Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c6
Poco resta ancora da dire sulla questione degli
agenti contrattuali, non indicati dagli artt. 1 IV comma e 5 II comma L. n. 903
[94]
. Per le ragioni che ho appena esposto, ritengo che, ove anche il legislatore
avesse detto «contratto collettivo stipulato dai sindacati maggiormente
rappresenta
¶{p. 263}tivi», oppure «contratto collettivo aziendale,
stipulato dalla rappresentanza sindacale aziendale», le due norme avrebbero sollevato
egualmente molti dubbi di costituzionalità.
Se le formulazioni che ho detto fossero state
adottate, si sarebbe tuttavia ottenuto il vantaggio di una situazione contrattuale
chiara, ancorché eccepibile. Così, invece, qualunque organizzazione sindacale di colore
diverso dal giallo, di qualsiasi dimensione o livello, può contrattare. Nel caso ‒
improbabile, lo ammetto, ma non impossibile ‒ di una sovrapposizione di accordi diversi
allo stesso livello contrattuale, quale di questi dovrà avere l’efficacia generale che
la materia impone? E se a livello di azienda si stipula un accordo che rimuove
completamente il divieto di lavoro notturno, e successivamente il contratto nazionale di
categoria stabilisce la rimozione di tale divieto in ipotesi più limitate, ovvero non lo
rimuove affatto, l’azienda dovrà uniformarsi al contratto nazionale o a quello
aziendale?
Il problema di più accordi a diversi livelli è
risolubile, all’interno della stessa organizzazione, mediante precise regole di
articolazione contrattuale
[95]
. Non è invece praticamente risolubile, né dai sindacati (ognuno dei quali
può disporre solo per se stesso) né colle regole del diritto comune dei contratti, il
problema di dare una disciplina unitaria quando vi sia una pluralità di accordi,
stipulati da soggetti diversi del medesimo livello (una rappresentanza sindacale
aziendale in conflitto colle altre, un sindacato autonomo in conflitto col sindacato
confederato).
8. Nullità degli atti discriminatori per ragioni di sesso.
L’art. 13 della legge n. 903 modifica l’art. 15
dello statuto dei lavoratori, sostituendone l’ultimo comma. In virtù della modifica
introdotta, è nullo qualsiasi atto o patto diretto a fini di discriminazione sindacale,
politica, religiosa, razziale, di lingua, e di sesso
[96]
. Gli artt. 15 st. lav. e 13 L. n. 903 operano nell’ambito dei rapporti di
lavoro subordinato pubblici e privati
[97]
, dei quali investono l’intero svolgimento, dall’assunzione
alla risoluzione. Nella nuova disciplina (di cui mi¶{p. 264} occupo qui
con riguardo esclusivamente ai motivi di sesso) sono ricompresi gli atti e patti
discriminatori già espressamente vietati dall’art. 15 st. lav.: assunzioni,
licenziamenti, trasferimenti, provvedimenti disciplinari, assegnazioni di qualifiche e
mansioni. È vietato altresì qualunque atto o patto, di contenuto non determinato,
diretto a (ovvero oggettivamente capace di) discriminare nel trattamento lavoratori e
lavoratrici. Il combinato disposto degli artt. 1, 2, 3 e 13 della legge n. 903 ribadisce
la nullità degli atti e patti diretti a discriminare, per ragioni di sesso, i lavoratori
in materia di: accesso al lavoro, retribuzione, qualifiche, mansioni, e progressioni di
carriera.
La menzione separata e la speciale attenzione,
che la legge n. 903 dedica alla serie di atti (e patti) ora ricordati, sollecita qualche
considerazione. Sulle discriminazioni nell’accesso al lavoro (art. 1) mi sono già
soffermata (retro, par. 6). Resta da esaminare, e lo farò più oltre
(infra, par. 9), lo speciale procedimento per la repressione
delle violazioni (atti e comportamenti) degli artt. 1 e 5, nonché la sanzione
inibitoria-restitutoria prevista dall’art. 15 L. n. 903. Vediamo dunque le
discriminazioni specificamente previste dagli artt. 2 e 3 L. n. 903, che, per la
mutilazione subita dall’art. 15, sono colpite dalla sanzione civile della nullità e
dalla sanzione penale dell’ammenda.
