«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/p2
Introduzione
Si narra che Medusa fosse capace di pietrificare qualunque essere mortale su cui posasse lo sguardo. La vista non era per lei organo di senso e analisi del reale, ma arma da impiegare ai danni dell’altro. Il medesimo genere di potere fu dato all’ideologia coloniale italiana dalla storia dell’antichità, conoscenza utilizzata come filtro deformante per guardare ai popoli colonizzati e immobilizzarli in un’immagine fissa. La loro caratterizzazione come degli «immoti» è un luogo comune cui ricorrono fra Otto e Novecento i vari autori delle descrizioni di paesi africani oggetto delle mire espansionistiche italiane. L’osservazione diretta non si traduceva in un acquisto di conoscenza, ma nella conferma di uno stereotipo già definito nell’Antichità e che assecondava una ben precisa aspirazione. I popoli del continente africano, percepito come insieme geo-etnografico unitario privo di differenze al suo interno, figuravano in tali rappresentazioni come dei barbari che ancora corrispondevano alla descrizione fattane da Erodoto nel V sec. a.C. Subendo un uso aggressivo delle conoscenze ereditate dall’età classica, diventavano cioè genti senza storia né capacità di sviluppo, votate alla sottomissione.
Il posto di primo piano assegnato alla storia antica spiega anche la disparità di trattamento fra i differenti possedimenti dell’oltremare italiano. Il Dodecaneso, in particolare, non fu mai considerato una colonia, cioè un territorio sottoposto al Ministero delle Colonie, in virtù del «grado elevato di civiltà della [sua] popolazione», come scrisse Umberto Borsi nella voce Colonia dell’Enciclopedia Italiana (1931), riferendosi chiaramente alla discendenza dagli antichi Greci. Differentemente, l’identità culturale degli abitanti delle regioni africane venne completamente annichilita, per essere poi nuovamente forgiata e assimilata ¶{p. 12}a quella del sottomesso. La loro storia venne cioè artificialmente ridotta ai momenti di contatto avuti con la Grecia e la Roma antiche e poi globalmente giudicata rispetto a quel metro di paragone, facendo quindi apparire come decadenza e barbarie tutto ciò che ne restava fuori. Conoscendo le vette raggiunte dal pensiero greco-romano e avendo, per converso, una conoscenza tutt’al più approssimativa e superficiale di altre culture, si imponeva anche alle colonie il dogmatico primato della civiltà classica, già operante in patria. Si tratta chiaramente di una teoria aprioristica che si regge su due malfermi pilastri. Il primo consiste nella convinzione della superiorità di certe realizzazioni della cultura antica, filosofia greca e diritto romano in testa, in virtù della loro «modernità». Considerato storicamente, questo argomento ha valore solo come espediente retorico, una sorta di accattivante hysteron proteron per cui si considerano straordinariamente attuali la filosofia e la giurisprudenza antiche, senza considerare che il sapere moderno è appunto basato su quello antico ed è per questo che vi risponde così esattamente. L’altro pilastro è poi costituito dal presupposto non dimostrabile dell’esistenza di una gerarchia di civiltà, una teoria che – per riprendere le parole di Vico – può avere valore solo per chi voglia «vivere nella repubblica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Romolo». Sul piano del continuo movimento storico e adottando una prospettiva di lungo periodo non può cioè essere considerata probante una rappresentazione che fissi gruppi umani in immagini statiche e predefinite.
Il Classico fu quindi fondamentale nella retorica colonialista e il suo essere, almeno genericamente, una conoscenza condivisa da parte dell’intera popolazione italiana ne permise un uso trasversale in vari ambienti sociali. Non mancano di intervenire nel dibattito coloniale, utilizzando argomenti tratti dalla storia antica, membri delle classi colte di città e di provincia, alte gerarchie politiche e anche ufficiali militari che cercano nelle guerre antiche degli exempla da adottare nel presente, giungendo invariabilmente a concludere che l’uso della forza senza limiti era la chiave già adottata nell’antichità per trionfare ¶{p. 13}sui popoli africani. Nonostante la pluralità di voci furono però gli antichisti di professione coloro che, per la loro posizione di responsabilità e la capacità di esprimersi anche in contesti rivolti a un largo pubblico, si fecero principali mediatori di queste immagini dell’Antico utili a legittimare annessioni ideali di terre che si ritenne essere state sottoposte all’influenza greco-romana già in passato. Tale costruzione si mostrava piuttosto facile se applicata alla Libia, occupata dai Greci e poi conquistata e amministrata dai Romani, ma risultava più difficile da giustificare nel caso dell’Africa orientale. Gli antichisti si servirono allora delle loro conoscenze per dimostrare la forte dipendenza anche di queste regioni dalla cultura greco-romana. Si esagerò oltremodo l’importanza di un piccolo corpus di fonti classiche, che testimoniava l’esistenza di semplici contatti con queste regioni, arrivando addirittura a coniare l’etichetta di «Abissinia mediterranea» (Pasquali), al fine di legittimare la guerra d’Etiopia. Questa campagna militare fu pertanto interpretata retoricamente come una positiva «riconquista» di territori imbarbaritisi dopo essere stati tagliati fuori dalla civiltà mediterranea, id est greco-romana, che per un periodo era riuscita a portarvi i benefici della propria cultura attraverso la via del Nilo.
