Sergio Brillante
«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c3
Colpisce, nel finale, che l’esaltazione dell’Italia sia limitata al valore dei lavori archeologici intrapresi e in effetti non si sfugge all’impressione che di fronte a questo nuovo pubblico, Wilamowitz sembri più cauto nell’esaltazione dell’attività italiana. Non solo essa è per lo più limitata all’abilità dei colleghi archeologi, ma non mancano dei passi in cui sembra farsi strada qualche sottile critica. Non è verosimilmente da annoverarsi fra queste il riferimento al malgoverno romano, che è invece il sintomo della classica critica wilamowitziana alle decadenti repubbliche. Altre sono le considerazioni che sembrano più decisamente an
{p. 134}dare nel senso di una valutazione non pienamente positiva dell’operato italiano. È il caso del trattamento riservato alla città di Derna, che Wilamowitz dice essere «lodata dagli Italiani come una località molto amena e promettente», anche se nell’antichità «essa è ricordata una sola volta con altri porti di mare» (p. 14, nota 1). E un’altra critica può ravvisarsi nel trattamento riservato alla descrizione degli abitanti locali. Nel corso del testo si dice ad esempio che i Libi dovevano già essere «giunti ad un elevato grado di civiltà», quando i Greci fondarono la loro colonia, come si desumerebbe dal fatto che questi ultimi ereditarono dagli antichi abitanti alcune parole e alcuni toponimi (p. 11). Tale affermazione suona come un appunto sfavorevole alla missione civilizzatrice italiana, rivolta verso un paese già civile. A dimostrazione di ciò, vi è il fatto che essa contraddice quanto detto nella parte iniziale del testo. Lì Wilamowitz aveva infatti affermato che «quando i Greci vi importarono la civiltà» quella regione era occupata da «nomadi [che] andavano errando nelle foreste». La rappresentazione è quasi opposta, ma si capisce che in questo luogo del discorso essa serve a sostenere la frase che segue subito dopo: «In non diversa condizione l’Italia ha trovato la regione, nella quale rinascerà nuova vita» (p. 9). Nelle parole introduttive, tradizionalmente cerimoniose, il filologo si lasciava andare a qualche stortura per rendere omaggio agli Italiani, i quali gli avevano garantito la «gioia» di un viaggio. Tuttavia, ben conoscendosi lo spirito anticlassicista del Wilamowitz il quale non a caso parla anche dei Greci colonizzatori come «ellenici Vichinghi», è legittimo pensare che sia la descrizione dei Libi quale è inserita nel corso del testo quella cui egli più intimamente dava credito. L’esposizione di argomenti linguistici a suo sostegno, al contrario dell’altra visione lasciata senza giustificazione, ne è la prova. Dando spazio ad entrambe le versioni, Wilamowitz tentava di non risultare ingrato, ma nello stesso tempo di non piegarsi eccessivamente al gioco.
La cornice era tuttavia già troppo orientata perché quelle velate critiche potessero trovarvi spazio e in Italia si diede grande rilievo alle attività svolte da Wilamowitz per la valo{p. 135}rizzazione del patrimonio archeologico cirenaico. L’articolo Africa Italiana balzò subito all’attenzione del Ministero delle Colonie che ne richiese una traduzione già il 17 novembre, e la «Rassegna Settimanale della Stampa Estera» ne diede un ampio riassunto con abbondanti citazioni [61]
. Anche la conferenza berlinese fu immediatamente portata all’attenzione del pubblico italiano attraverso il «Corriere della Sera» (16 novembre 1927). Tre giorni prima, peraltro, il quotidiano milanese aveva dato notizia della visita di Wilamowitz in un lungo articolo di Carlo Anti, che voleva essere un «bilancio» della campagna di scavi di quell’estate e che si soffermava anche sulla «continua esaltazione» dello studioso tedesco, il quale riconosceva «via via i luoghi descritti dai poeti a lui cari» [62]
. Su tempi più lunghi, la conferenza di Wilamowitz fu poi divulgata per mezzo della traduzione italiana integrale dell’opuscolo contenente il testo di quella conferenza, pubblicato in Germania nel 1928 e in Italia nel 1930. Gaspare Oliverio ne curò la traduzione e il libro, riccamente illustrato, entrò a far parte delle «Monografie a cura del Ministero delle Colonie» che si pubblicavano come supplementi alla rivista «Africa Italiana».
