Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c8
L’evoluzione nel senso del riconoscimento ai lavoratori e alle organizzazioni sindacali di nuovi diritti di libertà e di partecipazione nei luoghi di lavoro (rilevabile anche in Svezia, dove è in corso una riforma del sistema degli works councils nel senso della joint decision, in luogo della semplice joint consultation) ha avuto per breve tempo un’eccezione proprio in Gran Bretagna, dove la legge del 1971 introdusse una serie di limiti alla libertà di organizzazione e di azione sindacale e assoggettò il sistema di relazioni industriali a pubblici controlli [6]
. Ma la comparazione deve tenere conto della diversa situazione che fu all’origine della legge Carr, ormai abrogata. Scopo della legge non era di impedire l’organizzazione sindacale di fabbrica, e nemmeno di reprimere il movimento degli shop stewards per imporre al sindacato scelte organizzative diverse. Essa si proponeva piuttosto di colmare il vuoto istituzionale in cui si era sviluppata l’azione degli shop stewards, divenuta ormai fonte permanente di grave disordine nelle relazioni industriali. Anche i legislatori continentali, perfino (tra le righe) il legislatore italiano [7]
, che ha solidarizzato (bon gré mal gré) con lo spontaneismo del movimento, condividono il giudizio della commissione Donovan, che vede nella frammentazione della contrattazione collettiva ai livelli infraziendali di linea e di reparto il pericolo principale per le relazioni industriali [8]
. Il momento perplesso della legge Carr, che ne ha promosso la rovina, sta nell’avere creduto che l’imposizione di obblighi e di responsabilità formali alle trade unions fosse la via più adatta a ridurre gli shop stewards sotto il controllo del sindacato.
{p. 219}

4. L’organizzazione sindacale di fabbrica in Francia, Olanda e Italia. Comparazione della legge italiana 20 maggio 1970 (statuto dei lavoratori) con la legge francese del 1968 e con la legge tedesca del 1972.

Nei paesi in cui ha avuto successo la rivendicazione della presenza sindacale nelle imprese, l’inversione di tendenza si è sviluppata con caratteristiche strutturali e funzionali profondamente diverse, che risultano soprattutto dal confronto della Francia e dell’Olanda, da una parte, con l’Italia dall’altra.
Nei primi due paesi l’organizzazione sindacale di fabbrica è legittimata con riferimento a una struttura specifica, normativamente predeterminata, che in Olanda si identifica con le sezioni (o cellule) sindacali d’impresa, mentre in Francia si articola in due istituzioni distinte, le sezioni sindacali e i delegati sindacali d’impresa, con conseguente separazione delle funzioni di rappresentanza dei lavoratori e del sindacato territoriale. In entrambi i paesi le nuove strutture convivono con le tradizionali forme elettive di rappresentanza del personale (comitati d’impresa e delegati del personale in Francia; consigli d’impresa in Olanda, dei quali la legge del 1971 ha accentuato le funzioni di tutela dei lavoratori nei rapporti con la direzione). Ciò significa che l’organizzazione all’interno delle imprese di un contropotere dei lavoratori, controllato dal sindacato, procede secondo una concezione moderata, che non chiude tutti gli spazi al principio della collaborazione; significa dunque che in questi due paesi la società pluralistica conserva un minimo di consenso fondamentale sufficiente a trattenerla dall’assumere esclusivamente, come in Italia, la forma estrema del pluralismo conflittuale.
Il «caso italiano», ha osservato uno dei suoi analisti più impegnati, «non ha precedenti nella storia del movimento operaio di qualsiasi paese» [9]
. Ma occorre avvertire
obiettivamente che l’originalità non è necessariamente un pregio, e che i movimenti sindacali degli altri paesi non sembrano per niente intenzionati a procedere verso le posizioni «più avanzate» del sindacalismo italiano.
