«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c2
Capitolo secondo «Falsificazioni tripoline»
Abstract
Il capitolo inizia presentando le motivazioni alla base della retorica coloniale, che insistevano sulla necessità e sulla presunta legittimità storica dell'espansione italiana nei territori nordafricani. In seguito, dopo la presentazione di alcuni pareri tecnici dell'epoca, vengono discusse le idee e le convinzioni di vari intellettuali a riguardo, soffermandosi in particolare sulle posizioni espresse da Gaetano Salvemini e Achille Coen.
E si poteva, in Italia, essere, da socialisti, contro la guerra in Libia: ma a pena di sentirsi come reprobi, come esclusi da una festa in cui allo sventolare delle bandiere e del piumaggio dei bersaglieri, al vibrare degli ottoni delle bande, allo splendore di tutti gli orpelli patriottici e risorgimentali, sovrastavano echeggianti Le canzoni delle gesta d’oltremare.
Se un’infiammata colonialista aveva
colpito gli Italiani dopo Dogali, la sconfitta di Adua segnò un momento di silenzio e di
ritiro generalizzato su posizioni più prudenti, chiudendo la strada ad ulteriori progetti di
espansione. Il velo steso su quell’argomento fu sollevato solo diversi anni dopo e per opera
di politici e intellettuali che avevano vissuto quella disfatta nell’impotente irruenza dei
loro vent’anni. Tale sentimento fu abilmente sfruttato dai rappresentanti del nascente
movimento nazionalista italiano, il cui giornale, «L’Idea Nazionale», pubblicò il suo primo
numero proprio nel quindicesimo anniversario di Adua, e dalle cerchie di banchieri e
affaristi, che, già stanziate nei territori d’oltremare, videro nell’espansione italiana una
possibilità di aumentare i loro profitti.
Di questo rinnovato clima politico
poterono subito giovarsi gli studiosi italiani. Pur avendo per anni rincorso la possibilità
di inviare una missione archeologica nella regione libica, solo nel 1910 Federico Halbherr,
tenace promotore di questo genere di iniziative scientifiche, riuscì ad
ottener¶{p. 56}ne finalmente il permesso e i finanziamenti
[1]
. Qualcosa era repentinamente cambiato nella politica italiana al punto da far
comprendere alle classi dirigenti l’interesse di un’azione diretta verso quel territorio,
che potesse servire la scienza tanto bene quanto la politica. Il fine della spedizione,
diretta dal medesimo Halbherr insieme a Gaetano De Sanctis, era, infatti anzitutto quello
archeologico, ma gli stessi promotori sapevano, ed accettavano entusiasticamente, che le
loro esplorazioni sarebbero servite anche a fini di ricognizione del territorio e alla
creazione di legami pacifici con alcuni rappresentanti delle élite locali. «In quegli anni –
ricorderà molto tempo dopo De Sanctis – per preparare il terreno alla nostra
espansione in Cirenaica e in Tripolitania, vi furono spedite missioni
commerciali e scientifiche»
[2]
.
La loro missione fu in realtà di breve
durata ed ebbe carattere soprattutto preliminare; sarà soprattutto la missione archeologica
successiva a raccoglierne i frutti. Tale nuova spedizione, condotta ancora da Halbherr, ma
questa volta in compagnia di Salvatore Aurigemma e Francesco Beguinot, ebbe infatti un’eco
senza pari sulle riviste italiane, sia per l’importanza delle scoperte sia per il fatto di
essersi accavallata all’impresa militare e, quindi, alla continua discussione di tematiche
legate alla Libia su tutti i giornali. Si aprì in tale maniera la strada alla curiosità del
pubblico per quelle rovine libiche che costituivano il simbolo della grandezza dell’antica
potenza romana
[3]
. ¶{p. 57}
1. Motivi della retorica coloniale
«Anche là è Roma» disse Pascoli
icasticamente in un momento del suo discorso La grande proletaria si è
mossa (26 novembre 1911). Egli sintetizzava così un’idea che aveva ormai
larga diffusione sul territorio nazionale per merito di pubblicisti di orientamento
nazionalista e filocoloniale. L’impressione destata dai nuovi ritrovamenti archeologici
fu infatti variamente utilizzata per insistere sulla necessità e sulla legittimità
storica dell’espansione coloniale italiana. Come è stato ormai ampiamente messo in luce,
quelle rovine dimostravano l’antica presenza romana, e ipso facto
italiana, in quella regione, dando così il destro alla presentazione retorica
dell’intervento italiano in Libia come un «ritorno» dell’Italia nei suoi antichi possedimenti
[4]
.
