Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c6
L’interpretazione in senso
«discriminatorio» di quella legislazione viene avvalorata con la sottolineatura delle
date, certamente suggestive, dato che le norme protettive risalgono quasi tutte al
periodo fascista. Deve tuttavia essere segnalato il fatto che, almeno tra i giuristi,
l’idea della «protezione» come causa di discriminazione ha cominciato a circolare nei
commenti alla legge 9 gennaio 1963, n. 7 sul divieto di licenziamento per causa di
matrimonio, e veniva allora avvalorata con i dati sull’occupazione femminile, in
vertiginosa discesa appunto a partire dal 1963 (retro, cap. IV,
par. 4).
¶{p. 238}
L’orientamento favorevole all’abrogazione delle
norme protettive (perché discriminatorie) ha trovato il consenso delle lavoratrici, tra
le quali la mobilitazione intorno alla legge ha diffuso un atteggiamento di rifiuto
delle tradizionali tutele, oggi considerate falsi privilegi che umiliano il diritto di
eguaglianza delle donne e le escludono dal lavoro qualificato
[42]
.
La mia opinione è che le norme protettive,
certamente ispirate ad una concezione dell’inferiorità naturale (fisica e intellettuale)
delle donne, e nate in un periodo in cui il regime fascista doveva affrontare gravi
problemi di disoccupazione, non hanno però svolto, dal dopoguerra ad oggi, quella
funzione di espulsione ed emarginazione che si attribuisce loro.
L’attuale, marcata preferenza per il lavoro
maschile, il relegamento del lavoro femminile nelle fasce più basse della scala
professionale, l’espulsione delle donne dalle fabbriche, l’allontanamento di milioni di
donne dal mercato ufficiale del lavoro (il tasso ufficiale di attività tocca appena il
20%), accompagnato da una larghissima riutilizzazione nel lavoro precario e nero, hanno
cause profonde nelle scelte e nelle politiche del capitalismo italiano. Che alla base di
queste scelte e di queste politiche stia anche il maggior costo del lavoro femminile è
cosa assai discussa. Ma, in ogni caso, non è verificato ‒ né a mio avviso verificabile ‒
che siano le norme di tutela del lavoro femminile ad elevare, con effetti emarginanti,
il costo del lavoro delle donne
[43]
. Del resto, certamente responsabili di elevare il «costo» del lavoro (per
gli oneri che impongono ai datori di lavoro e per i diritti, specie alle assenze, che
riconoscono alle lavoratrici) sono le leggi sulle lavoratrici madri. Ma, mentre a
nessuno è venuto in mente, per fortuna, di considerare discriminatoria la tutela legale
della maternità, basta guardare agli andamenti dell’occupazione femminile negli anni in
cui le leggi hanno operato (tenendo conto che la cosiddetta iper-protezione delle
lavoratrici madri è stata inaugurata dalla legge del 1950 e approfondita dalla legge del
1971), per rendersi conto dell’inconsistenza dell’ipotesi che vi sia un rapporto
causa-effetto tra protezione legale ed espulsione-emarginazione del lavoro femminile
[44]
.¶{p. 239}
Ammetto che l’osservazione è banale; d’altra
parte, il suo senso non è quello di sfondare porte nella specie già aperte, ma di
rimettere in chiaro quali siano i termini del problema. Per fare ciò, mi pare necessario
aggiungere una cosa ancora. È a tutti noto che l’offerta di lavoro delle donne è rigida;
e che l’offerta di lavoro rigida tende ad essere discriminata nella domanda, specie
quando aumenta la richiesta di flessibilità nell’organizzazione del lavoro e nell’uso
della forza lavoro. È altresì noto che sono strutturali le cause della rigidità
dell’offerta di lavoro femminile: la qualità di madre e di figlia, come ha scritto Luigi
Frey
[45]
. Tali situazioni di rigidità sociale preesistono alle leggi, che non le
creano, ma le tutelano soltanto. A me pare allora che, mentre la parificazione effettiva
del lavoro femminile si possa ottenere solo rimuovendo le cause strutturali di rigidità
che ne determinano la discriminazione, la rimozione dei soli fattori sovrastrutturali di
rigidità (vale a dire le norme di tutela) consegua effetti di parificazione formale
delle donne occupate, di cui modifica la condizione giuridica e rende più flessibile
l’utilizzazione, ma sicuramente non consegue effetti immediati di parificazione
sostanziale
[46]
.