La legge 20 maggio 1970, nota sotto il nome di «statuto (dei diritti) dei lavoratori», si muove in una prospettiva diversa dalla legge francese 27 dicembre 1968, alla quale in una certa misura si è pur ispirata. Questa è impostata in termini di democrazia collettiva, cioè come provvedimento destinato a garantire nei luoghi di lavoro la presenza del sindacato e la tutela dei lavoratori in quanto organizzati nel sindacato; la legge italiana, invece, è impostata in termini di democrazia individuale, cioè come provvedimento destinato a sancire i diritti fondamentali dell’individuo nei luoghi di lavoro. In tale prospettiva essa presenta un punto di contatto con la legge germanica, la quale pure mira a proteggere il lavoratore subordinato come individuo [10]
, e in definitiva trova il suo fondamento nel principo costituzionale della Menschenwürde. Ma il legislatore tedesco segue ferreamente la logica del concetto di democrazia individuale fino a negare al sindacato in quanto tale il diritto di proporre liste di candidati alle elezioni dei Betriebsräte, mentre il legislatore italiano (con un passaggio ispirato al Wagner Act americano) recupera la dimensione della democrazia collettiva inserendo nella seconda parte del provvedimento un complesso di norme, dette «di sostegno», che appoggiano l’ingresso del sindacato nelle imprese in funzione di supporto dei diritti fondamentali riconosciuti ai singoli lavoratori. La portata pratica di tali norme va ben oltre l’orizzonte limitato della motivazione ufficiale, che le giustifica con lo scopo di conferire piena effettività ai Grundrechte individuali nell’impresa. Proprio perché consolidano la presenza sindacale nelle imprese, esse favoriscono di riflesso, garantendone le condizioni strutturali, la formazione di un contropotere collettivo dei lavoratori {p. 221}col quale la direzione dovrà permanentemente confrontarsi per tutte le questioni concernenti l’organizzazione del lavoro. Ma questa portata ulteriore, che incide profondamente non solo sull’assetto dei rapporti di produzione, ma sullo stesso assetto politico-costituzionale del paese, si svolge fuori da ogni regola legale, in uno spazio privo di forme giuridiche.
La legislazione di sostegno ha modificato incisivamente il rapporto di forza tra i gruppi sociali antagonistici, ma ha rinunciato ad adempiere il compito ulteriore che il modello del pluralismo conflittuale affida allo Stato: cioè il compito di regolare i modi di svolgimento del conflitto industriale, sia con norme idonee a favorirne gli sbocchi negoziali, sia con norme capaci di impedirne la degenerazione in comportamenti incompatibili con le condizioni di conservazione del sistema. Forse è un compito superiore alle possibilità del diritto come tecnica di controllo sociale, cioè di regolamento del potere sociale, e a questo proposito la vicenda, in verità poco edificante, della legge Carr può apparire esemplare. Ma resta il fatto che il legislatore italiano ha lasciato che il contropotere dei lavoratori organizzati nelle fabbriche si sviluppasse in un vuoto istituzionale, nel quale sulla regola del diritto, che è frutto di riflessione, prevale un’azione politica dominata dagli impulsi irrazionali della spontaneità.

5. I consigli dei delegati in Italia.

La legge italiana non definisce una specifica nozione di rappresentanza sindacale aziendale, né uno specifico modo del suo inserimento nell’organizzazione sindacale esterna. L’iniziativa della sua costituzione è lasciata ai lavoratori e non è vincolata a schemi associativi atti a promuoverne l’integrazione strutturale nel sindacato: si chiede soltanto che essa assicuri un collegamento che garantisca almeno l’integrazione funzionale della rappresentanza in un’organizzazione sindacale fornita di certi indici di rappresentatività [11]
. Ad abban{p. 222}donare l’orientamento iniziale, conforme al modello della legge francese, il legislatore italiano è stato indotto non tanto da preoccupazioni di legittimità costituzionale, che in realtà non avevano ragion d’essere, quanto dalla decisione delle tre maggiori confederazioni nazionali di considerare superato l’esperimento delle sezioni sindacali aziendali e di riconoscere come proprie «strutture di base» i consigli dei delegati (o consigli di fabbrica), cioè le nuove forme di organizzazione di massa (e come tali non di tipo associativo) spontaneamente espresse dal «movimento» nei luoghi di lavoro.