Nel tentativo di analizzare i casi in cui la storia greca e romana fu piegata a strumento di violenza bisogna quindi fare i conti con rappresentazioni falsate, manipolazioni che costruiscono stereotipi deformanti anzitutto delle popolazioni straniere e dell’Antico, ma, in secondo luogo, anche dello stesso colonizzatore. Nutrendo la propria ideologia coloniale di storia antica, infatti, l’Italia non solo si precluse la possibilità di una efficace conoscenza dei territori stranieri, ma nel contempo immobilizzò anche sé stessa. La posa in cui si figurava fissa era quella certamente lusinghiera della dominatrice del mondo ereditata da Roma, ma, in quanto statuariamente immobile, era anche inadatta ad agire con efficacia nella realtà. L’Italia si legittimava ad esempio come paese che nel suo passato romano era stato in grado di vincere l’inospitale ambiente nordafricano e rendere la Libia un paese florido quanti altri mai, creando così l’illusione ¶{p. 14}che bastasse riprodurre le strategie messe in atto in quel passato per ottenere i medesimi risultati. Non era questo solo un abbaglio retorico utile a mobilitare il ventre del paese, ma una convinzione realmente percepita dagli stessi esperti di agronomia, geografia e geologia che si espressero negli anni della guerra libica. Sono loro che, nel 1911-1912, si dedicano con energia alla rievocazione di brani di autori antichi o alla lista dei resti archeologici romani, sostenendo di dover ripercorrere quelle orme già impresse sul territorio africano. Persi in questo miraggio, non si resero conto che più utile a una vera conoscenza delle possibilità agronomiche del territorio sarebbe stata l’organizzazione di una missione scientifica, realizzatasi solo nel 1913, quando la conquista era ormai avvenuta.
Nel corso della guerra d’Etiopia, la storia romana alimentò invece una ben precisa retorica di potenza, sapientemente incoraggiata dallo stato fascista che voleva così guadagnarsi un posto di primo piano di fronte alle altre nazioni coloniali europee. Il risultato ottenuto dalle politiche di quegli anni fu però soltanto quello del progressivo isolamento della nazione colpita dalle sanzioni e sempre più incline a rinchiudersi nel mito dell’autarchia.
L’autorappresentazione che però fu più attentamente coltivata dal colonialismo italiano fu quella del paese civilizzatore. Diversamente dalla plutocratica Francia o dall’Inghilterra «cartaginese», l’azione italiana vantava di avere un fine ideale e non economico; con Roma trionfava la civiltà. Questo impedì di leggere le guerre coloniali come guerre di aggressione e permise di derubricare ogni atto giudicato troppo violento, secondo canoni cangianti a seconda del periodo, al rango di degenerazione, conseguenza accidentale o deviazione da una missione altrimenti improntata al bene. Questa deformazione della realtà ebbe effetti notevoli, peraltro, su quanti vollero opporsi alle politiche coloniali italiane. Non mancarono infatti figure assestate su tali posizioni – con buona pace dei giustificazionisti ad ogni costo secondo i quali «un tempo era normale» essere a favore dell’espansione oltremare –, ma anche queste non riuscirono mai a criticare il colonialismo in sé, rivolgendosi, ¶{p. 15}al più, contro le singole politiche coloniali intraprese dall’Italia. La convinzione di una rigida gerarchia culturale con al vertice i paesi eredi della tradizione greco-romana influì nell’immobilizzare anche tali personaggi, negando loro una reale capacità di azione.