Resta da dimostrare che dalla eguaglianza formale
possano derivare, alla lunga, effetti di eguagliamento sostanziale. La tesi mi pare
diffusa tra i più convinti sostenitori della legge n. 903. Ma dimostrarla è difficile,
almeno alla luce delle più accreditate teorie del «diritto eguale» o, più modestamente,
alla luce dell’art. 3, II comma, cost.
Alla fine, se è vero che non è la protezione
accordata dalle leggi a causare la discriminazione delle donne nel lavoro, e se è vero
che le disparità sostanziali non si eliminano con la sanzione legale dell’eguaglianza,
io penso che l’operazione (politica) di smantellamento delle norme di tutela del lavoro
femminile non dovesse essere condotta nel nome della parità di trattamento.
Queste norme meritavano, certo, e l’ho già detto,
di essere riesaminate attentamente. Era infatti necessario e urgente chiedersi se, alla
luce delle modificazioni intervenute nell’organizzazione del lavoro, nelle strutture
sociali e nella coscienza delle donne, la legge n. 653/1934, la relativa
tabella¶{p. 240} del 1936, le successive norme protettive del 1954 e del
1956, la stessa legge n. 977/1967 (relativamente ai diversi limiti di età previsti per
il lavoro delle adolescenti), avessero ancora una ragion d’essere. Occorreva, cioè,
seriamente valutare quali situazioni di obbiettiva inferiorità e/o diversità delle
lavoratrici permanessero, e quale rimedio vi ponessero le norme protettive; quali di
questi rimedi fossero ancora utili a salvaguardare la salute e la personalità delle
donne lavoratrici, quali inutili, quali controproducenti. Faccio un esempio: di fronte
al divieto di adibire le donne di qualsiasi età ai lavori sotterranei delle cave,
miniere, e gallerie, di cui all’art. 6, lett. a), L. n. 653/1934, piuttosto che
procedere senz’altro alla sua soppressione, perché differenzia il trattamento delle
donne ed impedisce loro l’accesso al lavoro sotterraneo, sarebbe stato bene chiedersi se
il divieto non avesse ancora oggi la funzione di salvaguardare la salute delle donne, in
genere sottoposte al maggiore affaticamento fisico della maternità e del doppio lavoro.
In caso di risposta positiva, il parlamento avrebbe dovuto prendersi la responsabilità
politica di mantenere fermo il divieto: anche per impedire che, spinte dalla necessità
economica, le donne accettino di svolgere lavori pregiudizievoli per la loro
salute.
La sensatezza di alcuni limiti e divieti e
l’insensatezza di altri, la stessa non omogeneità delle norme protettive, avrebbero
richiesto un intervento molto articolato e, soprattutto, la creazione di strumenti
giuridici idonei a liberare il lavoro femminile dai lacci troppo stretti delle
protezioni inutili, ed aumentare il grado di flessibilità del lavoro femminile senza
peggiorare le condizioni di lavoro e di vita delle lavoratrici
[47]
.
5. Il significato della parità nella legge n. 903.
Al di là delle norme promozionali ‒ di promozione
vera o presunta dell’occupazione femminile ‒ su cui ho fermato sin qui la mia
attenzione, e sul cui funzionamento tornerò più avanti, la scelta del parlamento è
stata, complessivamente, per una legge di tipo garantistico tradizionale: una serie di
diritti individuali per le lavoratrici, sostenuti da meccanismi¶{p. 241}
sanzionatori, che a loro volta devono garantire l’esercizio effettivo dei diritti concessi
[48]
. Pure ricalcando la scelta, già fatta con lo statuto dei
lavoratori, di individuare i sindacati e i giudici come responsabili della promozione
(in quel caso, di un nuovo sistema di relazioni industriali, e in questo dell’espansione
dell’occupazione femminile), la nuova legge n. 903 sembra avere dimenticato la lezione
fornita da molti anni di applicazione dello statuto dei lavoratori. L’esperienza ha reso
evidente l’insufficienza degli strumenti di tutela individuale dei diritti dei
lavoratori; ma ha anche mostrato l’insufficienza degli strumenti di tutela collettiva
dei lavoratori, quando i problemi superino la dimensione aziendale, e manchino
collegamenti o addirittura strutture pubbliche in grado di sostenere le rivendicazioni
dei lavoratori: è questo, ad esempio, il caso dell’art. 9 dello statuto
[49]
.