I delegati di reparto sono gli esponenti di un processo unitario dei lavoratori, caratterizzato dal superamento non solo delle barriere ideologiche, e quindi delle diverse affiliazioni sindacali, ma anche della distinzione storica tra iscritti e non iscritti al sindacato. Perciò i delegati italiani si distinguono nettamente dagli shop stewards inglesi. Come questi traggono origine dall’iniziativa spontanea dei lavoratori, si costituiscono fuori dall’organizzazione ufficiale del sindacato e attuano un inquadramento dei lavoratori diverso dall’inquadramento per categorie professionali (individuate in base al mestiere in Gran Bretagna, in base all’attività produttiva in Italia) operato dal sindacato. Ma gli shop stewards, essendo eletti dai soli lavoratori aderenti alle trade unions, si collocano pur sempre nella logica associativa del sindacato, così che la legalizzazione da parte del sindacato li qualifica come organi di questo nelle unità produttive. Invece, i delegati di reparto in Italia sono un fenomeno di rottura del principio associativo: la loro radice non è l’assemblea dei soci del sindacato occupati nell’impresa, bensì l’assemblea di fabbrica aperta a tutti i lavoratori, indipendentemente dall’affiliazione sindacale.
Non si tratta, tuttavia, di una nuova versione delle commissioni interne, che vanno ormai scomparendo. {p. 223}Queste sono rappresentanze del personale istituzionalizzate da una convenzione collettiva generale per l’industria; i loro membri sono (o, meglio, erano) eletti in base a liste precostituite e mediante procedure e controlli disciplinati da un regolamento elettorale allegato alla convenzione. Al contrario, i consigli di fabbrica rifiutano tenacemente qualsiasi regola di costituzione e di legittimazione concordata con gli imprenditori [12]
; i loro membri sono eletti col metodo assembleare e in ogni momento, col medesimo metodo, sono revocabili; la loro elezione non è assistita da nessuna delle istanze istituzionalizzate di controllo proprie della democrazia formale. Questa differenza sul piano organizzativo è il riflesso dell’ideologia essenzialmente diversa che guida l’azione dei consigli dei delegati. Mentre l’istituzione delle commissioni interne presuppone l’accettazione dell’organizzazione del lavoro secondo i criteri della razionalità capitalistica, i delegati di reparto rappresentano un movimento di contestazione radicale della legalità industriale in quanto fondata sulla concezione normativa del rapporto di lavoro come puro rapporto di scambio (cioè di mercato), che attribuisce al datore di lavoro il potere unilaterale di determinare i modi di utilizzazione del rapporto come mezzo di organizzazione dell’impresa. Perciò la contestazione dei delegati ha investito, all’origine, la stessa politica organizzativa e contrattuale dei sindacati, nella misura in cui appariva integrata in quella concezione e quindi incapace di spingersi oltre le tradizionali rivendicazioni economico-quantitative, dirette a negoziare le conseguenze dell’organizzazione del lavoro in termini di incrementi salariali.