Una tale attenzione non era ingiustificata dal momento che anche in Germania gli scritti del Wilamowitz non mancavano di avere ampia risonanza. Già prima che ne venisse pubblicato l’opuscolo, un piccolo riassunto della conferenza berlinese era apparso sul «Lokal Anzeiger» del 16 novembre, ed era stato prontamente inoltrato al Ministero delle Colonie da parte dell’Ufficio Stampa del Ministero degli Esteri. Più corposi resoconti dell’evento furono poi pubblicati dal medesimo Wilamowitz, con titolo Die italienische Ausgrabungen in Kyrene, prima sul periodico degli insegnanti tedeschi «Forschungen und Fortschritte» e poi, da lì ripreso, sulla rivista bibliografica «Gnomon», di {p. 136}diffusione internazionale [63]
. La pubblicazione dell’opuscolo Kyrene, nel 1928, fu poi naturalmente seguita da una lunga serie di recensioni ammirate dalla capacità del filologo di trattare con tale rapidità e tale ampiezza l’intera storia di Cirene apparse su riviste di larga diffusione e di settore, tedesche e straniere [64]
.
Oltre ai suoi scritti era la stessa notizia del viaggio compiuto da Wilamowitz in Cirenaica che destava grande attenzione. Gli organi di stampa nostrani, in particolare, non si lasciarono sfuggire l’occasione di sottolineare così la grandezza dell’azione italiana, addirittura esaltata all’estero dai nemici di un tempo. Brevi cronache, ma con ampie fotografie, ne fornirono «Africa Italiana» e «L’Italia Coloniale». Ancora più in là si spinse la «Rivista delle Colonie Italiane», periodico ufficiale del Ministero delle Colonie diretto da Camillo Manfroni, sulla quale venne pubblicata una traduzione italiana dell’articolo Africa Italiana: «Esso contiene così simpatici apprezzamenti sull’opera coloniale nostra che ci è parso opportuno farlo conoscere ai nostri lettori» [65]
. Persino Teruzzi ricordò l’episodio come un momento importante del suo governatorato in una pubblicazione retrospettiva sul proprio operato in Cirenaica [66]
.

3.5. «Cirene deve diventare archeologica»

Oltre che dalla propaganda colonialista, il viaggio di Wilamowitz volle infine essere sfruttato anche dagli ar{p. 137}cheologi preposti agli scavi in Cirenaica, i quali, forti di quel successo, non solo chiesero maggiori fondi per le loro campagne ma cercarono anche di convincere le istituzioni a far sgomberare la cittadina di Cirene in modo da lasciare campo libero ai loro scavi archeologici. Si è visto che Wilamowitz aveva fatto cenno a questo tema sulla «Deutsche Allgemeine Zeitung» e la sollecitazione gli veniva certamente da quanto gli avevano riferito i colleghi italiani. Alla fine del 1927, Micacchi presentava infatti al Ministero una lunga relazione sullo stato degli scavi archeologici in Cirenaica ritenendo «fondamentale» la «creazione, in località adatta, della nuova Cirene, così da sgombrare degli edifici moderni la zona archeologica» [67]
. All’interno dell’antica cinta muraria vi erano nuovi edifici costruiti dagli Italiani con funzioni militari e pubbliche, ma vi erano anche le «baracchette private» in cui – secondo quanto scrisse Oliverio a Gaetano De Sanctis, sempre interessato agli sviluppi dell’archeologia libica – abitavano «numerosissimi rivenduglioli italiani, arabi, ebrei e cretesi che vivono naturalmente delle cinquine pagate dalle truppe». La maggioranza della popolazione (circa 2.000 persone) che abitava Cirene era però senz’altro costituita dalla locale comunità arabo-libica, presente sul luogo già prima dell’occupazione italiana [68]
. Questa era stata prima sconvolta dall’arrivo delle truppe italiane, ritrovandosi di fatto costretta a mutare abitudini di vita per trovare mezzi di sussistenza in attività di servizio al soldo dei nuovi padroni («non esiste in Cirene neanche una sola casa privata che non comprenda un negozio!»), e ora si voleva obbligarla a spostarsi in un luogo deciso dai comandi militari di concerto con gli archeologi che ne facevano {p. 138}richiesta. Oliverio propendeva per l’abbattimento di «tutte le baracchette private che si vedono in giro nella cinta delle mura, costringendo chi vuole avere una casa a costruirsela nella zona costruttiva a Sud del Commissariato» [69]
. A Cirene sarebbero dovute restare solo strutture ricettive, mentre a Derna si sarebbe dovuto creare un centro urbano più moderno in modo che «il viaggiatore, che può spendere, sarebbe attratto dalle antichità di Cirene, ma andrebbe poi a giocare ed a divertirsi a Derna».