A far dimenticare l’insegnamento dell’esperienza,
maturata sulla più importante legge industriale del dopoguerra, ha certamente
contribuito il consenso delle forze sociali alla smobilitazione dei fattori di rigidità
del lavoro, che da lungo tempo ha posto al centro della discussione le norme più
significative della legge n. 300/1970
[50]
. Ma a ciò ha contribuito anche, a mio parere, la scelta del parlamento di
incentrare tutto l’intervento legislativo in materia di lavoro femminile sulla questione
della parità (come non-discriminazione) nei rapporti di lavoro.
La parità mira infatti (tendenzialmente) ad
unificare il soggetto «lavoratore», cancellando gli spazi del privilegio e della
diversità. Mira cioè a rendere (tendenzialmente) omogenea la protezione legale di tutti
coloro i quali, donne o uomini che siano, si presentano sul mercato come venditori della
propria forza lavoro. La legge sulla parità interviene sopra le differenze di
trattamento normativo esistenti, le elimina, e vieta che ne siano introdotte di nuove.
La legge si preoccupa cioè di integrare le donne nella condizione giuridica che finora è
stata propria solo dei lavoratori maschi, ma non interviene ‒ se non in modo assai
limitato e marginale ‒ sulle cause che hanno determinato, dalle origini della
industrializzazione ad oggi, la divisione per sesso della forza lavoro.
Si deve a questa caratterizzazione
dell’intervento legisla¶{p. 242}tivo, come intervento prevalentemente di
ricucitura delle differenze esistenti nel trattamento di lavoratori di sesso diverso,
anche la tacita unificazione tra donne e uomini nella definizione e nell’esercizio dei
diritti politici e sindacali. Se l’obbiettivo era la parificazione di ogni donna
lavoratrice con ogni uomo lavoratore, non vi era alcuna ragione di dare alle donne
momenti autonomi di organizzazione e difesa collettiva, essendo le già previste (in
altre leggi) sedi di organizzazione e difesa collettiva (nei luoghi di lavoro e fuori di
essi) agibili e praticabili da tutti i lavoratori.
Si spiega così il significativo silenzio
dell’art. 15 L. n. 903 sulle associazioni femminili e femministe: negando la
legittimazione attiva alle organizzazioni autonome delle donne, il legislatore ha
infatti voluto «parificare», cioè negare specificità alla condizione femminile. Ha però
dimenticato di considerare quali difficoltà si frappongano ad una attiva partecipazione
delle donne ‒ perché minoranza tra gli occupati, perché quota debole della forza lavoro
occupata, perché subalterne anche nel privato ‒ nelle organizzazioni politiche e
sindacali tradizionalmente maschili
[51]
. L’unificazione tra donne e uomini così realizzata non
spiega ancora, però, la scelta di attribuire il carattere di azione individuale al
ricorso ex art. 15. Nella esclusione di una autonoma legittimazione attiva del sindacato
(secondo il collaudato modello dell’art. 28 st. lav.) si esprime una sfiducia ‒ o
immeritata, o in contraddizione con la logica della parità ‒ circa la capacità del
sindacato di gestire un responsabile uso giudiziario della legge n. 903, di saper cioè
mediare la domanda di giustizia delle donne, evitando le lacerazioni e limitando i rischi
[52]
.
