«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c1
Capitolo primo Un obelisco per Dogali fra le Termopili e il Cremera
Abstract
Il saggio esamina il rapporto tra storia antica e ideologia coloniale italiana, approfondendone le conseguenze. Questo primo capitolo si concentra sulla descrizione della tragedia di Dogali e la mitizzazione dei suoi caduti. Il processo avviene attraverso l'analogia storica con due noti episodi della storia antica: l'eroica resistenza dei trecento spartani alle Termopili e l'epica battaglia avvenuta sul fiume Cernera tra i trecentosei membri della gens Fabia e i Veienti.
«Io gusto poco Roma antica, la grandiosità delle vecchie pietre…»«Oh non dica così…»In fondo, era d’accordo con lui; ma le pareva che stesse bene mostrarsi un poco scandalizzata.
Il 22 febbraio 1887, quando il piroscafo
San Gottardo entrò nel porto di Napoli trasportando i feriti di
Dogali, la folla era in trepida attesa. La notizia della disfatta subita dagli Italiani in
terra africana il 26 gennaio era stata inizialmente comunicata in maniera confusa, ma fra il
6 e il 7 febbraio la dinamica dello scontro era stata chiarita grazie alla diffusione del
rapporto di Carlo Genè, generale di stanza in Abissinia. Si venne allora a sapere di come
alcuni reparti dell’esercito italiano, per un totale di poco più di 400 soldati, erano stati
presi d’assalto dalle truppe di Ras Alula nel corso di una manovra di spostamento. L’intera
colonna era stata sconfitta, lasciando circa duecento morti sul campo.
Fino a quel momento l’euforia coloniale
era rimasta circoscritta a certi ambienti mercantili e ai membri più accesi delle cerchie
africaniste, senza avere avuto larga presa sulla popolazione. Fu, tuttavia, proprio l’arrivo
di quei soldati e la pronta glorificazione di quelli che presto divennero i «martiri» e gli
«eroi» di Dogali a far pendere la bilancia nell’altro senso. Al risultato contribuirono
gesti istituzionali dal forte impatto, come la raccolta fondi per le famiglie dei caduti,
patrocinata dal re Umberto I in persona, o la celebrazione, con ampio dispiego del
tricolore, di esequie pubbliche per i soldati scomparsi. Più di tutto, però, fu lo
sfruttamento retorico del conflitto a ¶{p. 18}rendere quell’evento la
colonna su cui avrebbe poggiato per anni l’intera impalcatura ideologica del colonialismo
italiano. Notizie sui fatti di Dogali, biografie degli ufficiali caduti, continui
riferimenti alla barbarie abissina affollano le pagine degli organi di stampa fra febbraio e
marzo. Al fine di adattarsi meglio a una narrazione che si addicesse all’eroismo dei
soldati, i contorni stessi della battaglia sfumarono negli inverosimili toni di un’epica
continuamente raccontata, che ad ogni nuova messa in scena aumentava i dettagli e rinforzava
la sua capacità affabulatoria. Il numero dei componenti del battaglione fu presto portato
alla cifra tonda di cinquecento soldati, quello dei sopravvissuti azzerato. Gli Italiani
sarebbero rimasti fermi di fronte all’orda abissina, resistendo fino a compiere il
sacrificio estremo. I corpi dei caduti rimasti sul campo di battaglia, deturpati dal nemico,
sarebbero stati ritrovati «in ordine come fossero allineati». Così si espresse il capitano
Tanturri nel suo resoconto degli eventi, con parole del tutto inadatte a descrivere
realisticamente l’accaduto, ma presto assurte a motto del fiero comportamento dei soldati
italiani. L’amplificazione retorica fu talmente pervasiva che l’evento divenne mito e
attraverso di esso l’Italia scoprì la sua identità coloniale.