L’idea rimase un chiodo fisso per gli archeologi italiani, che, nel 1930, «dopo tre anni di lotte» [70]
, riuscirono finalmente a destare l’interesse delle istituzioni. Per realizzare tale obiettivo si fece allora appello a Rodolfo Graziani, che entra in relazione con Oliverio e si dedica con energia al progetto dalla fine del 1930, come risulta dal seguente suo telegramma del 3 dicembre:
Desidero che venga affrontato subito con ogni decisione lo sgombero di tutte le famiglie arabe dalla necropoli nord et che sia ripulita da tutte le sporcizie et mai più abitata da chicchessia stop Annetto a questa questione la stessa importanza che do alla sconfitta di un dor [termine utilizzato per designare i villaggi dei ribelli] poiché si tratta di eliminare una manifestazione di barbarie che ci ucciderebbe di fronte agli escursionisti stranieri che giungeranno tra poco et ai moltissimi altri che intendo fare affluire at Cirene stop Nessuna difficoltà dunque di alcun genere et al lavoro immediato [71]
.
{p. 139}
Note
[61] «Rassegna Settimanale della Stampa Estera», 2, 15 novembre 1927, n. 46, pp. 3113-3114. La traduzione italiana per il Ministero si ritrova invece in ACS.
[62] C. Anti, Bilancio di una campagna di scavi, in «CdS», 13 novembre 1927, p. 3.
[63] «Forschungen und Fortschritte», 3, 10 dicembre 1927, pp. 273-274; «Gnomon», 4, 1928, pp. 54-56.
[64] La Ulrich von Wilamowitz Bibliography 1867-2010, Berlin, Weidmann, 2012, n. 798, segnala ben sette recensioni, cui occorre aggiungere anche quella di G. Glotz, in «Revue des Études Grecques», 1929, pp. 467-468.
[65] U. von Wilamowitz-Moellendorf [sic], Africa italiana, in «Rivista delle Colonie Italiane», 2, marzo-aprile 1928, pp. 291-296 (titolo precedentemente ignoto alla bibliografia dello studioso).
[66] A. Teruzzi, Cirenaica verde. Due anni di governo, Milano, Mondadori, 1931, pp. 306-308.
[67] Nello scritto di Wilamowitz d’altronde ricorrono anche altre considerazioni che sembrano provenire dalla voce di Micacchi, come quelle relative alla futura linea ferroviaria Bengasi-Cirene o alla necessità di sapersi servire delle rovine per sfruttare i flussi turistici. Sull’uso della visita e degli scritti di Wilamowitz al fine di realizzare «Cirene archeologica», cfr. A. Piccioli, La nuova Italia d’Oltremare, Verona, Mondadori, 19342, p. 1238, n. 1.
[68] Questa la cifra offerta dalla Guida d’Italia del Touring Club Italiano. Possedimenti e Colonie, cit., p. 489.
[69] Accame, Halbherr e De Sanctis pionieri, pp. 221-222 (corsivo nel testo).
[70] Ibidem, p. 215. Oliverio intende naturalmente riferirsi solo al periodo di maggiore intensificazione di tale rivendicazione, iniziato quindi esattamente con la visita di Wilamowitz. Già nel 1924 Federzoni aveva approvato l’idea dello spostamento dell’abitato moderno e si era dato l’incarico ad Anti e all’architetto Marcello Piacentini di trovare una nuova sistemazione. I due proposero Ain Hofra, ma il progetto cadde poi nel vuoto. Su ciò cfr., oltre alla «relazione Micacchi» (supra, nota 6), anche Goodchild, Don Gaspare, cit., p. 309 e B. Attiya et al., La scoperta di Cirene nel periodo postbellico, in M. Luni (a cura di), Cirene e la Cirenaica nell’antichità, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2010, pp. 9-19: 12.
[71] Accame, Halbherr e De Sanctis pionieri, pp. 216-217; cfr. pp. 228-229 e Id., Nuove lettere, pp. 214-216.