La sanzione penale non richiede alcuna specifica
considerazione in questa sede: l’inefficienza o addirittura l’inutilità di questi rimedi
(ammende, per di più, modeste) è un dato tanto noto agli esperti, quanto evidentemente
ignorato dal legislatore
[98]
.
Apre invece la strada alla riflessione la scelta
del legislatore di colpire colla sanzione della nullità le discriminazioni di cui agli
artt. 2 e 3, e altresì l’intera serie di discriminazioni che possono aver luogo durante
lo svolgimento del rapporto di lavoro. Alla regola fa eccezione ‒ a mio avviso ‒ il
licenziamento, che deve essere assoggettato al più complesso ed efficiente regime
sanzionatorio dell’art. 18 st. lav. (entro i limiti di applicabilità fissati dall’art.
35 dello statuto stesso). È questa una conseguenza della modificazione apportata, con la
legge n. 903, all’art. 15 st. lav., la quale implicitamente
al¶{p. 265}larga l’ambito di operatività dell’art. 18 st., fino a
ricomprendere ‒ oltre i licenziamenti nulli ai sensi dell’art. 4 L. n. 604/1966 ‒ anche
i licenziamenti (nulli) determinati da motivi di discriminazione sessuale.
[99]
L’art. 2 della legge n. 903 sanziona, per la
quarta volta nel nostro ordinamento
[100]
, la parità di retribuzione fra lavoratrici e lavoratori che svolgano un
lavoro eguale o di eguale valore. La formula utilizzata dal legislatore specifica quella
contenuta nell’art. 37 cost. (parità di retribuzione a parità di lavoro), senza tuttavia
discostarsene. L’alternativa presentata dalla nuova formulazione ‒ uguale lavoro o
lavoro di valore uguale ‒ è mutuata dalla direttiva C.E.E. 10 febbraio 1975, è non è
inutile né sovrabbondante. La più semplice formula scelta dai costituenti non aveva
impedito, come abbiamo visto (retro, cap. IV, parr. 1 c 2), che
permanesse la pratica del sottosalario femminile, agevolata dalla pratica contrattuale
(collettiva) di classificare separatamente le lavoratrici, ovvero di distinguere le
mansioni in maschili e femminili. Neppure aveva impedito che si dessero interpretazioni
restrittive della parità, riducendo il «lavoro» al «rendimento». La nuova definizione
delle condizioni per la parità salariale è diretta, intanto, ad eliminare i possibili
(ed interessati) equivoci; inoltre, essa interviene sull’anello debole di ogni
disciplina della parità salariale, cioè il valore professionale attribuito, nei
contratti collettivi e nei regolamenti degli enti pubblici, alle mansioni
tradizionalmente femminili. Il significato prescrittivo della locuzione «parità di
retribuzione per lavoro di eguale valore» è quello di imporre ai datori di lavoro
pubblici e privati, nonché ai sindacati, il raffronto tra i contenuti
tecnico-professionali delle mansioni (comunque classificate) svolte dalle lavoratrici e
i contenuti delle mansioni svolte dai lavoratori. Ciò, allo scopo di equiparare le
retribuzioni, laddove una diversa valutazione dei contenuti professionali celi una
discriminazione salariale. La consapevolezza della esistenza di strumenti contrattuali
idonei ad aggirare la prescrizione della parità salariale ha ispirato il II comma
dell’art. 2 L. n. 903, che impone criteri di classificazione unica fra uomini e
donne.
Nel nostro sistema contrattuale, la
classificazione unica è¶{p. 266} ormai consolidata per tutte le maggiori
categorie. È certe però che l’inquadramento unico non ha risolto (né poteva risolvere)
il problema della collocazione delle lavoratrici nei gradini più bassi della scala
professionale, e della «ghettizzazione» del lavoro femminile in alcune mansioni
dequalificate e ripetitive
[101]
. Gravano sulle condizioni di inferiorità delle lavoratrici le ragioni di
formazione professionale già ricordate. Ma sarebbe grave dimenticare che le radici della
dequalificazione e del sottoinquadramento della manodopera femminile vanno cercate
nell’organizzazione del lavoro e nell’uso capitalistico della forza lavoro. Il problema
della parità ‒ ha ribadito ancora di recente Maria Lorini
[102]
‒ si pone oggi su un terreno meno elementare di quello della vecchia
rivendicazione «parità salariale a parità di lavoro», perché sono divenute più chiare le
ragioni di fondo della utilizzazione delle lavoratrici nei posti meno qualificati, e nei
quali sono minori le possibilità di acquisire arricchimento professionale e livelli di
qualificazione più elevati.