Dopo il 1970 le tre maggiori confederazioni sindacali si sono impegnate in una politica comune di «recupero dei delegati», consolidata in un patto federativo sti
{p. 224}pulato nel 1972. La «costituzionalizzazione» dei consigli di fabbrica sancita dal patto, che li ha riconosciuti non solo come rappresentanze dei lavoratori nei luoghi di lavoro, ma anche come rappresentanze sindacali aziendali nei termini dell’art. 19 della legge 20 maggio 1970, cioè come rappresentanze unitarie dei tre sindacati federati, ha promosso all’interno dell’organizzazione sindacale, non più coincidente con le strutture associative, un processo dialettico di interazione tra movimento e sindacato. Il movimento ha spinto il sindacato ad assumere nella sfera dei propri fini la funzione di controllo dell’organizzazione del lavoro per la quale i delegati sono nati, e quindi a riqualificarsi non semplicemente come forza organizzata sul mercato del lavoro, ma come organizzazione di classe impegnata a tradurre in valori politici, realizzabili con l’azione sindacale, le nuove rivendicazioni «qualitative» emergenti dalla classe, le quali rifiutano di risolversi in pure rivendicazioni salariali, e mirano piuttosto ad aggredire direttamente, per modificarli, i rapporti di produzione. A sua volta il sindacato, accogliendo i consigli nella propria organizzazione e così assoggettandoli al metodo sindacale (che non è il metodo della lotta di classe, perché implica il riconoscimento di legittimità della controparte e la disponibilità al compromesso), tende a trasformare la loro funzione originaria di mera negazione della legalità industriale in una funzione positiva di partecipazione, mediante la prassi contrattuale, al potere costitutivo di tale legalità. Ma questo rapporto di reciproco condizionamento è carico di ambiguità, nella misura in cui il sindacato viene messo nella condizione di non poter conservare il ruolo di guida del movimento se non «incollandosi» alle rivendicazioni di questo, senza controllarne la compatibilità col sistema, del quale il sindacato è tuttavia parte integrante e fuori dal quale muterebbero radicalmente la sua natura e la sua funzione. Sembra che le tre confederazioni se ne siano rese conto, come indica il documento del patto federativo là dove propone ai consigli dei delegati, dopo averli promossi al ruolo di agenti ufficiali del sindacato nei luoghi di la{p. 225}voro, l’accettazione di un modello elettorale che riservi la maggioranza dei posti in consiglio a lavoratori iscritti al sindacato [13]
. È evidente qui la preoccupazione di ripristinare almeno indirettamente, nei confronti delle strutture di fabbrica, lo strumento di disciplina sindacale costituito dal vincolo associativo: strumento indispensabile se non si vuole che il controllo del sindacato rischi continuamente di essere sopraffatto dal regime assembleare di cui i delegati sono l’espressione nei luoghi di lavoro.
Note
[6] Caplat, Un tournant dans les relations sociales en Grande-Bretagne: la loi sur les relations industrielles de 1971, in «Droit social», 1973, p. 286.
[7] Cfr. Treu, Statuto dei lavoratori e organizzazione del lavoro, in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1972, p. 1059.
[8] Cfr. Kahn-Freund, op. cit., p. 74.
[9] Mancini, Le rappresentanze sindacali aziendali nello statuto dei lavoratori, in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1971, p. 811.
[10] Cfr. Spagnuolo Vigorita, Studi sul diritto tedesco del lavoro, Milano, 1961, p. 149.
[11] Secondo la formula di De Cristofaro, L’organizzazione spontanea dei lavoratori, Padova, 1972, p. 311, l’art. 19 dello statuto richiede un minimo di coordinamento che garantisca «a priori, e non in linea di mero fatto, la “egemonia” del sindacato» sulla rappresentanza costituita per iniziativa dei lavoratori.
[12] Questo rifiuto è stato teorizzato in un convegno di studi promosso dalla F.L.M. a Bologna nel luglio 1972. Gli atti, col titolo Potere sindacale e ordinamento giuridico, sono pubblicati dall’editore De Donato, Bari, 1973.
[13] In una situazione di (relativamente) scarsa adesione formale dei lavoratori al sindacato, la formula del patto federativo rovescia la formula originaria di Gramsci, L’ordine nuovo, in Opere, vol. IX, Torino, 1970, p. 133, secondo cui «i rapporti tra sindacato e consiglio non possono essere stabiliti da altro legame che non sia questo: la maggioranza o una parte cospicua degli elettori del consiglio sono organizzati nel sindacato».