Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c8
In Italia il licenziamento di ritorsione non è sanzionato penalmente (la sanzione penale colpisce solo gli atti discriminatori in sede di assunzione al lavoro, cioè gli atti di cui all’art. 1, lett. a) della convenzione n. 98 dell’OIL), ma è sempre nullo come tale, e comporta – del resto secondo una regola comune a tutti i casi di licenziamento ingiustificato – l’obbligo del datore di lavoro, reso esecutivo da un ordine del giudice, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Qualora sia li
¶{p. 244}cenziato senza giustificato motivo o senza giusta causa un lavoratore investito di funzioni di rappresentanza sindacale (o membro di commissione interna), il datore di lavoro, che non ottempera all’ordine del giudice, è obbligato a pagare per ogni giorno di ritardo, oltre alla retribuzione spettante al lavoratore in base al rapporto di lavoro, una somma di pari ammontare al Fondo pensioni, a titolo di pena pecuniaria (civile). Inoltre la legge italiana reprime con una pesante pena pecuniaria, irrogata dal giudice civile su domanda dei lavoratori discriminati (e devoluta sempre al detto Fondo), anche le discriminazioni attuate mediante la concessione di trattamenti collettivi di maggior favore ai lavoratori che non aderiscono a una associazione sindacale, non svolgono attività sindacale o non partecipano a scioperi.
10. La repressione dei comportamenti antisindacali dei datori di lavoro in Svezia, Francia e Italia. Breve confronto dell’art. 28 della legge italiana col modello americano.
Nella maggior parte degli ordinamenti europei manca una norma di chiusura del sistema protettivo della libertà sindacale, del tipo di quella prevista negli Stati Uniti dall’art. 8 del National Labour Relations Act del 1935: ossia una norma generale repressiva dei comportamenti antisindacali dei datori di lavoro, mediante una procedura speciale, semplice e rapida, alla quale siano direttamente legittimate le associazioni sindacali. Fino al 1970 la sola legge europea che in una certa misura poteva essere paragonata al modello americano era la legge svedese del 1936. Essa protegge il sindacato contro un complesso di unfair labour practices dei datori di lavoro, di estensione analoga a quello definito dalla legge Wagner, cioè sia contro comportamenti immediatamente lesivi dei diritti propri del sindacato, sia contro comportamenti antisindacali lesivi dei diritti individuali di libertà di affiliazione e di attività sindacale dei lavoratori. Ma la sanzione si riduce a un’azione di risarcimento dei danni, esercitabile dal sindacato nelle forme processuali ordinarie. Anche in Francia, limitatamente alle violazioni dei ¶{p. 245}diritti sindacali (sia propri del sindacato, sia attribuiti alle sezioni sindacali d’impresa), la giurisprudenza riconosce al sindacato un diritto di azione davanti al tribunale per il risarcimento dei danni. Tali violazioni, inoltre, sono incriminate da uno specifico titolo di reato (delit d’entrave), ma l’azione penale segue le procedure del diritto comune: e queste, lamenta il relatore francese, sono lente.
La legge italiana del 1970 ha introdotto una norma chiaramente ispirata al precedente della legge Wagner, ma con alcune differenze, delle quali è opportuno sottolineare almeno le più importanti.
Dal punto di vista sostanziale, la legge italiana non include tra i comportamenti antisindacali il rifiuto di negoziare opposto dal datore di lavoro ai rappresentanti sindacali dei propri dipendenti. L’imposizione agli imprenditori di un duty to bargain postula o l’accoglimento del sistema americano dell’exclusive representation, o almeno l’attribuzione del diritto di contrattazione collettiva esclusivamente alle organizzazioni sindacali più rappresentative: entrambe le soluzioni sono ritenute incompatibili col principio della libertà sindacale, secondo la concezione della Costituzione italiana
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La procedura italiana ha natura giurisdizionale ed è improntata ai modelli continentali dei procedimenti sommari. Essa conduce immediatamente (e più rapidamente) a un ordine esecutivo di cessazione del comportamento antisindacale intimato dal giudice al datore di lavoro, la cui violazione costituisce un reato analogo al conptempt of Court anglosassone. Invece la procedura americana ha carattere amministrativo e mette capo a un ordine non esecutivo emanato dal National Labour Rela
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tions Board; solo in una seconda fase, qualora il datore di lavoro rifiuti di ottemperare al provvedimento, questo può essere reso esecutivo dalla Corte competente, su richiesta dell’ufficio federale, con comminatoria di sanzione penale. Secondo la legge americana, nel caso di «pratiche sleali» che violino diritti individuali di uno o più lavoratori (per es. licenziamenti o trasferimenti discriminatori), anche costoro, e non solo il sindacato, sono legittimati a promuovere la procedura per la repressione della condotta del datore di lavoro. Secondo la legge italiana, invece, pure in questo caso la legittimazione ad agire appartiene esclusivamente al sindacato.
Nel caso indicato, l’Ufficio federale può ordinare al datore di lavoro non solo di desistere dal comportamento discriminatorio e di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro precedentemente occupato, ma anche di riparare il torto arrecato. Secondo la legge italiana, con la procedura in discorso il sindacato può ottenere soltanto l’emissione di un ordine di cessazione del comportamento illegittimo e di rimozione degli effetti, non anche provvedimenti di condanna al risarcimento dei danni. Per i provvedimenti di questo secondo tipo i lavoratori interessati devono avviare un giudizio separato secondo le regole processuali normali per le controversie di lavoro (la cui definizione, peraltro, è stata accelerata dalla riforma del processo del lavoro attuata dalla legge dell’agosto 1973).
Se poi si passa alla comparazione dei due sistemi da un punto di vista complessivo, emerge una differenza di fondo. Il sistema italiano è sbilanciato: manca il contrappeso di una qualsiasi disciplina dei modi di condotta del conflitto industriale da parte dei lavoratori organizzati, e specialmente delle modalità di esercizio del diritto di sciopero. Si direbbe che agli occhi del legislatore italiano del 1970 il sindacato (cioè le tre maggiori organizzazioni sindacali) sia apparso come agli occhi di Dio apparve l’Inghilterra nel glorioso 1689: «la guardò e vide che tutto era bene».
Note
[32] La teoria della democrazia pluralista non solo è un modello di sviluppo delle relazioni industriali diverso dal progetto originario delineato nella seconda parte dell’art. 39 e nell’art. 46 Cost., ma sottende anche una concezione della libertà sindacale meno assoluta di quella sancita nel primo comma dell’art. 39, e funzionalizzata alle esigenze di regolamento dei conflitti tra i gruppi.