Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c6
Ancora un cenno va fatto alle discriminazioni
indirette, esemplificate dalla legge al n. 2, li comma, art. 1. La prescrizione
colpisce, in questo caso, quelle varie e diffuse pratiche di reclutamento (meccanismi di
preselezione, pubblicità e mezzo stampa, ecc.), nelle quali è indicata come requisito
professionale l’appartenenza all’uno o all’altro sesso. Malgrado la non felice
formulazione letterale, il divieto di discriminazione indiretta, molto ampio per il suo
stesso oggetto, ricomprende tutte le ipotesi nelle quali l’appartenenza ad un sesso sia
richiesta non solo espressamente, ma anche in via mediata, attraverso la specificazione
di requisiti che sono esclusivamente ‒ o più frequentemente ‒ di un sesso e non
dell’altro
[71]
. I casi più comuni sono quelli della statura, della resistenza fisica, delle
caratteristiche estetiche. Ma talora possono richiedersi anche elementi caratteriali che
si ritengono (a torto, secondo me) tipicamente maschili, come l’aggressività e
l’attitudine al comando
[72]
; spesso tali qualità vengono richieste per l’inserimento nelle qualifiche
dirigenziali e
¶{p. 253} impiegatizie di alto livello.
Escono dal campo delle discriminazioni indirette
quelle ipotesi in cui l’appartenenza ad un sesso sia requisito indispensabile per lo
svolgimento dell’attività lavorativa. Il limite della indispensabilità è rigido, mentre
la casistica (prevista dal V comma dell’art. 1) può risultare abbastanza ampia.
Fuoriescono dal campo delle discriminazioni indirette anche i casi nei quali i requisiti
richiesti, apparentemente neutri, siano però sostanzialmente caratteristici di un sesso
e non dell’altro, e risultino «essenziali» allo svolgimento dell’attività lavorativa.
L’essenzialità dei requisiti dovrà, però, essere provata dal datore di lavoro; alla
lavoratrice o al lavoratore basterà provare le circostanze della pretesa
discriminazione, vale a dire il rifiuto dell’assunzione, pure in presenza della
qualificazione professionale necessaria allo svolgimento del lavoro in questione. Per
decidere se la discriminazione sussista, il giudice potrà avvalersi o delle consuete
valutazioni presuntive (come avviene, del resto, per le condotte antisindacali), ovvero
dei criteri statistici (per quanto attendibili, e comunque non conclusivi)
[73]
.
7. Le deroghe alla parità di trattamento e la loro gestione contrattuale.
Oltre che nelle modalità e nei criteri di
assunzione, la legge n. 903 prescrive la parità di trattamento (ovvero il divieto di
discriminazione) fra lavoratori di sesso diverso nell’accesso ai vari settori e rami di
attività, nonché a tutti i livelli della gerarchia professionale (meglio: a tutte le
qualifiche e mansioni). La prescrizione ha una portata generalissima, poiché si
riferisce a tutti i rapporti di lavoro subordinato, pubblici e privati, ma conosce
eccezioni. Ho già fatto cenno ai settori dell’arte, della moda, dello spettacolo, dove
la legge esclude che sia discriminatorio condizionare l’assunzione all’appartenenza ad
un determinato sesso: sempre che l’appartenenza ad un sesso sia richiesta dalla natura
del lavoro. È abbastanza chiaro che un cameraman, malgrado la denominazione, può essere
indifferentemente uomo o donna, mentre l’indos¶{p. 254}satrice di abiti
femminili è necessario sia donna, a meno che non ci si propongano i gustosi effetti
spettacolari del travestismo, molto praticati di questi tempi
[74]
.
Dispone ancora il V comma dell’art. 1 che, al di
fuori dei settori suddetti, altre attività ‒ per lo svolgimento delle quali
l’appartenenza ad un sesso sia essenziale ‒ possano essere previste dai contratti
collettivi. Il rinvio alla contrattazione collettiva contribuisce a smagliare la
rigidità della prescritta parità di trattamento. Su ciò, niente vi sarebbe da
obbiettare, se non fosse che l’aver designato, quale strumento per la realizzazione
dell’obbiettivo, il non meglio definito «contratto collettivo» apre complesse questioni
interpretative. Questioni che ‒ mi preme sottolinearlo ‒ restano complesse (e le
soluzioni restano spesso insoddisfacenti), anche ove si consenta sulla opportunità
politica di delegare ai sindacati ogni decisione circa le attività da precludere alle
donne o agli uomini
[75]
.