Enrico Corradini, Domenico Tumiati,
Gualtiero Castellini si dedicarono con impegno a sottolineare la pervasività della
traccia romana in ogni angolo della Libia. Descrizioni idealizzate dell’arco di Marco
Aurelio a Tripoli o dei resti romani visibili in ogni angolo della regione occuparono le
¶{p. 58}pagine dei loro resoconti di viaggio. Tali resti archeologici
dimostravano l’efficacia dell’azione civilizzatrice romana e il conseguente diritto
storico dell’Italia a riprendere le fila di quella missione avviatasi già in età antica.
Dall’altro lato, poi, il fatto che quelle rovine fossero sepolte dalla terra o tenute in
scarsa considerazione dalle popolazioni locali era il segno della loro inadeguatezza ad
abitare quelle regioni, un tempo feraci e culturalmente avanzate
[5]
.
Vista l’insistenza sulla necessità
di una colonia per trovare uno sfogo ai flussi migratori italiani nel discorso politico
coevo, non sorprende che tale immagine «antichizzata» del territorio libico si trovi
spesso applicata al paesaggio agrario. Secondo Tumiati, allo stesso modo in cui il
viaggiatore ritrova in Libia «una pietra dei nostri padri» in ogni luogo in cui «batta
il piede», così, «dovunque gira, lo sguardo si arresta sulle capigliature cupe degli
ulivi millenarii, avanzi dell’antica cultura romana»
[6]
. Questo albero diviene per i colonialisti il simbolo della trionfante opera
di civilizzazione compiuta dai Romani sul difficile ambiente desertico e i suoi
primitivi abitanti. Non a caso, nei resoconti del tempo si insiste molto anche sulla
presenza nel territorio di alberi di olivastro, considerati come prodotto della
degradazione subita dagli olivi romani non più curati dalle pigre popolazioni libiche. I
viaggiatori indugiano quindi nelle descrizioni di queste piante con accenni carichi di
amarezza, ma anche pieni di speranza per un futuro rinnovamento.
In quanto albero nato miticamente
per volontà di Atena, l’olivo permetteva peraltro a un livello simbolico di ricollegarsi
anche alla storia dell’antica Grecia. L’esperienza di quest’altro popolo antico non
poteva infatti essere ignorata. Se Tripoli poteva essere celebrata come regione di
nascita di un imperatore romano di rilievo quale Settimio Severo, la Cirenaica era
famosa soprattutto come terra di poeti, filosofi ¶{p. 59}e scrittori di
lingua greca. La necessità di recuperare anche la storia greca nel discorso coloniale
italiano si rendeva quindi necessaria. Alcuni, come Giacomo De Martino, provarono a
integrarvela sostenendo che nell’antichità si fosse di fatto realizzata una fusione fra
i due popoli che rendeva i risultati positivi conseguiti dall’una anche delle conquiste
per l’altra. Con Roma che sconfigge Cartagine «trionfava altresì Cirene contro
l’antichissima emula» e «i ruderi confusi delle due civiltà [che] spuntano qua e là, nei
campi della desolazione» sarebbero sia greci che romani, «come se l’opera delle due
civiltà si fosse fusa insieme»
[7]
.
Più frequente fu tuttavia un’altra
risposta, consistente nell’accogliere all’interno dell’identità coloniale in costruzione
tanto la storia greca quanto la romana, separandone però nettamente le funzioni. Alla
Grecia si dovevano le realizzazioni artistiche e lo sviluppo di una fiorente vita
intellettuale nell’ambiente cirenaico, mentre a Roma si doveva la vera e propria opera
di conquista e civilizzazione; e si intende bene quale delle due operazioni avesse la
meglio nei confronti che venivano istituiti. Il fatto stesso che Roma avesse in un certo
momento annesso ai suoi territori Cirenaica e Tripolitania bastava da solo a rendere
ragione della sua preminenza e a fungere da esempio per gli eredi di quella civiltà che
ora ne rinnovavano le imprese militari. In tale costruzione, peraltro, si riusciva anche
a recuperare l’opzione della «fusione» armonica delle due civiltà antiche, sottolineando
quanto Roma avesse fatto del proprio potere politico-militare lo strumento attraverso il
quale diffondere universalmente il pensiero e l’arte greci; era nell’incontro dei due
popoli che si realizzava quella tradizione greco-romana, considerata pietra angolare
della civiltà europea. Si tratta di una soluzione in realtà già messa a frutto nella
storia culturale italiana e che già si ritrova, ad esempio, in alcune pagine di Pasquale Villari
[8]
, ma essa sarà anche molto
¶{p. 60}presente nel dibattito
coloniale. È ancora nelle parole dei poeti più noti dell’epoca che si può ritrovare la
sintesi del comune sentire. D’Annunzio, comodamente sistematosi a Parigi per sfuggire ai
suoi creditori, così recita nella sua Canzone d’oltremare: «Ch’io
sogni il greco sogno di Cirene / sotto l’arco del savio Imperatore / sgombro della
barbarie e delle arene, / schiuso al Trionfo, mentre dalle prore / splende la pace in
Tripoli latina, / recando i dromedarii un sacro odore»
[9]
. Alla Grecia si lega cioè il mondo irrazionale del «sogno», mentre a Roma
quello della forza militare e del diritto quale garanzia di sapiente amministrazione (il
«savio Imperatore»)
[10]
.