La nuova maturazione del problema, merito anche
dell’art. 2 L. n. 903, pone al sindacato il compito urgente di procedere alla revisione
dei criteri, che hanno determinato una classificazione delle qualifiche e mansioni nei
settori tradizionali dell’occupazione femminile (come il tessile e l’abbigliamento)
sfavorevole, rispetto alla classificazione realizzata in altri settori, per i lavori
«maschili»
[103]
.
La realizzazione della parità salariale, nel
senso complesso che ha assunto coll’art. 2 L. n. 903, pone compiti nuovi anche ai
giudici. Per loro, l’applicazione dell’art. 2 non consiste solo nel recupero di quella
funzionalità antidiscriminatoria che già era propria dell’art. 37 cost., e che era
andata perduta nel momento in cui il dibattito sulla parità salariale si era concentrato
sulla questione del rendimento. Come non possono essere sottratte al giudizio, in nome
dell’autonomia privata, le clausole discriminatorie del contratto individuale
[104]
, così non si possono sottrarre al giudizio, in nome di un malinteso rispetto
dell’autonomia collettiva, le clausole dei contratti collettivi che ancora consentono di
praticare la discriminazione salariale, o diretta, o per la via mediata del «valore
professionale» delle mansioni.¶{p. 267}
Dall’applicazione piena dell’art. 2 discende la
nullità delle clausole contrattuali (individuali e collettive) e degli atti unilaterali
del datore di lavoro, che violino il principio della parità di retribuzione. L’accertata
nullità della clausola contrattuale o dell’atto unilaterale, che assegnino un
trattamento salariale ingiustamente differenziato, comporta l’attribuzione alla
lavoratrice discriminata della pari retribuzione dovuta. Tale risultato, trattandosi di
questione retributiva, è conseguibile mediante l’applicazione dell’art. 2099 c.c.,
secondo la collaudata esperienza giurisprudenziale in materia di giusta retribuzione
[105]
. Il risultato, malgrado ciò, è di rilevanza pratica modesta, perché l’azione
giudiziaria è individuale, mentre le discriminazioni retributive sono, in genere,
collettive (si pensi a quelle derivanti dall’inquadramento). Un rimedio potrebbe essere
rappresentato dall’utilizzazione dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori, se, come
generalmente si ammette, il sindacato ha interesse ad agire in materia di
discriminazioni (di ogni tipo) delle lavoratrici
[106]
. La possibilità di ricorsi ex art. 28 st. è tuttavia da escludere, quando le
disparità retributive conseguano al valore professionale attribuito alle mansioni nel
contratto collettivo, perché della condotta antisindacale non è responsabile,
nell’ipotesi, il datore di lavoro.
L’art. 3 della legge n. 903 vieta
ogni discriminazione tra uomini e donne in ordine all’attribuzione di qualifiche e
mansioni e alla progressione di carriera. Si tratta di una prescrizione sovrabbondante
rispetto all’art. 1 I comma
[107]
. Ma la sua funzione è probabilmente quella di segnalare che è questo il
campo delle più frequenti discriminazioni a carico delle donne. Il II comma dello stesso
art. 3 contiene (finalmente) una «discriminazione positiva» a vantaggio delle
lavoratrici: le assenze dal lavoro pre e post partum sono considerate attività
lavorativa ai fini della progressione di carriera. Naturalmente, c’è un’eccezione:
perché le assenze possano essere considerate attività lavorativa occorre che i contratti
collettivi non subordinino la progressione nella carriera a «particolari requisiti». Il
rinvio alla contrattazione collettiva apre problemi analoghi a quelli già affrontati nel
commenta agli artt. 1 IV comma e 5 II comma. Anche in questo caso,
la
¶{p. 268} possibilità, riservata alla contrattazione, di fissare
requisiti «incompatibili» con la prescrizione dell’art. 3 II comma, è uno spazio di
deroga. Le deroghe penalizzano, sia pure in via mediata, le lavoratrici madri, la cui
tutela legale è considerata, dalla costituzione in poi, un riconoscimento del valore
sociale della maternità. Quanto ai requisiti «particolari», basta pensare ai c.d.