Lo stesso meccanismo di rinvio alla
contrattazione collettiva (e sempre senza alcuna determinazione né del livello né degli
agenti contrattuali) è presente anche nelle altre due eccezioni alla parità di
trattamento nell’accesso al lavoro, rispettivamente regolate nell’art. 1 IV comma
(mansioni di lavoro particolarmente pesanti) e dall’art. 5 II comma (rimozione del
divieto di lavoro notturno).
Ma prima di addentrarsi nel groviglio di
problemi tecnici che si aprono con il rinvio alla contrattazione collettiva, conviene
soffermarsi sul merito delle due eccezioni alla parità che la legge riserva alle donne.
Nei paragrafi precedenti ho analizzato le ragioni che hanno determinato la rimozione
della normativa di tutela del lavoro femminile, e i modi attraverso cui il risultato è
stato ottenuto. Vale adesso la pena di completare quel discorso con qualche osservazione
ulteriore sulla problematicità delle soluzioni unanimemente accolte dagli interpreti. Le
eccezioni alla parità previste dalla legge si riferiscono a due (e solo due) argomenti
trattati (con divieto) dalla legge n. 653/1934, ignorando completamente le norme
protettive contenute in questa ultima e in altre leggi.
Dalla formulazione dell’art. 1 IV comma emerge
con¶{p. 255} chiarezza l’intento di abrogare il divieto assoluto di
adibire le donne minorenni ai lavori faticosi, pericolosi, e insalubri, nonché le sue
molte eccezioni (art. 10 L. n. 653/1934 e R.D. n. 1720/1936)
[76]
. La legge n. 903 afferma il nuovo principio che nessun lavoro può essere
inibito alle donne in ragione delle loro particolarità, ovvero che le particolarità
fisiche non sono una ragione sufficiente per differenziare il trattamento delle donne
quanto a tutela dell’integrità fisica. Il principio subisce una (potenziale) eccezione:
la legge infatti consente alla contrattazione collettiva di vietare che siano adibite
donne (anche adulte) a mansioni di lavoro «particolarmente pesanti», e ad esse sole.
L’indicazione delle mansioni «particolarmente pesanti», quale unica categoria di
mansioni che possono essere vietate alle donne come tali, fa supporre ‒ come dicevo ‒
l’avvenuta, tacita abrogazione dell’intero art. 10 L. n. 653/1934 (con relativa
tabella), e la sostituzione ad esso di una norma nuova. Pure facendo propria l’opinione
che i divieti sanciti dalla legge del 1934 avessero carattere discriminatorio (o almeno
producessero effetti discriminatori), il legislatore si è pronunciato in modo definitivo
solo su una parte di essi. Per il resto, ha assegnato ai sindacati il potere di
individuare mansioni inadatte alle donne, negoziandone col padronato la determinazione.
Alla vecchia protezione legale, giudicata discriminante, si è sostituita così la nuova
(eventuale) protezione contrattuale, giudicata non discriminante, perché più elastica e
più sensibile, insieme, alle richieste delle lavoratrici e alle esigenze della
produzione.
L’ambito della contrattazione collettiva è
ristretto alle sole mansioni particolarmente pesanti: il riferimento alle «mansioni»
(anziché ai lavori) serve ad escludere che intere lavorazioni o fasi di esse possano
essere inibite alle donne
[77]
; l’avverbio «particolarmente» serve a circoscrivere l’intervento sindacale
ad una parte soltanto delle mansioni considerate per tradizione pesanti
[78]
. L’art. 1 IV comma limita dunque a priori le possibili
deroghe contrattuali alla parità di trattamento delle lavoratrici. Non elimina tuttavia
la discrezionalità dei sindacati, che può rivelarsi ampia. La locuzione usata dal
legislatore è infatti priva di un preciso significato tecnico: «particolarmente pesante»
vuol dire solo pesantissimo, op¶{p. 256}pure anche abbastanza, o
piuttosto, o un po’ pesante? Saranno le lavoratrici, che giudicano sulla loro fatica, a
dare le indicazioni necessarie ai sindacati. Ma, avendo il parlamento privato il
ministero della possibilità di intervenire sulla materia col classico e autoritativo
strumento del decreto, i sindacati dovranno comunque contrattare con le controparti, e
gli esiti della contrattazione ‒ in questo campo, irto di difficoltà pratiche e
politiche ‒ sono incerti
[79]
.
