantaggiato dall’atto discriminatorio. Questa definizione del motivo introduce nella più vasta tematica degli atti di esercizio di un potere discrezionale del datore di lavoro e della loro sindacabilità sotto il profilo della discriminazione, su cui v. l’ampia trattazione di T. Treu, Condotta antisindacale e atti discriminatori, cit., pp. 41 seg. Resta da precisare che il divieto di discriminare in ragione del sesso ha eliminato ogni discrezionalità del datore di lavoro, privandolo del potere di compiere scelte fondate sul sesso del prestatore.
[113] Contra: G. Simoneschi, loc. ult. cit.
[114] Il procedimento sommario a tutela della parità della lavoratrice, I, Introduzione, in «Foro italiano», 1977, V, c. 326.
[115] È utile raffrontare il testo predisposto dal comitato ristretto della commissione lavoro e il testo approvato in aula alla camera, poi modificato in senato. Vedili in Parità uomo-donna, cit., pp. 69 seg.
[116] Insiste, a ragione, nel differenziare le responsabilità politiche della mutilazione dell’art. 15 L. Ventura, La legge sulla parità, cit., pp. 272 seg. La precedente formulazione dell’art. 15, nella parte in cui unificava il procedimento sommario avanti il pretore per i lavoratori privati e per i pubblici dipendenti, era stata criticata da F. Merusi, Il procedimento sommario a tutela della lavoratrice, cit., III, Il procedimento avanti il giudice amministrativo, cc. 335-356, che ne aveva rilevato lacune e incongruità.
[117] Cfr. D. Borghesi, La nuova legge di coordinamento tra procedimento per la prepressione dell’attività antisindacale e rito del lavoro, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, I, pp. 761 seg.
[118] Lo pensa L. Ventura, op. cit., p. 287.
[119] V., per tutti, A. Proto Pisani, Studi di diritto processuale del lavoro, Milano, 1976, pp. 30 seg., e ivi riferimenti bibliografici.
[120] In proposito v. le osservazioni di C. Rapisarda, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 15, p. 843; l’a. ricorda che la giurisprudenza ammette con riserva il ricorrente al concorso dal quale era stato escluso.
[121] M. Rubino, Aspetti processuali della legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro privato e di pubblico impiego, in «Il diritto del lavoro», 1978, I, pp. 13 seg., e specialmente pp. 21 seg. L’a. ritiene che sia d’obbligo forzare la lettera della legge per colmare le gravi disparità di trattamento a danno dei pubblici dipendenti. Forzando appunto la lettera dell’art. 15, afferma che anche negli enti pubblici non economici, là dove l’amministrazione non sia tenuta all’emanazione di atti formali, il dipendente leso dal comportamento discriminatorio può chiedere al pretore una tutela sommaria.
[122] Mi paiono convincenti le argomentazioni addotte in tal senso da L. Ventura, op. cit., pp. 283 seg.; anche in questo caso, tuttavia, una casistica giudiziaria aiuterebbe ad affinare gli argomenti.
[123] V. Un procedimento sommario contro le discriminazioni, in «I diritti dei lavoratori», n. 12-13, 1977, p. 17.