accordi sulla professionalità, per rendersi conto che le eccezioni alla regola fissata
possono essere numerose. Tali accordi richiedono, infatti, a fini di progressione di
carriera, oltre la permanenza per un certo tempo in un determinato livello, anche
l’acquisizione di un effettivo arricchimento professionale: cioè l’effettivo esercizio
di determinate mansioni qualificanti
[108]
. Il II comma dell’art. 3 dimostra, una volta di più, che la parificazione
sostanziale delle lavoratrici avrebbe richiesto per loro, e solo per loro, più garanzie
e meno deroghe.
Note
[94] La mancata indicazione degli agenti contrattuali (i sindacati maggiormente rappresentativi di un qualche livello) distacca questa legge dalla tradizione legislativa di questo decennio: lo rileva T. Treu, loc. ult. cit.
[95] Sui rapporti tra contratti collettivi stipulati a diversi livelli, v. le osservazioni di P. Tosi e S. Mazzamuto, Il costo del lavoro tra legge e contratto, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, I, pp. 235 seg. valide anche nel caso che ci interessa. Sulla questione dell’eventuale obbligo del datore di lavoro a trattare con le (sole) r.s.a. cfr. i giusti rilievi critici di T. Treu, loc. ult. cit.
[96] Sulle discriminazioni linguistiche, presenti anche in Italia, v. L. Ventura, op. cit., p. 289.
[97] Per l’applicazione dell’art. 15 st. lav. al pubblico impiego v. E. Ghera, Atti e trattamenti economici collettivi discriminatori, cit., p. 427.
[98] C. Smuraglia, Le sanzioni penali nella tutela del lavoro subordinato, in Le sanzioni a tutela del lavoro subordinato, cit., pp. 59 seg. e specialmente pp. 64-67.
[99] Di diverso avviso ‒ mi è parso ‒ T.Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 13, p. 823.
[100] Retro, IV, parr. 1, 2. Sulla nuova formulazione della parità salariale, ispirata alla direttiva C.E.E. 10 febbraio 1975, v. L. Ventura, op. cit., pp. 292 seg.
[101] M. Lorini, Valutazione del lavoro e ruolo della donna oggi in Italia, in «Quaderni di rassegna sindacale», n. 54/55,1975, Donna, società, sindacato, p. 86.
[102] Legge di parità e iniziativa sindacale, cit., p. 49.
[103] Gli esempi più significativi vengono dal settore tessile, su cui v., da ultima, D. Giudici (a cura di), Tessili, in Aa. Vv., Organizzazione del lavoro e professionalità femminile, cit., pp. 83 seg.
[104] A risultati analoghi, ma per una diversa strada era pervenuto G. Cottrau, La tutela della donna lavoratrice, cit., pp. 58 seg., commentando l’art. 37 cost. Secondo l’a., solo il carattere immediatamente precettivo dell’art. 37 giustifica il diritto soggettivo delle lavoratrici alla parità di trattamento (salvo che ragioni di ordine fisiologico non legittimino la disparità di trattamento in senso sfavorevole); il principio della parità non potrebbe farsi discendere, invece, dall’art. 3, I comma, cost., il quale sancisce l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma non incide sull’autonomia negoziale.
[105] V. l’ampia rassegna giurisprudenziale contenuta nel voi. di G. Mazzoni, I rapporti collettivi di lavoro, 3a. ed., Milano, 1967, pp. 280 seg., alla cui redazione ho collaborato.
[106] V., per tutti, C. Rapisarda, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 15, p. 834. L’applicabilità dell’art. 28 alle discriminazioni per sesso era già stata sostenuta, prima dell’entrata in vigore della legge n. 903, da C. Assanti, La disciplina del lavoro femminile, cit., p. 35.