Peraltro, l’incertezza può riguardare non solo i
risultati contrattuali, ma la sorte stessa del contratto (o della clausola
contrattuale). In base all’art. 19 della legge n. 903 sono nulle le clausole dei
contratti collettivi in contrasto con le disposizioni della legge. Nel caso in esame, il
contrasto è proprio col divieto di ogni discriminazione nell’accesso al lavoro. Può
verificarsi allora l’ipotesi che la lavoratrice, alla quale sia stato negato un lavoro,
perché le mansioni cui aspirava sono state definite particolarmente pesanti nel
contratto, impugni, nel ricorso, la clausola contrattuale perché illegittima o
inapplicabile. Sarebbero così a confronto un diritto garantito dalla legge (l’accesso al
lavoro) e una limitazione del diritto stesso imposta dal contratto. Io credo che, nel
caso, possa risultare arduo per il giudice decidere se i sindacati abbiano fatto buon
uso del potere, loro attribuito, di derogare la legge (ovvero se la limitazione
introdotta sia favorevole alle lavoratrici), o se invece si versi in un’ipotesi di
discriminazione illegittima e, pertanto, sia nulla la clausola contrattuale. Giudizio
difficile e imbarazzante: specie se la lavoratrice non è iscritta al sindacato
stipulante, ed è quindi rimasta estranea (perché non rappresentata) alla formazione di
un negozio, di cui deve subire effetti frustranti per le sue aspettative di
occupazione.
In questo modo, per molti versi discutibile, la
caduta dei divieti di cui alla legge n. 653/1934 garantisce alle lavoratrici la parità
di trattamento nell’accesso al lavoro. Il venir meno dei divieti incide anche sullo
svolgimento del rapporto di lavoro. Infatti, in base all’art. 13 st. lav., il datore di
lavoro può adibire la lavoratrice a mansioni che la vecchia legge definiva pesanti,
pericolose, insalubri, se queste mansioni siano equivalenti, cioè di contenuto
professionale e di valore retribut¶{p. 257}ivo non inferiore, a quelle
precedentemente svolte dalla lavoratrice medesima. L’ipotesi è tutt’altro che
improbabile, in un periodo di caduta della tensione sincadale sui temi
dell’organizzazione del lavoro, e allorché si fa pressante la richiesta dei datori di
lavoro di aumentare la mobilità interna
[80]
. La gestione dell’art. 1, IV comma, L. n. 903 richiede dunque una attenta
vigilanza delle lavoratrici, non solo sui comportamenti dei datori di lavoro, ma anche
sulla mediazione sindacale del «consenso» delle donne. Sempre che questo IV comma
dell’art. 1 venga utilizzato: perché fino ad ora risultano casi di lavoratrici assunte
per svolgere lavori pesanti, ma non sono stati diffusi testi di accordi che precludano
alle lavoratrici lo svolgimento di mansioni «particolarmente» pesanti.
Considerazioni non dissimili da quelle fin qui
svolte valgono per la seconda eccezione alla regola della parità di trattamento
(nell’accesso, ma anche nello svolgimento del rapporto di lavoro). L’art. 5 della legge
n. 903 ha confermato per le donne di qualsiasi età il divieto di lavoro notturno, che
risulta nella nuova disciplina più rigido che nella normativa precedente (artt. 12, 13,