Facendo leva sul riguardo dovuto
all’esercito e ai caduti, mutò l’atteggiamento della popolazione di fronte alla politica
coloniale italiana e alcuni elementi presenti in occasione dello sbarco dei feriti a Napoli
mostrano il cambiamento del paradigma. Anzitutto, vi è la folla, una turba di trecentomila
persone estasiate, che si adegua obbediente all’ordine di fare silenzio per non turbare
ulteriormente i già fragili reduci al momento del loro passaggio in strada. La maggioranza
del paese mostrava così di sostenere ormai la presenza italiana in Africa, anche se non
mancavano gruppi di avviso diverso. Il dissenso in effetti esisteva, ma, a partire da
allora, poté essere espresso solo con molte cautele, pena l’essere equiparato a un affronto
contro l’onore della nazione e il prestigio del suo esercito. E, sebbene Andrea Costa
qualificasse proprio tali elementi quali «frasi altisonanti» pronunciate «per far passare la
merce molte volte avariata»
[1]
, la posizione dei ¶{p. 19}socialisti non solo sarà nettamente
minoritaria, ma inizierà a indebolirsi proprio in quel frangente. Mancava infatti la
capacità di reagire alle accuse di antipatriottismo e di scarsa considerazione per i
«piccoli eroi» di Dogali che tali tesi si portavano dietro
[2]
.
A dimostrare la compatta unione del
paese di fronte alla tragedia di Dogali vi è poi il sostegno della Chiesa, elemento
completamente nuovo nell’Italia del Non expedit. A fianco alle autorità
politiche, al porto di Napoli era presente anche il cardinale Sanfelice che benedisse i
feriti, prima che questi fossero accompagnati all’Ospedale della Trinità. La Chiesa iniziò
così a cambiare il suo atteggiamento inizialmente critico nei confronti delle battaglie
africane, preparando in tal modo il terreno alla auspicata conciliazione con lo Stato
italiano che proprio in quell’anno sembrava doversi realizzare. La sintonia fra autorità
politiche ed ecclesiastiche permise l’organizzazione nei vari comuni d’Italia di funzioni
funebri in ricordo dei concittadini caduti. Si trattò di liturgie pubbliche dal forte
impatto emotivo, accompagnate da discorsi solenni per mezzo dei quali il tema della presenza
italiana in Africa giunse nelle realtà cittadine e nelle aree provinciali dell’intera
nazione.
1. L’invenzione dell’Italia coloniale: epitaffi per i caduti
In un testo che ha segnato un
momento importante nella storiografia sull’Atene classica, Nicole Loraux si concentrava
sull’analisi degli epitaffi per i caduti che si tenevano regolarmente nella città greca.
La studiosa mostrava che, facendo leva sul sentimento emotivo di tali occasioni, si
stabilizzavano nei discorsi funebri dei topoi ricorrenti che la
città via via introiettava come i propri valori cardine. In quelle occasioni, insomma,
si «inventava» Atene.
Qualcosa di sostanzialmente simile
accadde in Italia fra la seconda metà di febbraio e la prima metà di marzo
¶{p. 20}del 1887. L’Africa, che fino ad allora era stata una terra
lontana, tutt’al più dal fascino esotico, divenne viva fonte di interesse e oggetto di
un desiderio mascherato, a seconda delle circostanze, sotto le forme del dovere civile,
della necessità di vendetta o dell’esigenza di trovare uno sfogo alla difficile
situazione interna. Ben più che il fatto stesso di Dogali, sono le celebrazioni che si
tennero per i feriti e le commemorazioni dei caduti a generare questo spostamento. Gli
oratori che, nelle «cento città» d’Italia, presero la parola per elogiare i soldati
morti eroicamente sul campo ebbero a loro disposizione un arsenale retorico già
approntato dalla stampa, ma saranno proprio loro a completarne la diffusione nell’intera
penisola, potendo raggiungere anche strati sociali normalmente esclusi dalla lettura dei
quotidiani. Alcuni temi si imposero allora all’opinione pubblica con una tale insistenza
da diventare certezza condivisa e fornire una lettura nazionale omogenea dell’evento. I
caduti di Dogali erano stati degli eroi, capaci di combattere fino allo stremo contro un
nemico infido. Ad essi erano stati negati la vittoria e il ritorno in patria, ma fu
concessa la gloria, per riprendere le parole adoperate da Giovanni Pascoli in una coppia
di versi scritta in greco antico e utilizzata per la composizione di una cartolina
illustrata a commemorazione dell’evento
[3]
.
