Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c8
Dopo il 1970 le tre maggiori confederazioni sindacali si sono impegnate in una politica comune di «recupero dei delegati», consolidata in un patto federativo sti
{p. 224}pulato nel 1972. La «costituzionalizzazione» dei consigli di fabbrica sancita dal patto, che li ha riconosciuti non solo come rappresentanze dei lavoratori nei luoghi di lavoro, ma anche come rappresentanze sindacali aziendali nei termini dell’art. 19 della legge 20 maggio 1970, cioè come rappresentanze unitarie dei tre sindacati federati, ha promosso all’interno dell’organizzazione sindacale, non più coincidente con le strutture associative, un processo dialettico di interazione tra movimento e sindacato. Il movimento ha spinto il sindacato ad assumere nella sfera dei propri fini la funzione di controllo dell’organizzazione del lavoro per la quale i delegati sono nati, e quindi a riqualificarsi non semplicemente come forza organizzata sul mercato del lavoro, ma come organizzazione di classe impegnata a tradurre in valori politici, realizzabili con l’azione sindacale, le nuove rivendicazioni «qualitative» emergenti dalla classe, le quali rifiutano di risolversi in pure rivendicazioni salariali, e mirano piuttosto ad aggredire direttamente, per modificarli, i rapporti di produzione. A sua volta il sindacato, accogliendo i consigli nella propria organizzazione e così assoggettandoli al metodo sindacale (che non è il metodo della lotta di classe, perché implica il riconoscimento di legittimità della controparte e la disponibilità al compromesso), tende a trasformare la loro funzione originaria di mera negazione della legalità industriale in una funzione positiva di partecipazione, mediante la prassi contrattuale, al potere costitutivo di tale legalità. Ma questo rapporto di reciproco condizionamento è carico di ambiguità, nella misura in cui il sindacato viene messo nella condizione di non poter conservare il ruolo di guida del movimento se non «incollandosi» alle rivendicazioni di questo, senza controllarne la compatibilità col sistema, del quale il sindacato è tuttavia parte integrante e fuori dal quale muterebbero radicalmente la sua natura e la sua funzione. Sembra che le tre confederazioni se ne siano rese conto, come indica il documento del patto federativo là dove propone ai consigli dei delegati, dopo averli promossi al ruolo di agenti ufficiali del sindacato nei luoghi di la{p. 225}voro, l’accettazione di un modello elettorale che riservi la maggioranza dei posti in consiglio a lavoratori iscritti al sindacato [13]
. È evidente qui la preoccupazione di ripristinare almeno indirettamente, nei confronti delle strutture di fabbrica, lo strumento di disciplina sindacale costituito dal vincolo associativo: strumento indispensabile se non si vuole che il controllo del sindacato rischi continuamente di essere sopraffatto dal regime assembleare di cui i delegati sono l’espressione nei luoghi di lavoro.

6. L’assemblea di fabbrica. Punti di affinità della riorganizzazione sindacale in Italia col processo di rinnovamento sindacale in Jugoslavia.

L’assemblea è il nucleo centrale dell’organizzazione di fabbrica dei lavoratori, istituzionalizzata dalla legge italiana. La legge francese ha una visione più limitata del diritto di assemblea, che riconosce ai soli lavoratori aderenti alle varie sezioni sindacali d’impresa, cioè soltanto in quanto e nei limiti in cui la struttura associativa delle sezioni comporta l’organo assembleare. Anche i meetings dei lavoratori rappresentati dagli shop stewards in Gran Bretagna, pur non essendo organi dell’associazione, sono assemblee riservate ai lavoratori iscritti alle trade unions. La legge italiana, invece, riconosce a tutti i lavoratori il diritto di riunirsi in assemblea all’interno delle unità produttive in cui sono occupati, non solo fuori dell’orario di lavoro, ma anche, entro un certo limite di ore annuali, durante l’orario di lavoro senza perdita della retribuzione. È stata così legalizzata la forma spontanea più immediata di organizzazione di massa, espressa dal «movimento» negli anni 1968-’70. Ma nella disciplina legale la spontaneità trova un limite sia nella subordinazione dell’esercizio del diritto {p. 226}di assemblea (almeno per le assemblee retribuite) all’iniziativa delle rappresentanze sindacali aziendali, sia nella mancanza di qualsiasi sanzione di obbligatorietà delle delibere assembleati nei confronti di tali rappresentanze, e quindi del sindacato nell’ambito del quale operano. Perciò, dal punto di vista legislativo, si può ripetere per l’assemblea di fabbrica in Italia l’osservazione del relatore tedesco a proposito della Betriebsversammlung, che pure trova la sua origine nel movimento dei consigli operai del 1918: non essendo investita di alcuna competenza deliberativa, essa non è propriamente un organo della Betriebsverfassung.