14 L. n. 653/1934; L. 2 agosto 1952, n. 1352, di ratifica della convenzione O.I.L. n.
89; D.M. 5 luglio 1973)
[81]
. Ai fini della applicazione del nuovo divieto, la «notte» è il periodo che
va dalle ore 24 alle ore 6: rispetto alla disciplina precedente, la notte si è
accorciata di un’ora. Il lavoro notturno è vietato, secondo la dizione dell’art. 5,
nelle «aziende manifatturiere, anche artigianali»: l’uso di tale locuzione, tanto
diffusa in passato quanto ignota al linguaggio legislativo, svela l’intento di
restringere il divieto ad una parte soltanto delle aziende industriali. Tuttavia, la
definizione dell’ambito di applicazione del divieto risulta incerta: ad avviso del
ministero del lavoro, vale a tal fine la classificazione dell’I.S.T.A.T., che esclude
dalle aziende manifatturiere, oltre a quelle che producono servizi, anche le imprese
estrattive e quella per la costruzione e installazione di impianti
[82]
. Alcuni commentatori della legge non condividono l’opinione del ministero, e
giustamente ne sottolineano la scarsa aderenza alla ratio dell’art.
5 e l’incongruità
[83]
. Non si può ad esempio trascurare che una lunga tradizione legislativa
ha
¶{p. 258} vietato alle donne i lavori sotterranei nelle cave e
miniere. Questo divieto è stato rimosso, ma sarebbe francamente eccessivo pretendere
ora, in base ad una malintesa parità, di adibire le donne al lavoro sotterraneo anche
notturno.
Note
[71] Così T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 1, pp. 789 seg. Si può riprendere l’esemplificazione ancora da E. Silverstein, loc. ult. cit.: «facially neutral criteria which tend to riserve jobs for men include height, weight, and lifting requirements, experience and education prerequisites, union referral system (most skilled crafts unions have few women members), supervisors evaluations for promotion, no transfer rules in plants where jobs had initially been classified by sex, veteran’s preference policies, and word-of-mouth recruiting by male employes».
[73] Sono di quest’opinione C. Rapisarda, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 15, p. 836 e T. Treu, ivi, sub art. 1, pp. 794 seg.
[74] È il caso delle Sorelle Bandiera, in «L’altra domenica», a cura di R. Arbore, 1978/1979.
[75] I sindacalisti mostrano di aver apprezzato senza riserve la scelta del legislatore di far gravare sui sindacati le decisioni più difficili e imbarazzanti, e di non aver alcuna avversione verso quella sorta di sistema neo-corporativo che la legge n. 903 mette in funzione. Cfr. M. Lorini, Legge di parità e iniziativa sindacale, cit.; E. Masucci, Intervento, in Parità tra uomini e donne, cit., pp. 81 seg. Che la contrattazione collettiva sia il luogo idoneo per la definizione delle mansioni è ovvio; non è invece ovvio che ai sindacati si possano attribuire ‒ nel nostro ordinamento ‒ poteri di intervento tali da travolgere diritti individuali garantiti da norme imperative della legge.
[76] È generale l’opinione che la legge n. 903 abbia abrogato l’art. 10 della legge n. 653/1934 e la tabella del 1936. Sottolinea l’opportunità di procedere cautamente nell’interpretazione abrogante F. Carinci, Relazione, cit., pp. 112-113.
[77] Così L. Ventura, La legge sulla parità, cit., pp. 267-268.
[79] Come dimostra l’esperienza già maturata sul lavoro notturno: v. L. Morozzo, Tra legge e realtà l’iniziativa sindacale, in «Rassegna sindacale», 21 giugno 1979, pp. 13 seg.
[80] Rileva l’insufficienza, per qualità e intensità, dell’intervento sindacale sull’organizzazione del lavoro F. Vigevani, Organizzazione del lavoro e professionalità femminile, cit., p. 13.
[81] La disciplina preesistente (da ultimo il D.M. 5 luglio 1973) prevedeva che il ministro o l’ispettorato del lavoro, su motivata richiesta delle aziende, potessero modificare l’orario del lavoro notturno precluso alle donne. L’art. 12 L. n. 653/1934 conosceva inoltre numerosissime eccezioni, ora eliminate dalla generale prescrizione dell’art. 5, I comma, L. n. 903.
[82] V. la cit. circolare n. 92/78 del 29 dicembre 1978.