Tale processo di mitizzazione dei
caduti passa naturalmente anche attraverso l’analogia storica e in particolare
attraverso il riferimento a due episodi maggiori della storia antica: la eroica
resistenza dei trecento spartani di fronte all’invasore persiano alle Termopili nel 480
a.C. e la non meno epica battaglia ingaggiata nel 477 a.C. dai trecentosei membri della
gens Fabia sul fiume Cremera contro l’esercito etrusco dei
Veienti. Da un lato, vi è dunque un conflitto che nasce per esigenze di difesa contro i
Persiani, i barbari per eccellenza, che minacciano di imporre alla Grecia il loro potere
politico e i loro dissoluti modi di vita. Dall’altro, un episodio militare che nasce
invece dal tentativo di espansio¶{p. 21}ne dei Romani nella penisola, ma
che è presentato come il risultato di un attacco proditorio scagliato dagli Etruschi,
altro popolo considerato inferiore sul piano morale e civile; etrusco era infatti
Tarquinio il Superbo, il re che aveva violentato Lucrezia e dalla cui destituzione era
nata la repubblica romana. L’analogia si sprigiona naturalmente da quelli che sono gli
aspetti militari che in maniera più immediata accomunano i tre conflitti – piccolo corpo
di soldati-eroi di fronte a un esercito di gran lunga più imponente –, ma si porta
dietro anche la caratterizzazione ideologica degli episodi antichi, facendo di Dogali
uno scontro di civiltà e un atto eroico svolto in difesa
dell’Italia.
Tali furono gli episodi storici
maggiormente rievocati nel corso dei funerali svoltisi per commemorare i caduti in terra
d’Africa ed è possibile avere un’idea molto precisa dei toni e dei temi cui allora si
fece ricorso grazie alla pronta pubblicazione delle orazioni funebri. Opuscoli
contenenti tali discorsi proliferarono al punto da costituire un piccolo genere
letterario a sé stante, con i suoi luoghi comuni e le sue immagini ricorrenti
[4]
. Un numero considerevole di tali scritti fu poi prontamente raccolto
all’interno del volume Dogali e l’Italia, pubblicato a Napoli
(Stab. Tip. Ferrante) in quello stesso anno per le cure di Augusto De Cesare e Augusto
Pulce Doria. Non si saprebbe dire molto di costoro, ma più noto è l’autore della nota
introduttiva al volume, Rocco De Zerbi. In quel testo, il fondatore de «Il Piccolo»,
deputato vicino alla Destra e acceso sostenitore dell’espansionismo italiano, non si
sottrasse al gioco dell’analogia, elogiando la «memoria di quei forti che seppero far
rivivere le gesta delle Termopili». Del resto, nel giorno dell’arrivo dei feriti a
Napoli, egli stesso si era già servito anche dell’altro riferimento storico più in voga
e parlato dei reduci come «pronipoti dei Fabii», richiamando anche dei versi attribuiti
a Tirteo secondo cui il valoroso «è pari a’ semidei»
[5]
.
¶{p. 22}
Note
[1] APCD, 3 febbraio 1887, pp. 2018-2019.
[2] L’espressione «piccoli eroi» fa da titolo a un fortunato articolo di Matilde Serao («Corriere di Roma», 21 febbraio 1887).
[3] A. Traina e P. Paradisi (a cura di), Appendix Pascoliana, Bologna, Pàtron, 20082, n. 14 (εἴθε μὲν ἀμφότερον νίκην καὶ νόστον ὀπάζοις / εἰ δ’ἕν, Ζεῦ, δώσεις κῦδος ὄπαζε μόνον).
[4] Un elenco vasto, ma ancora incompleto, è in G.C. Stella, Dogali (26 gennaio 1887), Ravenna, G.C. Stella, 1987.
[5] Testo pubblicato su «Il Piccolo» e riprodotto in C. Antona-Traversi, Sahati e Dogali, Roma, Antona-Traversi, 1887, p. 93; cfr. P. Vigo, Annali d’Italia. Storia degli ultimi trent’anni del secolo XIX, Milano, F.lli Treves, 1911, vol. V, p. 18. Il testo poetico evocato è oggi attribuito a Callino (fr. 1 West). Sull’uso di Tirteo, cfr. anche infra, nota 11.