Con l’unificazione del soggetto «lavoratore», la
legge n. 903 tende a realizzare quella parità di trattamento economico e normativo, già
sancita dall’art. 37 cost., ma sin qui ben poco attuata. La legge ha dunque carattere di
adempimento costituzionale, perché si muove nell’ottica dell’art. 37, pure
sottoponendolo ad una rilettura che riequilibra il rapporto fra lavoro e ruolo
familiare; rapporto squilibrato, nella norma costituzionale, che qualifica con
l’aggettivo «essenziale» la funzione familiare della donna. La legge inoltre supera il
riferimento della costituzione alle sole lavoratrici occupate,
¶{p. 243}
per sancire un pari diritto al lavoro delle donne (anch’esso previsto dalla
costituzione, all’art. 4, I comma, ma smentito dai fatti).
Note
[42] Emerge però dai resoconti di parte sindacale sulla attuazione della legge n. 903 (v. ad es. «I diritti dei lavoratori», 1979, n. 29, pp. 6 seg.) che esistono anche tra le lavoratrici resistenze «dure a morire»; il segno più evidente di ciò è costituito dall’incertezza e dai dissensi sulla questione del lavoro notturno.
[43] Anche F. Padoa Schioppa, La forza lavoro femminile, cit., nell’individuare gli elementi che rendono più alto il costo del lavoro femminile rispetto a quello maschile, sottolinea le cause strutturali e culturali di debolezza del lavoro femminile, piuttosto che la rigidità (e la c.d. iper-protezione) introdotta dalle leggi di tutela. Ciò nondimeno, l’a. esprime il dubbio, senza poi approfondire l’argomento, che le leggi di tutela abbiano avuto effetti emarginanti. Il dubbio non risulta suffragato dall’analisi. Tra gli elementi che innalzano il costo del lavoro femminile (pure in presenza di una disparità salariale a svantaggio delle donne), Padoa Schioppa giustamente pone: a) l’indisponibilità delle donne agli straordinari; b) l’assenteismo elevato, molto al di sopra della utilizzazione della legge n. 1204/1971; c) l’alta probabilità di abbandono del lavoro col matrimonio o colla maternità. Tutti questi elementi non dipendono da un «naturale» minore rendimento delle donne, né dalle leggi di tutela (delle quali, se mai, è chiamata in causa solo quella sulle lavoratrici madri), ma dalle condizioni sociali che fanno della donna una lavoratrice più debole.
[44] Cfr. Frey, Il lavoro femminile verso gli anni ’80, in Frey, Livraghi, Olivares, Nuovi sviluppi delle ricerche sull’occupazione femminile, cit., pp. 9 seg.
[46] Mi pare condivida questa giudizio, nella sostanza, anche Ventura, La legge sulla parità, cit., pp. 257-258.
[48] Infra, par. 8.
[49] Per analoghe osservazioni sul punto, v. Carinci, op. cit., p. 114. Sul funzionamento dello statuto dei lavoratori nei primi tre anni della sua applicazione, v. i due voll. della ricerca curata da T. Treu, L’uso politico dello statuto dei lavoratori, Bologna, 1975; Lo statuto dei lavoratori: prassi sindacali e motivazioni dei giudici, Bologna, 1976. Per qualche osservazione critica sul metodo e gli esiti della ricerca v. le mie note in «Sociologia del diritto», 1976, pp. 171 seg.; 1977, pp. 152 seg.
[50] Lo statuto dei lavoratori è stato in questi ultimi anni oggetto di critiche e attacchi da parte del padronato industriale. Si è distinta in questa campagna anti-statuto la Federmeccanica, per bocca (e penna) di Felice Mortillaro.
[51] Sul problema, v. da ultimo M. D’Amato, Il lavoro della donna: movimento sindacale e partecipazione femminile, in «Sociologia del lavoro», 1978, n. 3, pp. 153 seg.
[52] Lamenta soprattutto che non si sia riservata la legittimazione al sindacato G. Giugni, in «La stampa», 22 luglio 1977, preoccupato che la legittimazione individuale provochi un contenzioso futile, alimentato da piccole emulazioni. A quasi due anni dall’entrata in vigore della legge si può constatare che le preoccupazioni di Giugni erano ingiustificate (nessun contenzioso, invece che un contenzioso futile); non è ancora possibile invece formulare un giudizio sulla bontà della scelta di escludere il sindacato dai legittimati al ricorso.