Come la legge tedesca [14]
, così la legge italiana non ha accolto la concezione propria della teoria dei consigli operai, che attribuisce all’assemblea di fabbrica carattere sovrano e costituisce il consiglio come organo esecutivo delle delibere assembleati. Secondo la disciplina legale, l’assemblea è un semplice foro di informazione e di discussione. Ma a differenza della Betriebsversammlung, operante nello spirito della comunione d’impresa e di lavoro su cui si fonda la costituzione delle imprese tedesche (ha diritto di parteciparvi anche il datore di lavoro), l’assemblea di fabbrica in Italia si muove nello spirito antagonistico della lotta di classe, e quindi è funzionalizzata all’azione sindacale. E dal momento che i consigli dei delegati si sono inseriti nell’organizzazione delle tre maggiori confederazioni sindacali come loro rappresentanze unitarie di base, all’interno di questa organizzazione le assemblee di fabbrica conseguono una propria autonomia decisionale, in quanto sono il luogo di elezione dei delegati e ancora il luogo in cui i delegati devono rispondere e possono in qualunque tempo essere revocati. Esse sono perciò il luogo in cui tutti i lavoratori, indipendentemente dall’adesione formale al sindacato, possono inserirsi direttamente nei processi formativi della volontà del sindacato, il quale cerca di utilizzare tale forma di democrazia di{p. 227}retta come mezzo di rafforzamento della sua funzione di rappresentanza politica dell’intera classe lavoratrice.
In questo movimento di riorganizzazione dal basso verso l’alto si può osservare qualche punto di affinità col processo di rinnovamento sindacale in Jugoslavia. Comune è la tendenza a identificare le organizzazioni di base del sindacato nei nuclei fondamentali dell’organizzazione del lavoro, salvo il diverso significato di tale tendenza nei due sistemi: in Jugoslavia, essa mira a consolidare l’autogestione operaia dell’organizzazione del lavoro integrandola nelle strutture sindacali; in Italia, invece, mira a sfruttare a rovescio, ossia in funzione contestativa del potere imprenditoriale, l’organizzazione capitalistica del lavoro. Comune è pure la tendenza del nuovo sistema dei delegati a «sostituire il sistema classico della rappresentanza», cioè a instaurare, in luogo del tradizionale rapporto di mandato, che separa il sindacato dai lavoratori nel momento delle decisioni, un nuovo rapporto di partecipazione diretta dei lavoratori alla determinazione dei contenuti dell’azione sindacale.