Note
[1] Per i tentativi di organizzare una spedizione in Libia fra 1901 e 1902, in concomitanza con una situazione geopolitica favorevole, cfr. i documenti del tempo pubblicati in Accame, Nuove lettere.
[2] G. De Sanctis, Ricordi della mia vita, a cura di S. Accame, Firenze, La Nuova Italia, 1970, p. 12 (corsivo nostro).
[3] Sulle missioni archeologiche di quegli anni, cfr. M. Petricioli, Archeologia e Mare nostrum. Le missioni archeologiche nella politica mediterranea dell’Italia 1898-1943, Roma, Levi, [1990]; S. Altekamp, Rückkehr nach Afrika. Italienische Kolonialarchäologie in Libyen 1911-1943, Köln-Weimar-Wien, Böhlau, 2000; M. Munzi, L’epica del ritorno. Archeologia e politica nella Tripolitania italiana, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2001; C. Trümpler (a cura di), Das grosse Spiel. Archäologie und Politik zur Zeit des Kolonialismus, Köln, DuMont, 2008; C. Capaldi, O. Dally e C. Gasparri (a cura di), Archeologia e politica nella prima metà del XX secolo. Incontri, protagonisti e percorsi dell’archeologia italiana e tedesca nel mediterraneo, Napoli, Naus, 2017; S. Troilo, Pietre d’oltremare. Scavare, conservare immaginare l’Impero (1899-1940), Roma-Bari, Laterza, 2021.
[4] Sul dibattito del tempo e i suoi temi ricorrenti, F. Malgeri, La guerra libica. 1911-1912, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1970; N. Nelissen, Le «Corriere della Sera» et la campagne de presse à propos de la Libye (1910-1911), in «Risorgimento», 1, 1980, pp. 295-316; G. Cianferotti, Giuristi e mondo accademico di fronte all’impresa di Tripoli, Milano, Giuffrè, 1984; D.J. Grange, L’Italie et la Méditerranée (1896-1911). Les fondements d’une politique étrangère, Rome, École française de Rome, 1994; G. Monina, Il consenso coloniale. Le società geografiche e l’Istituto coloniale italiano (1896-1914), Roma, Carocci, 2002; G. Proglio, Libia 1911-1912. Immaginari coloniali e italianità, Firenze, Le Monnier-Mondadori, 2016; G. Bassi, Sudditi di Libia, Milano-Udine, Mimesis, 2018. Con maggiore riguardo all’antichità O. Tamburini, «La via romana sepolta dal mare»: mito del Mare nostrum e ricerca di un’identità nazionale, in S. Trinchese (a cura di), Mare nostrum. Percezione ottomana e mito mediterraneo in Italia all’alba del ’900, Milano, Guerini & Associati, 2005, pp. 41-95; A. Pellizzari, Giardino delle Esperidi o «Voragine di sabbia»? Mitologia, storia e simbologia antica nel dibattito parlamentare sulla guerra di Libia, in «Politica Antica», 2, 2012, pp. 107-131.
[5] Cfr. S. Agbamu, «Romanità» and Nostalgia. Italian Travel Writing in Libya and Tunisia, 1905-1912, in «CompLit. Journal of European Literature, Arts and Society», 2, 2021, pp. 145-167.
[6] D. Tumiati, Nell’Africa Romana. Tripolitania, Milano, F.lli Treves, 1911, pp. 63 e 165.
[8] P. Villari, L’Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica, Firenze, Le Monnier, 1862, p. 6.
[9] La canzone d’oltremare, vv. 109-114, in Merope (= G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, Milano, Mondadori, 1984, p. 651).
[10] Cfr. L. Braccesi, Archeologia e poesia 1861-1911. Carducci – Pascoli – D’Annunzio, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2011, p. 150.