7. Principio della libertà sindacale e legislazione di sostegno.

Come osserva giustamente la relazione austriaca, le questioni racchiuse nel titolo del primo tema di questo congresso presuppongono il superamento del principio della neutralizzazione sindacale delle imprese, e quindi hanno un’importanza ridotta e marginale – almeno de iure condito – nei confronti degli ordinamenti, come appunto quello austriaco e quello tedesco, in cui il sindacato come tale rimane escluso dalle strutture formali di governo delle relazioni industriali all’interno delle unità produttive. Ciò non significa, beninteso, che in questi ordinamenti la libertà sindacale non sia garantita ai lavoratori nei luoghi di lavoro. In quanto opera non solo nei rapporti con lo Stato, ma anche nei rapporti con i datori di lavoro, il principio costituzionale della libertà sindacale impone a questi ultimi un obbligo generale negativo di astenersi da ogni comportamento, anche nei luoghi di lavoro, diretto a impedire ai lavoratori di associarsi sin{p. 228}dacalmente, di aderire ad associazioni già costituite, di svolgere attività di proselitismo ecc., nonché il divieto di misure discriminatorie in ragione della loro affiliazione o non affiliazione a un determinato sindacato. Ma la libertà sindacale, mentre costituisce un limite al diritto di proprietà sull’azienda, al quale l’imprenditore non può appellarsi per ostacolarne l’esercizio, incontra, a sua volta, un limite negli obblighi di lavoro e di osservanza della disciplina aziendale, che ai lavoratori derivano dal contratto di lavoro. Sul piano dell’organizzazione imprenditoriale del lavoro, la libertà sindacale è un principio politicamente neutro, che di per sé non incide sul potere direttivo e disciplinare dell’imprenditore, e quindi sulla struttura normativa del rapporto di lavoro.
Il tema dei diritti e delle funzioni dei sindacati e dei rappresentanti sindacali nell’impresa propone all’analisi della scienza giuridica le conseguenze normative di una scelta politica, la quale trascende l’impegno costituzionale di garanzia della libertà sindacale, per tradursi in un intervento giuridico-istituzionale qualificato dalla funzione di sostegno e di consolidamento dell’organizzazione sindacale all’interno delle imprese. Quando, come in Francia e Italia, questo intervento si produce nella forma della legge, esso assume un significato di rottura del principio tradizionale di neutralità dello Stato di fronte al conflitto sociale. In altri paesi (per es. Olanda e Svezia) la normativa promozionale della rappresentanza sindacale ai livelli aziendali deriva esclusivamente da convenzioni collettive stipulate ai livelli superiori. Ma deve essere precisato che nei primi due paesi la disciplina legislativa ha preso le mosse da precedenti accordi tra gli imprenditori e i sindacati (la legge francese è addirittura una «legge contrattata»), e inoltre è integrata e migliorata da contratti collettivi successivi, in conformità a norme di rinvio contenute nella legge.
Un’altra distinzione preliminare deve essere messa in evidenza nell’ambito dei paesi caratterizzati da una situazione di pluralità sindacale. Mentre in Olanda le nuove forme di rappresentanza sindacale nelle imprese hanno
{p. 229}ottenuto riconoscimento in favore di tutti i sindacati, invece in Francia e Italia è prevalsa una tendenza selettiva, che ha condotto il legislatore a privilegiare alcuni sindacati [15]
. I benefici della legislazione di sostegno sono riservati ai sindacati che dimostrino di possedere una propria rappresentatività all’interno dell’impresa, a meno che siano affiliati alle confederazioni riconosciute più rappresentative sul piano nazionale, nel qual caso la loro rappresentatività è presunta. Fuori da questo caso la legge italiana, a differenza di quella francese, vincola la prova della rappresentatività a un indice predeterminato, il quale esclude a priori i sindacati aziendali, privi di base territoriale esterna.
Note
[13] In una situazione di (relativamente) scarsa adesione formale dei lavoratori al sindacato, la formula del patto federativo rovescia la formula originaria di Gramsci, L’ordine nuovo, in Opere, vol. IX, Torino, 1970, p. 133, secondo cui «i rapporti tra sindacato e consiglio non possono essere stabiliti da altro legame che non sia questo: la maggioranza o una parte cospicua degli elettori del consiglio sono organizzati nel sindacato».
[14] Cfr. Luttringer, op. cit., p. 73.
[15] Cfr. Mancini, op. cit., pp. 769 s. Sotto questo profilo la questione di legittimità costituzionale della legge italiana è stata dichiarata infondata da Corte cost. 6 marzo 1974, n. 54, in Foro it., 1974, I, c. 963.